L’America era musica e ballo, al tempo del ragtime. E il cinema faceva sembrare più grande la vita. Bastava che Fred Astaire si lucidasse ritmicamente le scarpe sulla Quarantaduesima e Gene Kelly ballasse il valzer con la scopa o la gavotta con gli ombrelli. Ogni oggetto poteva diventare attrezzeria per un balletto improvvisato. La musica entrava dalle scarpe che erano le prime a battere il tempo di uno swing. E avvolgeva uomini e donne. E li risarciva del fatto che nella loro vita di ogni giorno la musica mancasse invece del tutto. Qualcosa in più della pura fantasia. In quei film, il semplice camminare o bere un drink poteva diventare danza. Da un momento all’altro. Sisto Sesto spesso s’intesta se si insiste, e resiste: il suono della battuta di Gene Kelly che prende lezioni di dizione suona come la spazzola di Cozy Cole sul piatto del charleston, nella leggendaria big band di Cab Calloway. Perché la musica è anche nelle parole. Fred e Gene: mani in tasca, cappello all’indietro. Anche il sorriso ammiccante sembrava musica. E se cantavano non erano più solo voci di cantanti, ma l’estensione dei desideri di ogni uomo. Come a dire: noi non sappiamo cantare come loro, ma se sapessimo farlo, canteremmo proprio come loro. Oggi nessuno potrebbe uscire per strada di notte cantando Singing in the rain perché sarebbe aggredito e malmenato al primo ritornello. Ma a quel tempo, se lo faceva Gene Kelly, l’apostolo della fiducia americana in sé stessi, sembrava possibile pure questo.
E poi, vedere e ascoltare Un americano a Parigi è come viaggiare nel tempo e inciampare per un capriccio in una zona perduta dell’entusiasmo americano, lì dove l’innocenza e il furore si danno la mano. I got rhythm: è questo che conta. Avere ritmo. Con tutto ciò che vuol dire in termini di capacità di vedere l’aspetto luminoso e colorato di una vita che aspira alla condizione di una danza su una suite di Gershwin. Di quella musica si poteva dire quello che Leslie Caron dice della capitale francese in Un americano a Parigi: «ha tutto per far dimenticare». E in effetti da qualche parte, in ognuno di quei film, c’è sempre qualcuno che, anche se non lo dice, pensa che finché il ritmo è alto, non si sente il rumore del mondo che cade a pezzi.
