La semplessità della libellula

Tu mi ami.
Con precisione
di orologiaio
e di arrotino
che intento affila
la lama e si fa
lama.
Tu mi ami.
Come io fossi il lago
è cosí che mi guardi
contemplando
quando meno mi accorgo
come se avessi un insondabile
fondo
e sorridi
all’enigma dei gorghi
che ti sono amici
perché portano a me.
E tu sei lago
che mi sciogli i muscoli
di atleta stanca
di acrobata invecchiata
tutti i me caduti sparsi
nella corrente,
con quiete
con volontà guaritrice
di acqua che sta.
Amore mio
cucciolo di uomo
guardiano di ferite animali
c’è il mondo
il mondo c’è
e ci intuisce.

Chandra Livia Candiani, Tu mi ami, da La bambina pugile, ovvero la precisione dell’amore

Non si cerchi il profondismo nei versi di Chandra Livia Candiani, essendo la sua cifra lirica riducibile a un concetto che si è andato recentemente affermando con le teorie di un fisiologo della percezione come Alain Berthoz: la semplessità. In un mondo in cui l’uomo è ingabbiato in una complessità che non ha precedenti nella storia, l’amore può soccorrerci e lenire il senso di smarrimento che procura la claustrofobica dimensione del labirinto di sovrastrutture sociali e psicologiche con cui rappresentiamo l’esistente. Amare è semplice come pregare, è disporsi alla richiesta in cambio di una tregua, è hiketèia, la supplica, ovvero la richiesta di protezione a scambio di resa. Amando ci consegniamo agli altri, chiediamo riparo per salvarci. Il rituale della supplica antica – Hiketides è il titolo originale della tragedia Supplici di Eschilo – prescriveva che il supplicante si facesse egli stesso dono, nella propria nudità di essere senziente, offrendo ramoscelli di ulivo o veli bianchi, e raccontandosi al supplicato senza imposture. Ma la supplica è anche un rito di passaggio, segna il confine tra il camuffamento sociale e l’elementare nudità animale, è punto di sutura tra Cultura e Natura. In questa disciplina dell’amore, il supplicante non perde nulla della propria dignità di essere umano per il fatto che implori, anzi, esponendosi senza difese esalta la propria nobiltà di essere vivente che chiede, appunto, di essere semplicemente, cioè di affermarsi ontologicamente, con quella levità che non è leggerezza, ma intuizione e meraviglia, contravveleno alla paura.

Eschilo, e con lui la tragedia greca, ci insegnano che gli atti del chiedere, supplicare, implorare non hanno niente di svilente, nel momento in cui ci mettono in relazione con l’altro e col mondo. L’essere che ama è come il naufrago che chiede aiuto per sopravvivere, il suo desiderio non è tanto quello di scampare alla morte, ma di riconoscere umilmente la presenza nella vita, tutto ciò che lo rende simile agli altri. Egli vorrebbe contemplare il battito d’ali della farfalla da un emisfero piuttosto che la catastrofe che genera nell’altro. Per affrontare la complessità sempre maggiore del mondo gli esseri umani hanno bisogno di soluzioni semplici, ma allo stesso tempo facili, un po’ come fanno i software che ci aiutano a gestire in modo intuitivo operazioni altrimenti macchinose. Un po’ come fa la poesia di Candiani che parla di qualcosa di complicato come l’amore – non complicato in sé, probabilmente, ma reso tale dagli esseri umani – utilizzando un linguaggio e degli scenari facilmente decifrabili.

Amare implica la disposizione dell’arrotino che affilando la lama si fa egli stesso lama, o dell’acqua che si avvita in gorgo da cui lasciarsi trascinare e poi si acquieta in lago che scioglie i muscoli. Ognuno può farsi «guardiano di ferite» altrui e non deve farci paura arrenderci; in un suo libro che s’intitola Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano, Candiani si definisce «una persona abbandonabile», intendendo l’abbandono non come possibilità dolorosa ancorché liberatoria (laddove non esistano le condizioni di un incontro), ma addirittura auspicabile «per incontrarsi davvero, per intendersi senza troppa fatica». Che è sua volta il presupposto per la leggerezza e la grazia di un nuovo incontro, come per le libellule o le farfalle.

Cuore e mente di madre

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Pier Paolo Pasolini, Supplica a mia madre

Sono pochi gli artisti italiani del Novecento che sono stati in grado, come Pier Paolo Pasolini, di scavarsi dentro oltre ogni pudore, di confessarsi al di là di ogni convenzione o di ogni irrazionale timore che la parola «rispetto» spesso nasconde. È così nella famosa e struggente Supplica alla madre, in cui l’autore s’immerge nel maelstrom della propria angoscia esistenziale identificandone il movente primario nel più assoluto degli amori, quello materno. Un amore che è speculare all’altro, assoluto e impossibile, che si era voluto perseguitare e punire, e di cui non avrebbe senso parlare ancora oggi, se la religione e lo Stato non provassero fastidio a sentirlo proclamato in ogni evidenza come naturale. Un motivo privato, viscerale e persistente che si porta appresso anche il suo contrario, cioè quello frustrato e frustrante col Padre, laddove il concetto di Padre implica non solo il confronto con il modello biologico, ma con la Tradizione – culturale, ideologica, religiosa – con cui entrò sempre in un rapporto dialettico e conflittuale.

Lo stesso rapporto di Pasolini con ogni altra donna, si chiamasse Laura Betti, Maria Callas, Silvana Mangano o Elsa Morante, passa attraverso il rapporto con la madre, l’unico in cui è andato a fondo, quello attraverso cui leggere il mondo, per ciò che Susanna Colussi, sua madre, rappresentava.

