La butto lì. Ennio Morricone quest’anno vincerà l’Oscar per la colonna sonora di The hateful eight di Tarantino. Poco importa che gli abbiano dato quello alla carriera pochi anni fa. Lo vincerà perché è un’opera bellissima e perché lo merita. Ci scommetto una pizza, non una pizza cinematografica e nemmeno un ceffone (Te mollo ‘na pizza…, come si dice dalle parti di Trastevere). Ma come si fa – dico io – a insinuare il sospetto che l’imperatore italiano delle sette note senta il bisogno di orecchiarne quattro in croce di una canzone dei Subsonica? Avesse strizzato l’occhio a Mozart, lo capirei. Ma i Subsonica? E’ uno scherzo, no? A quanto pare no, perché il Maestro risentito (giustamente?) per il fatto di non aver mai dovuto subire censure di plagio, ha deciso di adire le vie legali a tutela della sua onorabilità. La butto di nuovo lì: vincerà anche la causa. Ci scommetto la birra stavolta.
Questo per dire che Morricone non è solo l’autore delle più belle colonne sonore del cinema italiano di sempre, ma è il CO-AUTORE, a pieno titolo, dei film di Petri, Leone, Tornatore, di cui ha firmato anche le musiche di La corrispondenza che, da sole, come per Tarantino, valgono il film.
Oggi siamo unanimemente convinti dell’indissolubilità del legame musica-immagine, ma questo vale ancor più per certi musicisti. Suonerebbe retorico chiederci che sarebbero, per esempio, i film di Alfred Hitchcock o il Citizen Kane di Orson Welles senza le musiche di Bernard Hermann. Cosa ricorderemmo di Psycho senza le sferzate d’archetto sui violini che descrivono le pugnalate di Anthony Perkins a Janet Leigh? Non sono da considerarsi come sceneggiature vere e proprie le partiture su cui Greenaway o Leone, Fellini o De Palma hanno ideato, concepito, realizzato alcune delle più celebri sequenze della storia del cinema? Semmai altro dovremmo chiederci. E per esempio: a che serve la musica nei film? Definisce, descrive, racconta, evoca, allude? La migliore è quella che non si sente? La funzione propria della partitura per film è quella drammaturgica che la fa diventare parte sostanziale del racconto? L’uso strutturale che Liszt fa di topoi musicali saldamente consolidati dalla tradizione, per arrivare ad una sorta di narratività musicale non fa di lui una sorta di precursore dei compositori per il cinema? E allora chi sono i Mozart, i Beethoven, i Mahler della musica per il cinema? Quali che siano le risposte (ma io la mia ce l’ho, anche se me la tengo per me), resta il racconto straordinario delle tappe essenziali di una vera e propria bildung della «musica per film»: da ancella quando serviva unicamente ad esorcizzare la “terribilità” del silenzio, a compagna quando venne utilizzata come riempitivo rispetto all’articolazione dinamica delle immagini, a commento come nel caso di simbiotici rapporti di collaborazione tra compositori e registi – Ejzenstein/Prokof’ev, Antonioni/Fusco, Fellini/Rota, Leone/Morricone, Hitchcock/Herrmann, Greenaway/Nyman – fino all’autonomia del genere fruibile nella sua totale autonomia estetica e sempre più ricercato al giorno d’oggi da giovani leve di cinefili. La scuola italiana che annovera nomi di grandi artisti – da Nino Rota a Piero Piccioni, da Francesco Lavagnino a Nicola Piovani – si è sempre contrapposta a quella americana – dei Waxman, di Steiner e Newman, di John Williams e Bill Conti.
Ma il baricentro resta Morricone, con la sua ineguagliabile e unica traiettoria artistica, costellata da centinaia di opere in cui qualcuno avrà pure spulciato qualche momento di facile o corriva musicalità, ma a cui non si potrà negare un’esemplarità rara, attestata dal suo più riuscito cimento: la soundtrack di C’era una volta in America in cui il Maestro rilegge in chiave moderna la musica leggera americana tradizionale con effetti ambientali di fortissima incidenza drammatica. E se mi appassionano ancora i film di Tornatore, temo che a far gioco sia soprattutto la loro struggente colonna sonora. Una fedeltà quasi assoluta quella tra i due, fatta eccezione per Il Camorrista, le cui musiche furono firmate da Nicola Piovani, ma che mi fa chiedere quanto della fortuna del regista bagherese non si debba ai sontuosi commenti del suo musicista prediletto, come era successo già per Sergio Leone di cui Tornatore ha appreso meglio di tutti la lezione (assieme a quella di Pietro Germi). Onore dunque e più che mai a Morricone: il fischio di Giù la testa, il flauto di Pan in Mission, il tema di Elliot Ness negli Intoccabili avranno forse un giorno lo stesso valore di una romanza di Puccini.