Figurine, cartoline, francobolli, monete, pacchetti di sigarette, lattine, tappi, tarocchi, spille, berretti, boule de neige, magneti, modellini di Vespa, manifesti e locandine, videocassette e dvd, libri, scatole di fiammiferi, autografi, foto di scrittori, dischi e cimeli dei Beatles… L’elenco delle cose che ho collezionato nella vita è provvisorio, ma ora che lo vedo scritto mi trasmette la sensazione di una precoce e patologica nevrosi. Non ho dubbi. I collezionisti sono dei feticisti nevrotici. I peggiori sono quelli che, come me (ma tra i miei amici c’è chi è messo decisamente peggio) prediligono i memorabilia del cinema, i gadgets di ogni foggia e natura. A quel punto la nevrosi e il feticismo s’intrecciano col voyeurismo.
I gadgets, per esempio (t-shirt, cartoline, action figures, tazze, piatti, cravatte, calendari e via discorrendo), sono fantasmi dei film, monogrammi, punti di vista eccentrici, anamorfosi narrative del cinema. La loro fruizione è una forma di veglia onirica che non risparmia nessuno: reperti di un diagramma della memoria che rappresentano la consacrazione di una moderna e immaginifica mitologia, quel firmamento divino di “figurine del tempo che fu” – per dirla alla maniera di Gesualdo Bufalino – con cui l’immaginario di ogni spettatore ha amato giocare almeno una volta nella vita.
Ma hanno un loro inquietante risvolto. Il professor Unrat, per esempio, ne farà tragica e perturbante esperienza. Ha saputo che i suoi allievi frequentano L’Angelo azzurro e nella penombra di quell’equivoco locale in cui si recherà per sorprenderli perderà la testa per una cantante, e con essa il posto di lavoro e il decoro borghese. Fu Ernest Hemingway a scrivere che “se la Dietrich non avesse nient’altro che la voce potrebbe spezzarti il cuore”. Ma la diva aveva “un corpo stupendo e il volto di una bellezza senza tempo”. Un corpo che Unrat potrà ammirare e possedere solo soffiando su un posticcio gonnellino di piume che cela appena, nella fotografia che la ritrae, le gambe lunghe “come un paesaggio” di Lola-Marlene.
Quella cartolina è il chimerico feticcio di un Eterno Femminino, l’oggetto di un culto profano. Come la bambola a grandezza naturale che il brancatiano Ciccio Muscarà di Don Giovanni in Sicilia recherà in dono da Parigi agli amici catanesi per offrirla alla loro adorazione.
Questo per dire che basta anche un dettaglio, un oggetto decontestualizzato e recuperato nella sua totale autonomia rispetto al film, com’è il gadget usato dall’industria come strumento di promozione del cinema, per alludere a un patrimonio onirico collettivo. Ma in questa straordinaria capacità evocativa che il cinema riesce a trasmettere, anche nei segni più frivoli ed esteriori, risiede il mistero della sua eternità. Sicché, come accade in Oh, Bombay! di Ennio Flaiano, in cui la statua di gesso colorata di Biancaneve, nel giardino di Hong Kong di un venditore di unguenti, è circondata da quelle di “Zorro, Charlie Chaplin e lo Sceicco, Theda Bara e Alice in Wonderland, Von Stroheim, Frankenstein e Dracula”, il museo d’ombre privato di ogni cinefilo collezionista ricorda che il cinema è il più ricco serbatoio di archetipi moderni, una corrente secca, un magnetico percorso sotterraneo. È polvere e luce, qualcosa che si respira e si mangia in tanti modi e in tanti frammenti perché è nel mondo.