Il fatto di non vedere le donne nella loro realtà lo avrebbe portato a prendere posizione contro l’aborto, vedendolo essenzialmente dal punto di vista del bambino ancora non nato, dell’uomo “potenziale”, vedendoci la negazione di sé stesso come figlio e una forma di violenza da parte della madre, senza riflettere sul fatto che il più delle volte è la donna a subire la violenza.

estratto da In forma di rosa. Sei quadri e un requiem per Pasolini (2009), di Rosario Castelli

Complesso e contraddittorio Pasolini, come nessun altro, perché complesso umanamente e non solo per la deformazione del personaggio la cui esistenza e la cui opera, proprio perché così complessa, non si presta a essere romanzata. Ma anche per altri motivi come, per esempio, l’ampiezza della produzione e l’essere questa strettamente legata al momento storico-sociale in cui fu concepita, e soprattutto perché nella sue parole non c’è nulla di inessenziale: una caratteristica degli scrittori molto presi dal senso della propria attività, dalla frequente tentazione di auto-analizzarsi attraverso la propria arte. L’unico approccio possibile sembra, perciò, quello disordinato, onnivoro, candido e irrazionale che si conviene a un artista “rinascimentale” – l’ultimo della nostra storia – seppe tessere come in un retablo una ragnatela di interessi – la narrativa, la poesia, la critica militante, la filologia, la politica, la musica, la pittura, il cinema, il teatro – cosicché la sua migliore opera è la globalità della sua Opera, in un’inestricabile fusione di Arte e Vita.

Notte nazionale del Liceo classico

Si ama secondo Natura o secondo Cultura? In occasione della Notte nazionale del Liceo Classico che si è svolta il 5 maggio 2023, una lezione sul tema eterno in cui si prova a far dialogare insieme Lucrezio e Blanco, Cavalcanti e Brel, Petrarca e Flaubert, Francesca da Rimini ed Emma Bovary. Con la partecipazione straordinaria di Andrea Cappellano.

Notte nazionale del Liceo classico

A seguire, la chiacchierata con gli studenti del Liceo Classico “Amari” di Giarre che curano il podcast 4 caffè all’Amari, pensato e creato per i ragazzi degli istituti superiori.

4 caffè all’Amari

Sempre è per sempre

L’ultima nota del tuo addio
mi disse che non sapevo nulla
e che arrivavo
al necessario tempo
di imparare i perché della materia.
Così, fra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
raddoppiano la fame dell’orecchio.
Che è la strada, e la polvere,
la ragione dei passi.
Che la via più breve
fra due punti
è il giro che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un pezzo di Vivaldi.
Che i geni gentili
stanno nelle bottiglie di buon vino.
Una volta imparato tutto questo
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante scrissi
La Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio,
non si finisce mai
d’imparare e aver dubbi.
Così, ancora una volta
facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda una stella cadente,
seppi che la mia opera era scritta
perché La Più Bella Storia d’Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi.

Luis Sepúlveda, La più bella storia d’amore

La storia, nella sua scarna essenzialità, è questa: “Lucho” Sepúlveda conobbe Carmen Yáñez – la Pelusa – cui è dedicata questa poesia – nel 1968. Il Cile era allora sotto la presidenza del socialista Salvador Allende; la temperatura delle tensioni sociali era alta e Luis era un giovane molto impegnato, ancor più dopo il terremoto generazionale della morte del Che in Bolivia. Molti ragazzi attivi nella Gioventù comunista scoprirono allora che il partito nascondeva diverse notizie sulla rivoluzione cubana, ed entrarono in conflitto col partito, alcuni come lo scrittore vennero espulsi. Negli anni del governo di Unidad popular, tra incessanti riunioni, scioperi, manifestazioni, picchetti, volantinaggi, quel diciottenne sognatore, che incantava parlando di politica, di poesia, di libertà conobbe la quindicenne Carmen, lei era la sorella di un amico che gliene aveva vantato la bellezza: «è da mangiare», avrebbe detto. Dopo tante insistenze di Lucho, l’amico avrebbe accettato di presentargli la sorella, in cambio di due bottiglie di vino. «È quello che valgo» scherzerà Carmen anni dopo, in un video per i settant’anni di Sepulveda: «due bottiglie di vino, e neanche pregiato, di quello scadente, da supermercato».

Innamoratissimo, la sposerà dopo tre anni, nel 1971, concependo insieme un figlio: Carlos Lenín. Ma si vedranno pochissimo a causa dell’intensa militanza politica che li terrà lontani a lungo. La loro giovinezza finirà di colpo l’11 settembre del 1973, con il golpe di Pinochet che metterà fine al governo allendista, costringendo entrambi alla clandestinità e all’esilio: lui in Germania, lei in Svezia. Per entrambi sarebbe cominciato un periodo di clandestinità, arresti, torture e repressione. Sepúlveda lascerà il Cile nel 1977, Carmen quattro anni dopo, lui si trasferirà in Germania, lei in Svezia. I contatti tra i due saranno solo epistolari e telefonici, ma saranno costanti e amichevoli anche dopo il pacifico divorzio che converranno.

Lo scrittore si risposerà con Margarita, con cui vivrà ad Amburgo e da cui avrà altri tre figli, ma da cui si separerà dopo tredici anni di matrimonio. La seconda moglie tedesca aveva sempre saputo che il marito era rimasto innamorato di Carmen. Ed è a questo punto che accade quell’imponderabile che solo la fantasia letteraria riesce a concepire; Lucho vive ancora con la moglie in una casa nella Foresta Nera, anche se di fatto erano già sentimentalmente separati, e Margarita decide di invitare Carmen durante un’assenza dello scrittore, impegnato come ospite alla “Semana Negra” di Gijón del 1996. L’anno è fatidico, è quello che dà inizio al successo mondiale di Sepúlveda con la pubblicazione della Gabbianella. Al ritorno dalla Spagna, del tutto ignaro della presenza di Carmen e del figlio che lei ha avuto da un altro uomo, lo scrittore la trova in casa.

