Domani leggerò il XXIII dell’Inferno, il canto degli ipocriti tristi, o degl’incarcati, come li chiama Dante. Cioè di coloro che sono gravati da una cappa pesantissima, dorata all’esterno ma foderata di piombo. O meglio lo leggeranno, al Teatro Musco di Catania, Stefania Rocca e Franco Castellano, straordinari interpreti di un dramma di Schnitzler (Scandalo) che da stasera sarà in scena al Teatro Verga. Io mi limiterò a commentare con loro quei versi e insieme parleremo di ipocrisia, uno di quei peccati – come l’accidia, di cui soffriva Petrarca – ormai derubricati perché nessuno può dirsene immune. Ogni giorno affoghiamo, infatti, nella pece della menzogna opportunistica, della malizia del camuffamento, dell’adulterazione della verità, della sofisticazione linguistica, del bizantinismo, del virtuosismo di professione, della retorica del politically correct, dell’autocompiacimento narcisistico, della scaltrezza di apparire giusti al momento giusto, del calcolo meramente opportunistico, della vanità dell’apparire, del mostrarsi non per quello che si è, ma per come vorremmo che gli altri ci vedano. L’ipocrita è una persona che recita una parte, come gli attori, ma a differenza di quelli che lo fanno sulla scena (il teatro è in fondo una menzogna che serve a dire una verità), è un simulatore nella vita di atteggiamenti o di presunti sentimenti. Nei vangeli, l’ipocrisia è paragonata al lievito che, anche in piccole dosi, fermentando, fa montare la pasta. Così è nella vita di ogni giorno: basta un ipocrita perché una comunità fermenti della sua ipocrisia, insceni con lui la mascherata della misericordia un tanto al chilo, della solidarietà a orologeria, della finta umiltà.
Ma da che mondo è mondo, gli uomini vanno avanti così e la letteratura, sin dai poemi antichi, ci racconta sempre di bugie e si fa essa stessa inganno, gioco a nascondere, velame. La métis suggerisce a Ulisse di ricorrere a travestimenti e finzioni e perciò l’eroe viene chiamato polyméchanos, cioè capace di escogitare molti mechanòi, molti espedienti come la menzogna e l’inganno, moralmente inaccettabili, ma necessari per superare gli ostacoli.
Nel Silenzio delle sirene, Kafka immagina che le creature mitologiche, consapevoli della sua astuzia, decidano di restare in silenzio all’avvicinarsi della nave dell’eroe, spiazzandolo. Ma la virtù precipua di Ulisse è la preveggenza, l’astuzia calcolatrice e allora l’uomo oppone una contromossa più sofisticata: al silenzio delle Sirene oppone il proprio (falso) compiacimento per il loro canto, fingendo di udirlo. Cioè sceglie di far finta di aver bisogno ancora di desiderare, sforza la propria immaginazione, pur avendo ormai scelto la rinuncia. Non sa, il nostro campione, che il desiderio ci desidera sempre! Kafka accenna dunque a qualcosa di silenzioso, che non può venir detto. Proprio per questo il silenzio è più forte del canto e del dire. Lo scrivere è un tentativo esso stesso di dar conto di quel qualcosa. Ma le cose, come le Sirene, spesso tacciono.
Insomma, da quando gli uomini hanno imparato ad usare la parola, l’umanità ha conosciuto la malizia ed è rimasta incastrata nell’incudine del dire e non-dire, per ottenere di volta in volta qualcosa. Non ci si può liberare dell’ipocrisia, ma averne consapevolezza è un modo come un altro per non soccombere ad essa. Non si cessa nemmeno di essere ipocriti per il fatto di scagliarsi contro l’ipocrisia perché quando ci proclamiamo sinceri (“ti dico la verità”, “te lo dico per amore di verità”), spesso stiamo solo implicitamente affermando il nostro essere diversi e migliori degli altri.
Gli unici individui che non conoscono l’ipocrisia sono i bambini. Il richiamo evangelico di Gesù (“lasciate che i bambini vengano a me”) significa questo: lasciatevi invadere dal linguaggio degli unici esseri costituzionalmente incapaci d’ipocrisia, di malizia, di finzione. Solo i bambini, infatti, possono salvare noi e il mondo con noi.