Ci vorrebbe troppo tempo per spiegare attraverso quali tortuosi sentieri ermeneutici mi sia imbattuto in un’aurea silloge di Flavia Vento di cui avevo solo sentito parlare, ma che non avevo mai avuto la ventura di leggere. Il malizioso snobismo e la disattenzione di una critica troppo attenta alle strategie di marketing dei colossi editoriali suggerisce perciò un risarcimento di attenzione a suo tempo negata a questo piccolo, ma incisivo esperimento letterario. Siamo di fronte, infatti, a un cimento poetico che, se non arriva al punto di cambiare la percezione del tuo essere nel/col mondo, tuttavia un deciso strattone all’umore riesce a riservartelo lo stesso. Già il titolo è rivelatore, dal momento che si propone come la mise en abîme del singolare – e per molti versi inesplicabile – rapporto che l’autrice instaura con quel consolidato sistema di segni che usualmente chiamiamo “linguaggio”: Parole al vento (Edizioni Bietti, 2012). Come dire: l’ispirazione che si fa aria e aspetta solo di essere espulsa dal corpo, in qualsivoglia guisa. La levità flaviesca fa tuttavia velo a un tirocinio duro che le ha garantito, nel tempo, un curriculum artistico degno di nota e la vocazione a una militanza politica vissuta con drammatico rovello, lo stesso che l’ha fatta oscillare dall’area della Margherita (scelta dettata dalla passione per la botanica) all’abbraccio ideale con Francesco Storace, in occasione delle Regionali 2005 in cui, candidata, ottenne 27 preferenze. Un risultato non brillante, secondo alcuni, ma che si ricorda per le prese di posizione pubbliche su temi decisivi del dibattito culturale: «Eppoi, uhm. Ecco, io metterei anche la mia faccia per degli ideali. Che sono, appunto, la guerra». Ma torniamo alla poesia.
Nella lirica d’apertura (Quando meno te l’aspetti), i versi iniziali («I tuoi occhi / Li ho rincontrati. / Un incontro. / Quando meno te lo aspetti»), scanditi con icastica e sincopata perentorietà, alludono alla vichiana ricorsività storica, ma estesa in questo caso agli eventi del quotidiano che, come una joyciana epifania, riesce a riservare imprevedibili distonie di sguardi. Un’opzione tematica ribadita nella poesia successiva (Destini) in cui il vivo senso dell’eterno è la chiave per dominare la straniante incredulità del vivere («Non ci credevo. / Sei mio, / Sono tua. Per sempre»). L’avvicendarsi delle stagioni è mirabilmente reso nello squadernamento dello spettro cromatico di Primavera («I colori dei fiori / Risplendono nel giardino. / Lillà rosa, / Giallo, rosso, blu. / Tutto si colora, / […] La primavera. / La stagione a me preferita»). Il ribadimento di un incedere dell’uomo (e della donna) a singhiozzo, con l’implicita allusione a un costitutivo mal de vivre («Si corre / Come una cellula impazzita / In un corpo astratto / Fermo e che passa / Come una cometa») sarebbe forse riassumibile in una formula che alcuni critici fanno risalire alla scuola siciliana federiciana e alla poetica del cosiddetto muoviti fermo, ma non riuscirebbe lo stesso a rendere l’idea connaturata alla forma.
Le conseguenze di un fin troppo evidente disagio si traducono perciò nella disarmata resa all’ineffabile: («Ogni volta che ci vediamo / Io non so parlare / Al tuo sguardo, mi paralizzo. / Fremiti di gioia / Mi bloccano / E in sogno volo, / Volo come un gabbiano / E penso che un / Giorno sarai mio»). La parola poetica può solo illudersi di dar voce all’inesprimibile, ma nel momento in cui sembra accadere, subentra la sintassi occultata a scongiurare il rinvenimento del senso, come nella lirica Popolo del mare («Maschera. / Cavallucci marini, / Ricci, / Cannolicchi, / Spigole, Sogliole, / Sabbia, /Mare»). Quella che sembra un’impersonale e algida lista rinvenuta tra le cassette lignee di una qualsiasi pescheria, si offre in realtà come chiave di lettura dell’ineluttabile debolezza del pensiero di cui, con altri esiti, ci ha reso edotti il filosofo Gianni Vattimo. La voce, e tanto più quella poetica, è la balena bianca cui la Vento, come l’Achab di melvilliana memoria, è costretta a soccombere (vedi Balena: «Balene, cetacei. / Balene, ciccione, / Cattive, spiaggiate. / La fama, la fame. / Balena, cicciona / Morta di fame»).
La sorprendente virata finale della silloge rappresenta invece lo scintillio inatteso di una speranza che sembrava ormai perduta, per l’uomo e per l’avvenire della Poesia:
Carta bianca, carta vergine
Per scriverci i miei sogni,
Per vergarci il mio destino,
Per lasciare un’impronta
Di poesia
Nel mondo.
L’autrice ci affida così il suo messaggio in bottiglia, un monito che potrebbe suonare anche come una minaccia, ma alla luce del quale intendiamo il senso complessivo del libro. La carta bianca e vergine su cui la Vento ha vergato i suoi versi, è lo specchio di una nuova igiene della parola che fa dunque di questa carta – igienica per antonomasia – uno strumento che potrebbe ancora soccorrerci nell’improvvisa emergenza di un intestino travaglio esistenziale.
quanto ho riso.
grazie
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