Leonardo Sciascia avrebbe voluto che sulla propria lapide campeggiasse la frase «contraddisse e si contraddisse», una definizione ispirata forse dalla lettura di un bellissimo saggio sull’illuminismo di Jean Starobinski, dal titolo L’invenzione della libertà, in cui il critico ginevrino definisce con le seguenti parole la condizione in cui vive «l’uomo dei lumi»:
…nel momento in cui propugna il diritto di opporsi a qualsivoglia autorità acquisisce il senso della contraddizione. Da quel momento, può anche succedere che si trovi in contraddizione con se stesso: egli diviene, allora, il primo critico delle idee dalle quali è attratto e delle formule che ama, fino al punto di volere tentare l’esperienza del loro contrario.
Sotto questa definizione possiamo collocare tutti gli intellettuali: tutti coloro, cioè, che hanno la capacità, i mezzi e il tempo per tener desta la propria intelligenza. Cosa che comporta non il registrare passivamente, ma piuttosto il “criticare”, in forma attiva. Vale a dire: tutti gli intellettuali sono stati, o sono, uomini “dei lumi”.
Ma Sciascia preferì comunque all’etichetta di intellettuale la definizione di uomo di lettere, essendo la prima delle due categorie segnata da una sostanziale indistinzione che finisce con l’accomunare figure eterogenee, legate tra loro da un malinteso senso di compromissione con la realtà. “Intellettuale” è vocabolo che si può adattare al philosophe dell’epoca dei Lumi come al poeta romantico dalle pose titaniche, che può valere per il compagno di strada di un partito come per il militante organico a un’ideologia. Ma Sciascia non era né Voltaire né Byron né Vittorini e nemmeno uno dei tanti corifei dell’imperante intellettualità liquida profetizzata da Zygmunt Bauman.
Semmai era come Émile Zola, strenue apostolo del primato della letteratura come strumento di smascheramento dei lati occulti della retorica dominante, assertore del principio secondo cui solo le lettere «regnano eternamente […] sono l’assoluto, mentre la politica è il relativo»: lo scrittore che usa le parole per diagnosticare i mali, senza pretendere d’imporre i rimedi che competono invece a chi governa, alieno da ogni fanatismo e detentore di un capitale simbolico che è unicamente quello della parola letteraria, con il proprio bagaglio di valori universali ed eterni. È il modello che si afferma a partire dall’affaire Dreyfus e che mira a escludere la coazione all’impegno e a restituire al letterato una funzione, la stessa che saprà incarnare Pasolini, ma con un sovrappiù di compromissione fisica ed energica eloquenza.
È il privilegio di una sorta di Verità congetturale che detiene lo scrittore che, scriveva l’autore del Romanzo delle stragi, «cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».
La concezione della letteratura come intatto serbatoio cui attingere per trovare un senso anche all’insensatezza della Storia, Sciascia l’aveva invece formulata nel racconto Il Quarantotto laddove riconosceva nella scrittura «un modo di trovare consolazione e riposo; un modo di ritrovarmi, al di fuori delle contraddizioni della vita, finalmente in un destino di verità», un’accezione che traluce anche nelle parole del protagonista dell’Antimonio quando afferma: «Io credo nel mistero delle parole, e che le parole possano diventare vita, destino; così come diventano bellezza». La letteratura non solo conosce la verità e la rispecchia, ma la redime, pacificandola nelle sue contraddizioni sicché «l’uomo, col suo cuore vivo, per la pace del suo cuore, può legare in armonia pietra e luce, ogni cosa alzare ed ordinare al di sopra di se stesso».
Un articolo da leggere con attenzione…
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