Un mio caro amico e collega, su Facebook, fa giustamente notare la somiglianza tra il soggetto dell’ultimo film di Tornatore – La corrispondenza – e un testo di Gesualdo Bufalino (“Nulla di male se la bellissima idea del bellissimo film di Tornatore deriva paro paro da una paginetta di Bufalino”). Nulla di male, in effetti. Lo scrittore comisano, da cinefilo, non se ne sarebbe adontato. Forse lì dov’è ora, al di là delle nuvole, ha già reincontrato le “figurine del tempo che fu”, la “famiglia reale” delle comparse hollywoodiane che amava e custodiva nella sua memoria di cinefilo d’antan. Lui stesso usava il cinema come fonte d’ispirazione, a voler rintracciare le schegge, gli inserti, le citazioni frutto della sua memoria di spettatore, e ci provò pure a scriverla una sceneggiatura dal suo Argo il cieco. La si può leggere in un libro intitolato, con espressione amorevolmente rubata a Marcel Carnè, L’enfant du paradis. Il suo dialogo col cinema fu costante e solitario, come lo è quello di Tornatore con la letteratura (quella dei siciliani innanzitutto, se penso a un film “sciasciano” come Una pura formalità).
Nel caso di Bufalino è una liaison tanto stretta e fatale da porre anche un altro problema, che non è quello della puntuale analisi delle relazioni testuali tra le sue pagine e i film che amò, quanto piuttosto la questione del modo in cui determinate categorie della narrazione cinematografica – quali quelle dello spazio, del tempo, del personaggio, del punto di vista, dell’autore, del narratore – abbiano potuto operare all’interno del suo universo letterario. Che il flash-back l’avesse inventato Proust e non Griffith verosimilmente doveva crederlo lo stesso Bufalino, che con l’autore della Recherche intrattenne qualche fertile commercio; sarebbe piuttosto da chiedersi quanta della fascinazione prodotta dal cinema – da quello americano di Chaplin e Stroheim a quello francese di Clair e Bresson – abbia determinato una sorta di corto circuito creativo, traducendosi nella immaginazione visiva che produsse i “sogni della memoria” di Argo il cieco o la “vicevista” della macchina fotografica di Tommaso e il fotografo cieco. Qualcosa di simile, insomma, alla prospettiva dello sguardo come forma di conoscenza, adottata da Calvino in Palomar, in cui la descrizione di ciò che veniva osservato si configurava come unica possibilità della scrittura, in un mondo orfano di qualsiasi forma di sistematicità. Niente di male, perciò, se registi e scrittori vengono reciprocamente attraversati da folgorazioni e choc estetici mutuati da scritture altre. Era già accaduto, alle origini del cinema, a David Wark Griffith con Charles Dickens.
