E’ successo di nuovo, domenica scorsa. Mi capita almeno una volta al mese, mi sveglio con un proposito titanico, un impeto superomistico che mi fa scattare dal letto e mi fa entrare direttamente dentro una tuta da ginnastica. Non si tratta di jogging o di andare a funghi; il mio velleitario slancio si condensa in una frase: “Oggi riordino il garage”. Un attimo dopo averla pronunciata, però, è come se tutto acquistasse un’altra velocità, come quando scali tre marce in una volta, in prossimità di una curva che non t’aspetti.
I garage non hanno quasi mai la funzione che gli è stata assegnata da chi li ha progettati. Lo realizzi senz’esitare appena ci metti piede. Il mio vede solo di rado la macchina che, per pigrizia, lascio spesso fuori casa. Queste umide catacombe delle nostre case sono magazzini degli anni perduti, freddi container della memoria familiare, bui silos del c’è-stato-un-tempo-che. Magari non immensi, come il magazzino di Xanadu del cittadino Kane di Quarto potere. Ma anche senza la scritta Rosebud, uno slittino per la neve l’ho conservato pure io. Assieme ai dopo sci e alle catene nuove nuove per gli pneumatici. Mai capito come si montano… C’è pure la kitchissima collezione di boule de neige – una per ogni città che ho visitato – e come ne andavo fiero! E centinaia di videocassette orfane di videoregistratore, anche se almeno uno l’avrò conservato, ne sono sicuro. Sì, ma dove? Non importa, quei film li ho ricomprati tutti in dvd. E poi cornici. E quadri sopravvissuti a tanti traslochi, che prima avevano il loro belvedere e ora invece dove li metto? Mi avanza anche una rete, un materasso, una scrivania e un portabottiglie che avevo trovato già in una delle mie case passate e che mi sono portato appresso. E dire che sono pure astemio.
Si fa presto a dire cianfrusaglie, se non riusciamo a liberarcene. Sono i sedimenti stessi delle nostre vite, le scorie di un vissuto di cui abbiamo paura a disfarci. Con il ciarpame dei nostri garage siamo empatici come i sequestrati con la sindrome di Stoccolma. Solidarizziamo con chi ci tiene in ostaggio, perché se quelle cose hanno invaso le nostre esistenze, in qualche punto preciso del nostro spazio-tempo, un quid che giustificasse il loro passaggio nelle nostre giornate l’avranno pure avuto. Magari per poco, anche se non ce lo ricordiamo più. Hai voglia a prenderti gioco degli accumulatori seriali; alzi la mano chi non ha un garage soppalcato scaffalato mensolato, in cui dà residenza a scatoloni di libri scolastici, collezioni di vinili, pile di videocassette, quadri e manifesti, scatole e scatoline di bulloni chiodi viti dadi brugole, giocattoli dei nostri figli che nel frattempo sono andati a vivere altrove. Ma chissà… la prossima volta che verranno a trovarci li cercheranno perché è bello ricordarsi della propria infanzia. Non è vero. Non gliene frega niente perché loro le curve le prendono ancora in velocità. Siamo noi che abbiamo rallentato, che sbandiamo sull’asfalto oleoso della malinconia, che cerchiamo sempre di manovrare in retromarcia verso lo stallo del temp perdu. E poi custodie, tante, troppe, foderate a colori sgargianti che stridono col grigio fumo dei muri male intonacati. E piene di indumenti che non indossiamo da decenni perché con gli anni aumentano pure le taglie, ma resiste l’intima speranza che dentro quel jeans che era così bello ci si tornerà a entrare, prima o poi.
Non basterà una domenica a mettere ordine nel mio passato, a bonificarlo con un valido ed efficiente progetto di classificazione, archiviazione e sistemazione razionale di questo mare immenso del superfluo. Sono fermo sul ciglio dell’abisso, con la mia tuta ancora pulita. Ma ho paura a tuffarmi in quel mare che non ce la farò mai a navigare. Mi assale un presagio di smarrimento. Temo di perdermi anch’io nel bric-à-brac del mio passato. E se così fosse? E se non mi venisse a cercare nessuno quando mi confonderò con gli scatoloni?
Indugio. Magari domenica prossima.
Nella semioscurità, da uno scatolone aperto e traboccante di vecchi film in vhs, ne indovino la copertina di uno di John Huston. Voglio credere che sia un segno del destino. Torno sui miei passi, risalgo le scale di casa con un’allegria nuova. Non di slancio, ma rasserenato. Da uno scaffale traboccante di dvd afferro proprio quello che mi aveva lanciato il segnale. L’ho già visto, forse tre o quattro volte, ma sono sicuro che devo rivederlo. Me ne starò comodamente sdraiato con la mia tuta sul vecchio divano che presto andrà a finire in garage perché tanto, tra un paio di settimane, arriva quello nuovo.
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Sul maxi schermo c’è Gregory Peck che fa il capitano Achab, ma io per fortuna mi sento Ismaele. E il mio garage si chiama Moby Dick.