Paolo Mieli e la profezia di Sciascia

Ci sono voluti trent’anni per dare ragione a Leonardo Sciascia. L’ha fatto ieri Paolo Mieli (Antimafia, la profezia di Sciascia) sul “Corriere della Sera”, lo stesso quotidiano che, nel 1987, pubblicò l’articolo che avrebbe innescato una delle più lunghe e controverse querelles giornalistiche del secondo dopoguerra. Non consola affatto il tardivo onore delle armi nei confronti dello scrittore, ma ha fatto bene il direttore del “Corriere” a ricordarci come lo scrittore sia stato, per decenni, bersaglio di un ben orchestrato tiro incrociato per il fatto di aver allora messo in discussione – prerogativa di chi svolge una funzione intellettuale, di chi esercita il ruolo di coscienza sociale interrogante  – non certo le qualità di Paolo Borsellino, ma le inconsuete e inedite modalità con cui il Consiglio superiore della magistratura aveva indicato il giudice per la carica di Procuratore della Repubblica a Marsala. A questa nomina si era pervenuti aggirando eccezionalmente il consolidato criterio dell’anzianità e ricorrendo a quello della «specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare», facendo propendere per il collega più esperiente e dalla «diversa anzianità». La sua era, ed è bene ribadirlo ancora, una questione di metodo non di merito. Insomma, Borsellino aveva al suo attivo più processi antimafia dei suoi colleghi; l’eccezionale promozione sarebbe stata apprezzabile se non fosse stata, appunto, un’eccezione a cui non fa seguito alcun cambiamento delle regole e che dunque, di conseguenza, potrebbe non ripetersi in casi analoghi. Lo scavalcare ed aggirarle, seppure per uno scopo nobile, non poteva esser fatto passare sotto silenzio da un convinto garantista come Sciascia. Non si trattava tanto di difendere un criterio come quello dell’anzianità, ma di adottare un metodo trasparente e condiviso. Non c’è dubbio che, in quella fase della lotta alla mafia, il criterio della professionalità e delle esigenze di servizio fosse più utile rispetto alle aspettative automatiche di carriera basate sull’età, ma la critica non si appuntava sull’esemplarità di Borsellino quanto sul fatto che le modalità procedurali ed i criteri di selezione attitudinale dei magistrati, in funzione del conferimento di incarichi direttivi, devono essere osservati fino a quando l’organo che se ne serve non ne sancisca delle nuove, anziché procedere caso per caso. Così operando, invece, non si scongiurerebbe mai il rischio che le promozioni siano comunque legate a raccomandazioni o a influenze politiche. Peraltro la storia dell’esperienza siciliana di Giovanni Falcone che si vedrà scavalcato da Antonino Meli per la carica di consigliere istruttore di Palermo, sulla base di un criterio di anzianità anziché di merito e la successiva inchiesta del 1988 su Borsellino che porterà allo smantellamento del pool antimafia e alla vanificazione dei suoi risultati ne saranno la paradossale e contraddittoria verifica.

Cosa avevano a che vedere gli scrupoli oggettivi, in materia di difesa del Diritto e della Legalità, con la tesi subdola e strumentale di uno Sciascia succube di una sorta di fascinazione mafiosa? Quali analogie sussisterebbero tra la sua lezione di garantismo e la minestra cucinata per primi da Nando Dalla Chiesa e Pino Arlacchi e tenuta in caldo, nel tempo, da giornalisti come Giampaolo Pansa, filosofi come Manlio Sgalambro, scrittori come Sebastiano Vassalli e Luigi Malerba, che l’accusarono di mitizzare la mafia o di concettualizzarla, trattandolo alla stregua di Mario Puzo, l’autore della saga del Padrino?

paolo-borsellinoEppure tutti (o quasi) contre Sciascia che, con preveggente lucidità, mostrava di diffidare dell’antimafia come sovrastruttura sociale, dei suoi usi ed abusi di retorica, giustamente stigmatizzati oggi anche dai figli di quel giudice che, dalla Spoon River siciliana dei martiri della legalità, oggi forse darebbe anche lui ragione a chi capì la mafia prima degli altri, fornendone tutti gli incontestabili paradigmi.

E’ ormai chiaro a tutti, infatti, che l’espressione professionismo dell’antimafia, progressivamente invalsa con tutto il suo corredo retorico nel linguaggio giornalistico e politico, è sopravvissuta all’antimafia stessa. Non all’antimafia giudiziaria, beninteso, ma a quella sociale, al modello che contrassegnò un’epoca, all’esperienza rivoluzionaria di riscatto civile favorita, negli anni Ottanta del Novecento, dal metodo e dalla prassi del pool antimafia di Palermo e dal sacrificio dei suoi magistrati simbolo: Falcone e Borsellino. Tramontati gli emblemi di quella tormentata stagione, a prevalere oggi è il moralismo senza eticità dell’antimafia di Stato in giacca e cravatta, la tautologica essenza di una Commissione parlamentare antimafia che indaga sull’antimafia stessa per stabilire se questa debba considerarsi reale o formale.

Di questo essere rimasti a un nominalismo senza incidenza, tanto sulla diminuzione dei fenomeni mafiosi che sullo sviluppo di un’autentica cultura antimafiosa, Sciascia aveva dato prova già nel 1973 in un racconto intitolato Filologia, quasi una blague neanche tanto paradossale, in cui si narra di un mafioso colto – fatto sindaco del suo paese nel 1943 dagli americani – il quale impartisce una lezione sull’etimologia della parola “mafia/maffia” a un gregario ignorante. Lo fa servendosi di una citazione da un saggio di Giuseppe Pitré da cui si evince una palese incoerenza, rilevata dagli stessi due anonimi personaggi, tra il negare l’associazione («La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. […] La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, d’ogni urto d’interesso e di idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui») e il descriverla come tale un attimo dopo («Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi ragione personalmente da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui»).

Il mafioso colto finirà con l’istruire il subalterno su ciò che avrebbe dovuto dire alla commissione antimafia appena costituitasi, prevedendo che questa non avrebbe capito più niente «tra storia, filologia e lettere anonime», e tanto più per quest’ultime poiché «questa è una terra […] in cui nella stessa faccia […] un occhio odia l’altro occhio». Lui, dal canto suo, avrebbe chiesto «di essere sentito», per «dare il [suo] piccolo contributo… Un contributo alla confusione, si capisce…».

Una confusione che la formula professionisti dell’antimafia evoca purtroppo ancora oggi.

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