Ricomincia così, dopo vent’anni, la loro storia d’amore; i due decidono dopo pochi giorni di partire per Parigi mentre Margarita si offre di tenere con sé tutti i bambini. Ed è sul treno che da Basilea li porta in Francia che Lucho scrive questa poesia. Dopo una sola notte a Parigi, l’uomo le propone di andare a vivere insieme a Gijón e lì si trasferiranno dopo qualche mese, risposandosi nel 2004. Vivranno insieme, fino alla morte dello scrittore, in una casa magica affacciata sull’oceano, con i due animali che Sepúlveda amava immensamente: un cane di nome D’Artagnan e un gatto – Yoyo – che stava sempre ad osservarlo, per ore, mentre scriveva.

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Spesso il male di scrivere ho incontrato

Mi rivolgo ai miei studenti, passati presenti e futuri, di terra di mare e dell’aria. Gli altri miei venticinque lettori sono dispensati dal continuare a scorrere quanto sto per spiegare. Ai professori – è risaputo – si addice la pedanteria; nel mio caso si aggiunge il convincimento che le parole siano le cose stesse e usarle con chirurgica precisione sia essenziale non solo all’esattezza della comunicazione, ma anche per farsi un’idea di chi le pronuncia. Insomma: siamo le parole che usiamo, in inscindibile connubio tra forma e sostanza. Per conseguente deformazione professionale derivante dall’assunto, sappiate che non riesco a fare a meno di prestare attenzione anche alle sillabe che usate mentre parlate. E ancor più, per forza di cose, quando scrivete. La mia, perciò, non vuol essere una paternale, ma un bouquet di spassionati consigli di cui potrete avvalervi nei confronti della vita e di chi non sia disposto a trattarvi con l’indulgenza di cui, per quanto mi riguarda, potreste continuare a godere. Molti di voi, ve lo auguro di cuore, metteranno prima o poi piede in un’aula scolastica e, a parti invertite, dovranno a loro volta rendersi credibili facendo digerire qualsivoglia scrupolo grammaticale a classi di adolescenti acciabattoni che parlano peggio di un trapper recuperato da un qualsiasi episodio di Mare fuori.

Lo dico con tutto il rispetto per i veri trapper, per quei cacciatori ed esploratori come David Crockett che, durante la guerra d’indipendenza americana, scorrazzavano tra le Montagne rocciose del nord America, alla ricerca di selvaggina. Altro che Sfera Ebbasta e Colla Zio, coi loro nomi disneyani. Sorvolo su questo, radendo le intermittence du cœur che ora mi farebbero evocare le strisce a fumetti del Grande Blek che ho amato da ragazzino, per ribadire che l’habitus linguistico è il prodotto di una dimestichezza sartoriale cui ci si abitua con l’esercizio quotidiano delle parole, anche nelle incombenze più fastidiose e routinarie, come quella di scrivere un’email. E arrivo finalmente al punto: le email.

Quando vi accingete a scrivere a un docente per esternare le esigenze più disparate – prolungamenti d’esami; informazioni sui programmi di studio, richieste di appuntamenti; auguri; dilemmi esistenziali d’origine incontrollata – abbiate l’accortezza di ricordare che non vi state rivolgendo a un amico. Ma, in generale, fate vostro il principio per cui il registro formale da adottare, in ogni contesto, debba essere sempre adeguato al ruolo dell’interlocutore, e questo a prescindere – direbbe Totò – dai rapporti più o meno cordiali che si intrattengano con la persona in questione. Quindi, il primo elementare suggerimento è quello di usare il lei; il secondo è di essere il più possibile sintetici, precisi e chiari per ottenere che chi legge arrivi alla fine comprendendo senza fraintendimenti il contenuto. 

Ricevo ogni giorno decine di email e, se non ho presente immediatamente quale sia il problema, tendo a passare oltre, quindi usate una sintassi che prediliga le frasi brevi, costruite in maniera lineare – soggetto, predicato, complemento – e la coordinazione. Evitate comunque di essere generici nelle richieste d’informazioni, soprattutto se sul sito del dipartimento trovate già la risposta al vostro quesito. Di solito, chi lavora in un ente pubblico dispone di una casella di posta elettronica di servizio, identificata da un nome macchina particolare (es. rosario.castelli@unict.it) e di un indirizzo personale fornito da un altro provider (gmail, hotmail, tiscali, e compagnia cantando): è preferibile usare il primo quando l’oggetto della corrispondenza attiene a questioni che hanno a che fare col lavoro del destinatario. Anche le studentesse e gli studenti farebbero bene a dotarsi di un doppio indirizzo, scegliendo di volta in volta, a seconda del genere di comunicazione, un nome utente facilmente identificabile: evitate perciò imbarazzanti nomi di fantasia (p.e.: patatina21; puccipucci18; assodimazze), tanto più se utilizzate la mail per ragioni legate alla vostra vita universitaria. 

Di seguito, alcune dritte suggeritemi dall’esperienza reale, con esempi di svarioni realmente e facilmente documentabili:

  • Indicate sempre l’oggetto dell’email nell’apposito spazio; p.e.: richiesta di appuntamento e non una generica: richiesta.
  • Non iniziate ex abrupto con espressioni del tipo: sono la studentessa Fantoni Cesira (ricordate di far precedere sempre il nome al cognome quindi, semmai, Cesira Fantoni). Ancor peggio, mi è capitato e mi riferisco ai miei laureandi, è presentarsi con l’espressione: Sono la tesi su… che sa molto di dadaismo.
  • Usate una formula di cortesia che si collochi quantomeno a metà strada tra l’euforica pacca sulla spalla e la rigidità tassidermica, quindi non Salve prof, ma nemmeno Egregio professore che suona moderno come la ricostruzione dei canali di Venezia a Las Vegas. Va bene: Gentile professore, non abbreviato e col sostantivo in minuscolo. Anche se certe espressioni convenzionali possono sembrarvi affettate o antiquate, tuttavia, in una comunicazione formale, sono sempre preferibili allo sbraco e alla sciatteria diffusi.
  • Se fate una richiesta formale in terza persona (es.: il/la sottoscritto/a sottoscritto/a, fatela precedere da formule fisse del tipo Con la presente e concludere da altre come In attesa di Sue comunicazioni o In attesa di un Suo riscontro.
  • Se usate il Lei, ricordatevi che più autorevole è il destinatario (presidenti di corsi di studio; direttori di dipartimento) più è giustificata la lettera maiuscola tanto per i pronomi personali che per gli aggettivi possessivi, anche quando si trovano all’interno di una parola (ad esempio: Vorrei chiederLe…). Per quanto mi riguarda, tuttavia, voglio precisare che non ci tengo più di tanto. Questa dell’alternanza Maiuscole/minuscole è un retaggio del Ventennio fascista (a proposito: i nomi dei decenni o dei secoli vanno in maiuscolo, quelli dei giorni della settimana e dei mesi in minuscolo). All’epoca, era obbligatorio scrivere in questo modo i sostantivi indicanti autorità. Abusarne oggi mi suona come un’autodenuncia d’inferiorità, una forma di rispetto da popolani-servi. E soprattutto: mai scrivere in stampatello (MAI), a meno che non abbiate otto anni o scontiate un analfabetismo di ritorno. Le parole – ad eccezione dei nomi propri; di quelle a inizio di frase; di quelle che seguono punto fermo, punto interrogativo, punto esclamativo; delle prime di un discorso diretto – vanno scritte in minuscolo. Basse o piccole, per usare un’espressione corrente e corriva (peraltro errata), ma comprensibile, e che dovrebbe più che altro riferirsi alla dimensione del carattere e alla sua posizione rispetto al rigo o alle altre parole.
  • Suddividete il testo in brevi paragrafi, preferibilmente separati da uno spazio bianco.
  • Concludete con una formula di saluto, p.e.: Cordiali saluti; Cordialità, Cordialmente. Una a scelta, non tutte.
  • Firmate con NOME (prima) e COGNOME (dopo).

In ogni caso, la regola principe è quella di badare alla correttezza di ortografia e punteggiatura, evitando di riversare nello scritto modi di dire, vezzi desueti, lapsus, sbavature frequenti nella lingua, e di cui mi pregio di offrire sintetico e doveroso campionario.

  • missiva: se lo usate al posto di lettera, state tranquilli che non la state nobilitando;
  • di concerto: non rende il discorso più musicale, meglio preferirgli di comune accordo o d’accordo con;
  • con riferimento alla richiesta in oggetto: se è già specificata dall’oggetto, è espressione ridondante (non «rindondante», come mi è capitato di sentire, che ha sicuramente forza onomatopeica da poesia fonosimbolista a voler indicare un insistente scampanìo domenicale, ma non significa niente). Non siete manzoniani azzeccagarbugli che hanno bisogno di ricorrere a espressioni gergali per autocandidarsi a vestali di chissà quale competenza;
  • sta mattina (p.e.: «mi sono recato sta mattina»; «le invierò sta sera»): si scrive tutto attaccato, poiché l’aferesi dell’aggettivo dimostrativo questa, ‘sta, si unisce alla parola successiva in virtù di un fenomeno che prende il nome di “univerbazione”. ‘Sta (come ‘sti) sono portato ad associarlo comunemente ad altri sostantivi triviali. Lo stesso vale per stavolta, stanotte, stasera, fidatevi;
  • pultroppo: non esiste. Ogni volta che lo si usa muore una capra sotto una panca e trentatré trentini si suicidano prima di arrivare a Trento allegramente trotterellando. Si scrive purtroppo, per indicare rammarico o dispiacere;
  • apposto (p.e.: «ho controllato ed è tutto apposto»): è participio passato di apporre e si appone «a fianco» (non «affianco») nel senso di «collocato»; chi si ostina a usarlo per indicare che qualcosa è in ordine o regolare, lo fa apposta e non è a posto col cervello;
  • a livello di: mi spara in testa. Se lo usate per significare «relativamente a» (p.e. «non mi sento ancora pronto per l’esame, a livello di preparazione») avete giusto piallato la lingua al livello dell’encefalogramma piatto di uno stato comatoso. Se poi aggiungete «per cui vorrei rivedere un attimino il programma a livello di analisi dei testi», vi sconsiglio di presentarvi agli appelli, quando (non «dove») verrà il momento di valutare la vostra preparazione;
  • in calce alla presente, per dire «in allegato», solo se state pensando alla ristrutturazione di un immobile che necessita di una commessa di calcestruzzo;
  • imbocca al/a lupo: solo riferendosi all’atto di imboccare, e comunque da usare in modo transitivo («imboccare qualcuno», non a «qualcuno») nel senso di «nutrire», «dar da mangiare». Se proprio non potete farne a meno, è preferibile farlo con un canide in fase di svezzamento e non con un lupo adulto. Se invece intendete formulare un augurio, come quello che sinceramente vi faccio per la vostra carriera, scrivete: in bocca al lupo.

La vita in uno sguardo

Ve voglio dí ‘na cosa: quanno ve sto vicino,
nun me guardate,
si no scumbino.
E vuie ve n’addunate;
e niente, niente, tosta,
vuie cchiù ‘o ffacite apposta,
pè vedè
sta faccia mia ca se fa bianca o rossa.
E ce truvate sfizio… Ma pecché?…

Vuie me guardate, e j’ tremmo ‘a cap’ ‘o pere,
comme ‘na fronn’ a ‘o viento.
M’arreparo,
ma ancora tremmo.
S’affaccia nu penziero
e chistu suonno doce se fa amaro.

Sultanto si addu me venesse ‘a Morta,
m’avisseva guardà,
pecché sultanto allora
a chesta mia signora,
a braccia aperte, j’ l’arapess’ ‘a porta,
dicenno: «Trase, viéneme a piglià!»

Pecché sultanto tanno,
mentre stesse spiranno,
io ve dicesse: «Guàrdame,
nun rimanè avvilita,
‘na guardata d’ ‘a toja
s’adda pavà c’ ‘a vita!»
E murenno ve desse pure ‘o «tu»,
pecché fosse sicuro
ca nun tremmasse cchiù.

Eduardo De Filippo, Nun me guardate

Le poesie di Eduardo De Filippo mostrano una qualità su tutte: la frammentarietà quasi diaristica in cui a prevalere sono soprattutto stati d’animo comuni, tra lo stupefatto e il malinconico, lo struggente e lo scanzonato. Però, anche quando a parlare è un innamorato, come in questo caso, non è scontato individuare una matrice autobiografica. E questo perché, per tutta la vita, i versi funsero anche da laboratorio in cui potessero prendere forma situazioni e personaggi che si sarebbero riversati nei copioni. Certo è che, all’inizio del 1928, cui risale la bellissima Nun me guardate, nella vita di Eduardo era entrata in modo travolgente una donna che si può legittimamente ritenere la destinataria naturale del sentimento espresso. Si chiamava Dorothy Pennington – Dodò – ed era un’americana di passaggio in Italia, colta e affascinante, di cui Eduardo si era infatuato, facendone la prima delle tre mogli che ebbe, nonostante l’opposizione della sorella e della madre di lei che non vedevano di buon occhio il matrimonio con un attore di teatro (sinonimo anche allora, ahimé, di spiantato).

Il pensiero che in questi versi si affaccia è quasi stilnovistico, nell’attribuire alla potenza dello sguardo di una donna quasi dispettosa la capacità stessa di donare o rinnovare la vita; i sintomi sono quelli di uno stato febbrile che si manifesta a una sola occhiata: l’agitazione («nun me guardate, | si no scumbino»); le repentine vampate al volto; il tremore. Ma in un ipotetico inventario degli sguardi che dalla letteratura si potrebbe ricavare, è mitica la prospettiva che solo in limine mortis si possa sostenere – occhi negli occhi – la vista dell’amata e che in quel punto fatalmente debba cessare la vita stessa («na guardata d’a toja | s’adda pava’ c’a vita!»), come per una moderna Gorgone, ma senza serpenti in testa.

Poco sappiamo, per il resto, di quella sposa americana, pur intelligente e di ottima famiglia, che poco doveva capire probabilmente del dialetto napoletano e poco gliene caleva del teatro e dell’attività del marito. Che per Eduardo quella donna fosse però la sua luce lo potrebbe confermare un’altra poesia – ’O raggio ’e sole – , scritta nello stesso torno di tempo e in parte utilizzata in una breve commedia del ’32 dal titolo Gennareniello.

Lo scrittore immagina una casa fredda e buia in cui non entra mai la luce; quando la sua donna, giocando con uno specchio, indirizza sul volto dell’uomo il riflesso di un raggio di sole, sembra infondergli vita. Poi lo specchio viene poggiato e il raggio si ferma, e con esso la vita. Segno che la donna se n’è andata: «quann’ ’o raggio s’è fermato, | segn’è ca chi ’o muoveva se n’è gghiuta».

L’«esmesuranza» e l’«esvalïanza», ovvero: come rincoglionire in poche semplici mosse

O iubelo del core,
che fai cantar d’amore!
Quanno iubel se scalda,
sì fa l’omo cantare,
e la lengua barbaglia
e non sa che parlare:
dentro non pò celare,
tant’è granne ’l dolzore.
Quanno iubel è acceso,
sì fa l’omo clamare;
lo cor d’amor è appreso,
che nol pò comportare:
stridenno el fa gridare,
e non virgogna allore.
Quanno iubelo ha preso
lo core ennamorato,
la gente l’ha ’n deriso,
pensanno el suo parlato,
parlanno esmesurato
de che sente calore.
O iubel, dolce gaudio
ched entri ne la mente,
lo cor deventa savio
celar suo convenente:
non pò esser soffrente
che non faccia clamore.
Chi non ha costumanza
te reputa ’mpazzito,
vedenno esvalïanza
com’om ch’è desvanito;
dentr’ha lo cor ferito,
non se sente de fore.

Iacopone da Todi, O iubelo del core

O gioia del cuore, che fai cantare per amore! Quando la gioia s’infiamma, fa cantare l’essere umano veramente, e la lingua balbetta e non sa quel che dice: non può nascondere dentro di sé la dolcezza, tanto è grande. Quando l’intima gioia raggiunge il massimo fervore, fa davvero gridare; il cuore è infiammato d’amore, al punto che non lo può sopportare: la gioia fa gridare stridendo, ma in quel momento non si prova vergogna. Quando la gioia ha preso interamente il cuore innamorato, la gente lo deride, pensando ai discorsi di costui che parla in modo irrazionale di ciò che lo brucia. O gioia, dolce piacere che entri nella mente, il cuore diventerebbe saggio, se nascondesse il proprio stato: eppure non può evitare di gridare. Chi non ne ha esperienza ti reputa impazzito, vedendo lo strano contegno, come di chi vaneggia; internamente ha il cuore ferito e non percepisce il mondo esterno.

Certo, l’amore di cui si parla è quello per Dio, ma in cosa differisce da quello per un essere umano? Quando amiamo, non proviamo forse lo stesso intenso sentimento di gioia e di ebbrezza che fa toccare il cielo con un dito? Non è, l’amor profano, una forma anch’esso di esmesuranza che può condurre allo spossessamento di sé, che ci fa straparlare con chiunque della persona amata, facendocela idealizzare e magnificare ben oltre ogni connotazione realistica, producendo il vaneggiamento (esvalïanza) finale? Si dirà che iubelo, termine frequente, oltre che nel componimento, nel lessico mistico in genere, non lasci àdito a dubbi sul fatto che di amore per l’Altissimo si stia parlando. Epperò Iacopone – bricconcello – per celebrare l’amor sacro, usa in abbondanza il lessico della poesia profana, disseminando la sua lauda di tanti provenzalismi tipici della lirica dei trovatori: il «cantar d’amore», il «dolzore», per dirne una, vengono da lì per poi fare rotta verso i siciliani.

La stessa impossibilità di profferire parola al culmine dell’estasi mistica («e la lengua barbaglia | e non sa che parlare») ricorda l’impaccio che coglie, in Madonna mia, a voi mando, Giacomo da Lentini in presenza della donna amata, e lo fa ammutolire quasi rincoglionito («da poi ch’e’ per dottanza / non vo posso parlare»). Per non dire che il ricorrente concetto del calore («Quanno iubel se scalda»; «Quanno iubel è acceso») come proiezione figurale dell’amore ha un suo corrispettivo in Guinizzelli di Al cor gentil rimpaira sempre amore («e prende amore in gentilezza loco | così propïamente | come calore in clarità di foco. | Foco d’amore in gentil cor s’aprende | come vertute in petra prezïosa»; «Amor per tal ragion sta ’n cor gentile | per qual lo foco in cima del doplero»). Queste spie che ci dicono della sicura conoscenza, da parte dell’autore, di modelli della tradizione, basterebbero a farci ritenere che egli volesse scrivere un testo “letterario”, una poesia d’amore, e non solo una preghiera. Connesso a questi motivi, è poi il motivo della dolcezza («tant’è granne ’l dolzore»; «dolce gaudio»); in siciliano (ma anche in calabrese), l’espressione «aviri u cori ‘nto zuccuru» (avere il cuore nello zucchero), che potrebbe figurare benissimo nel lessico della gentilezza cortese per significare la condizione di chi è infatuato, è pregnante anche per dire di come l’eccesso di dolcezza possa finire col produrre, dopo il picco dell’innamoramento, segnali di altra natura: malinconia, incupimento, tristezza. Esattamente come avviene al corpo e all’umore con l’iperglicemia.

Il bisturi e la penna, il sangue e l’inchiostro

Cui facissi d’iłłu notomia in ogni parti ci truviria a N.
Quandu, tiranna, a casu ti placissi
di fari di mia stissu notomia,
e carni e sangu et ossa mi vidissi
per satisfazioni tua e mia,
iu letu e tu contenti ristirissi
e satisfatta la tua chirurgia,
perchì di parti in parti scopririssi
chi tu sì ngrata e iu moru per tia.

Se qualcuno vivisezionasse il poeta, / troverebbe l’amata in ogni parte. | Tiranna, se per caso ti venisse voglia | di notomizzarmi, | e con mia e tua soddisfazione | vedessi la mia carne, il mio sangue e le mie ossa, | io ne sarei lieto e tu contenta, | e soddisfatta la tua operazione chirurgica, | perché da parte a parte scopriresti | che tu sei ingrata, e io muoio per te.

Antonio Veneziano, dal Libro delle rime siciliane, Libru primu (Celia), 11

Nel secol – il Cinquecento – che più della luce di Petrarca prese, non pochi bagliori s’irradiarono dai versi di Antonello Veneziano (più noto come Antonio). Quello per l’aretino fu un trend virale che in Sicilia conobbe non pochi testimonial: un’ostinata fedeltà garantita da svariati poeti d’accademia impegnati a competere, e in qualche caso a vincere, la sfida con i colleghi delle altre regioni italiane. Ma Veneziano aveva una marcia extra, non fosse altro che per quell’aura d’artista maudit che la sua vita da rebel without a cause gli assicurava, e che lo portava a entrare e uscire di prigione a più riprese, lui, educato dai gesuiti e figlio di un mastro notaro della Curia monrealese.

Tra omicidi e veri e propri ratti (nel 1573 era stato accusato di aver sottratto a una terziaria domenicana una servetta di cui s’era invaghito), il siculo Petrarca conobbe pure Cervantes in una prigione algerina, dopo essere stato catturato dai corsari. E già questi dettagli gli varrebbero almeno un film. Anche perché dall’immortale autore del Chisciotte ricavò sincera stima e amicizia, prima di essere riscattato dalla schiavitù grazie all’intervento della sua ricca e potente famiglia che volle riportarlo a Monreale. Sciarrino (leggi “litigioso”) come pochi, si impegolò ancora in liti e contese a colpi di carta bollata e di libelli contro chiunque – parenti, vescovi e viceré – che gli valsero ancora i ferri, a Palermo, dove morì tragicamente nel ’93 a seguito di un incendio che arse insieme prigioni e detenuti: gioventù bruciata, è il caso di dirlo. A dispetto di tanta vita spericolata, era però anche un uomo molto colto che produsse prose eleganti nonché versi in lingua di apprezzabile nitore; ma le settecentocinquantatre canzuni siciliane scritte per la misteriosa Celia sono, senza tema di smentita, il suo greatest hits. Sullo sfondo c’è sempre il più famoso Canzoniere, ma nell’emulazione di quei famosi stilemi l’aspetto meno convenzionale, e perciò stesso originale, fu il tentativo di pennellare le immagini e le situazioni da repertorio in un modo più espressivo e realistico di quanto non riproducessero le rarefazioni astratte e intellettualistiche di maniera. Insomma, anche quando scriveva veniva fuori la sua indole eslege, con quel gusto per il coup de théâtre d’impatto, per quella ruvidezza da carta vetrata così aliena dalle levigature dei petrarchisti doc.

Lo si può notare anche in questi versi in cui invita l’amata a dissezionarlo chirurgicamente per farle trarre la soddisfazione un po’ sadica di ritrovare in ogni parte del suo organismo tracce di lei. Già il solo dire questo in un registro dialettale “basso” non è poca roba nella storia della poesia cinquecentesca cui si addiceva, all’inverso, l’elevatezza con cui dipanare la tematica amorosa. Se a questo si aggiunge che, pur in questo sdrucciolamento stilistico, Veneziano riesce a essere a un tempo tenero e beffardo, accorato e sprezzante, si capisce come riesca a svisare da virtuoso sulla tastiera linguistica, come uno Scott Joplin ante litteram che alterna ritmi sincopati e contrattempi (come nel dittico finale «perchì di parti in parti scopririssi | chi tu sì ngrata e iu moru per tia»), a riprova di quanto la poesia riesca a essere, talora inconsapevolmente, il correlativo del temperamento di chi la produce. Nel caso di Veneziano, l’espressione di un vitalismo estremo e dannatamente sensuale.

Fuoco d’amore e sospiri estremi

È un foco Amor, che ascoso tien l’ardore; | è ferita, che punge, e non si sente; | è un piacer, che tien l’alme discontente; | è acerbo duol, di cui non si ha dolore: || è un non voler, che ciò che vuole Amore; | è un andar solitario tra la gente; | è un godere con voglie non mai spente; | è un credersi felice ove si more: || è un suggettarsi i vincitori a i vinti; | è uno stare in prigion, perché si vuole; | è un esser fidi a chi ci brama estinti. || Come mai de l’Amor si grande amico | è il core uman, che senza lui si duole, | se Amore de gli amanti è si nemico?

Amor he hum fogo que arde sem se ver; | He ferida que doe e não se sente; | He hum contentamento descontente; | He dor que desatina sem doer; || He hum não querer mais que bem querer; | He solitario andar por entre a gente; | He hum não contentarse de contente; | He cuidar que se ganha em se perder; || He hum estar-se preso por vontade; | He servir a quem vence o vencedor; | He hum ter com quem nos mata lealdade. || Mas como causar póde o seu favor | Nos mortaes corações conformidade, | Sendo a si tão contrário o mesmo Amor?

Luís Vaz de Camões, Amor he hum fogo que arde sem se ver

Di Luís de Camões si sa poco e quel che si sa è parente stretto della leggenda. L’autore delle Lusiadi, il poema nazionale portoghese e del suo massimo eroe, Vasco de Gama, vive nel Cinquecento, il secolo in cui l’Europa letteraria è letteralmente attraversata dal richiamo imperioso della poesia petrarchesca. Al richiamo del componimento alla maniera di non resiste nemmeno lui, ma a differenza di tanti sterili emuli banalmente preoccupati di adeguarsi al costume normativo dell’epoca, si libra altissimo e con sincerità d’ispirazione. Basterebbe anche solo questo sonetto a consacrarlo nel Pantheon lirico lusofono, e non solo in quello. La traduzione di questo sonetto è ottocentesca, si deve a Juan Francisco Masdeu, un erudito spagnolo di origini siciliane (era nato a Palermo), un gesuita esiliato in Italia dopo l’espulsione del suo ordine, che la consegnò a un volume il cui titolo (lunghissimo) riporto perché così mi aggrada: Arte poetica italiana di facile intelligenza. Dialoghi familiari diretti ad insegnare la poesia a qualunque persona di mediocre talento, sia uomo, o donna, benché non altro sappia che solo leggere e scrivere.

La natura ossimorica dell’amore si traduce, con Camões, in un fuoco di fila di metafore caratterizzato dall’eterogenesi dei fini, per cui l’effetto contraddice puntualmente la causa: è fuoco che avvampa, ma non brucia, ferita di cui non si sente il dolore, morte di cui essere felici, un sottomettersi ai vinti. E così via. Da questo bulimico catasto di paradossi e contraddizioni in cui il secondo termine del verso funziona come complemento del primo, ciò che risalta è il voler mettere in dialogo una realtà sensibile (la ferita che fa male) e una spirituale che trascende la prima (non si sente il dolore). Come si fa perciò ad amare l’Amore (assunto che sarà molti anni dopo di Stendhal) ed essergli amico, al punto che non sappiamo farne a meno, se questo è l’aguzzino di ogni amante che si rispetti? Di quest’irresolubile querelle è forma e figura il ricorso costante ad anafore, metafore, ossimori antitesi ordinati in perfetta simmetria, a comporre la musicalità che era fondamento e ragione stessa di quella sublime e frustrante storia di uno scacco matto esistenziale in trecentosessantasei frammenti che era il Canzoniere petrarchesco. A replicarne la sentenza in modi quantomeno più dubitativi del velleitario tentativo di “guarigione” di messer Francesco dal suo «giovenile errore» è proprio l’interrogativo finale che ci dice, in sostanza, qualcosa di non molto diverso da quanto afferma Dante nel suo approccio alla beatitudine celeste: l’Amore, parafrasando, è un’estasi di cui si può solo godere, senza illudersi di penetrarne la ragione «perché appressando sé al suo disire, | nostro intelletto si profonda tanto, | che dietro la memoria non può ire». E questo perché, con buona pace degli aristotelici sillogismi di Camões, da che mondo è mondo l’unica cosa che sappiamo dell’Amore – come di Dio, e come di Luís de Camões – è proprio il nostro non saperne niente, ciò nonostante ostinandoci nel disperato e commovente tentativo di provarci almeno a capirne qualcosa, fino a volerci rompere la testa.

Santa e dannata, senza resa o rancore

Rinnovate ho per te le antiche date
sino da quando l’Ellade gioiosa
si compiaceva d’ogni assurdo, cupo
seno di vergini aggiogate
allo splendido carro apollineo.
E, infuriata com’esse grido all’ara
del tuo amore perfetto
tutta la forza del mio sangue oscura.
Tu, bellissimo Iddio che nella fronte
reggi un gioiello di pazienza duro
e sopporti implacabile le forme
del mio amore vivace, tumultuoso,
guardi alle mie incertezze come a un campo
seminato di indocili bufere
guardi apprensivo l’occhio del Signore.
(Ché cristiana son io ma non ricordo
dove e quando finì dentro il mio cuore
tutto quel paganesimo che vivo).

Alda Merini, Rinnovate ho per te

AM א: le iniziali sovrapposte assomigliano graficamente alla prima lettera dell’alfabeto ebraico: A come áleph, l’inizio connesso all’uomo stesso, M come Merini e come Maria, quella con cui dialoga nel suo Magnificat, cioè la Donna della Parola, che accoglie dentro di sé, nel grembo, il corpo d’amore, il messaggio eterno che dovrà trasfigurare. Forse in questo capriccio critico si può nascondere la chiave che può aiutare a squadernare l’intimo dissidio che regge i versi della più pop tra le poetesse italiane del Novecento (la consacra tale l’acritica alluvione di pagine che le dedica il web), tra la vertigine di una dimensione fortemente spirituale e l’abisso dei sensi, di un «corpo, ludibrio grigio» che imprigiona e però apre le porte dell’anima. La sensualità non è impermeabile alla manifestazione del divino, anzi accade sovente che proprio la carne ne registri la presenza, ne illumini l’enigma. Il corpo è l’orma dell’Invisibile divino e solo nell’amore trova verità e tregua. Spirito e carne in una perenne lotta d’amore, dunque, in un continuo dialogo di senso, fatto di assordanti silenzi e tacite grida, seduzione e abbandono.

Non è facile, nel caso della «poetessa dei Navigli» accostarlesi mantenendo il convenzionale distacco critico necessario al giudizio, e forse nel suo caso non è nemmeno necessario adottarlo, o non è comunque più produttivo del lasciarsi empaticamente invadere da una parola anche ritmicamente intrisa di furori pagani e tregue apollinee, sensualità e malessere, santità e dannazione. Troppo ingombranti e fuorvianti risultano la sua biografia, il calvario della malattia e la tortura dell’internamento, perché si possano accantonare, eppure la poesia s’impone sempre, restituendo quasi mutati i dati biografici, quasi che sia la vita stessa a derivare da essa. Scremati tutti i riferimenti alla “naturalità” e spontaneità della sua poesia, nonché la facile e scontata prossimità con la leggenda della sua vita, in perenne lotta col disordine mentale, si farebbe bene a ricordare, con Maria Corti, che «la scrittura poetica è un dato che mette nell’ombra ogni cronaca coi suoi eventi».

Certo le tematiche di Merini inducono alla tentazione di accostare la sua scrittura pulsionale alla matrice confessionale, di matrice anglosassone, di autrici come Sylvia Plath o Anne Sexton, testimoni ed eredi di grandi sistemi lirici di natura emozionale ed esperenziale già schizzati, a cavallo fra Ottocento e Novecento, da Emily Dickinson, Emily Brönte o Elisabeth Barret Browning. Ma laddove le due inglesi precipitano nel maelström allucinatorio di una bellezza infinita e irredimibile, Alda accetta invece fino in fondo l’itinerario della Passione. O forse sarebbe più giusto ammettere che, nella vocazione confessionale di molte poetesse “maledette”, c’è qualcosa che le accomuna alla dimensione mistica, la traccia erotica di un dolore segreto che attraversa tutta la vita e la scrittura, come la traccia di un’assenza mai colmata. La confessione sembra essere un metodo per non annichilire e disperdersi, ma conseguire una condizione quasi di invulnerabilità; tutta la poesia di Alda è alla ricerca di questa unità, essendo la quotidiana frantumazione, dualismo e dispersione di sé. Per lei, la reductio ad unum passa attraverso l’Amore, intermediario tra vita sensibile e contemplazione del vero, come affermava la grande filosofa spagnola Marìa Zambrano (La confessione come genere letterario), mentre la natura della nostra vita è «dispersività, passività e passionalità» e la verità non può avere la meglio sulla vita se non innamorandola, rendendola «resa senza rancore».