Marco Pannella era proprio come il signor Hood cantato da Francesco De Gregori: un galantuomo / sempre ispirato dal sole / con due pistole caricate a salve / e un canestro pieno di parole.
Di lui tutti diranno di tutto, ma nessuno potrà dire che non fosse onesto, l’unico politico italiano che non ha mai “mangiato” e non perché fosse famoso per i suoi scioperi della fame. In più di mezzo secolo di politica attiva non è mai stato indagato per corruzione, ma in carcere c’è finito e per motivi che farebbero ridere di sarcasmo i nostri politici attuali: nel ‘68, per protestare contro l’invasione russa di Praga e nel ‘75, per aver fumato uno spinello. Oggi i pusher di cocaina non hanno le chiavi del Palazzo, ma di entrarci per fare servizio a domicilio a qualche cliente eccellente, altro che…
Il suo nome però evoca in me innanzitutto il ricordo della mia maturità liceale: era il 1983. Allora lo votai per la prima volta perché il suo slogan mi sembrava geniale: “Non votatemi”. Bastava questo ai miei furori giovanili per disegnarmelo nella mente come oppositore e disobbediente per vocazione. Ma c’era anche altro, ovviamente, per cui la sua morte ha per me un significato che dovrebbe andare ben oltre le commemorazioni di circostanza che dureranno lo spazio di un mattino perché officiate in quella camera ardente virtuale e globale che sono i social network. Per quelli della mia generazione e di quella che mi ha preceduto è stato (fuor di retorica) un simbolo, l’espressione fisica di una galassia etico-critica in cui doveva capitare prima o poi a ognuno di orbitare, com’era successo a tanti e com’era successo a quasi tutti gli intellettuali che sono stati decisivi per la mia formazione. E penso a Pasolini e Sciascia più di ogni altro. L’esempio di Pasolini era forse più eclatante di quello di Sciascia perché egli non aveva reciso affatto, negli ultimi anni, il suo travagliato legame con il Pci, individuando tuttavia nelle battaglie di Pannella l’unica possibilità di rappresentanza di una «diversità» non ancora triturata dai bulldozer dell’omologazione culturale.
Le ragioni dell’appeal che esercitava erano tutto sommato semplici: intanto perché s’impegnava su temi specifici senza che questo implicasse una consonanza “ideologica” globale con chi se ne faceva promotore e interprete. E poi perché era tipico dei radicali presentarsi come coscienza critica del Paese, deposito di valori abbandonati e negletti da chi piuttosto intrattiene un rapporto con la politica dominato dagli imperativi del pragmatismo. Rappresentavano la capacità di dire no, del gesto essenziale del rifiuto che nella Storia è sempre stato prerogativa dei santi, degli eremiti e degli intellettuali e che allora poteva benissimo identificarsi negli scioperi della fame del Pannella inventore, prima di Pasolini, del processo al Potere e al Palazzo.
Di Pannella mi colpiva il fatto che usasse parole che non facilmente vengono pronunciate dai politici: “scandalo”, “testimonianza”, “vita”, “verità”, “dar corpo a”… Parole che avevo sentito invece, da ragazzo, quando andavo a messa e che dette da lui, prete laico e anticlericale, dicevano invece del suo assoluto rigore morale. E a rendermelo ancora più simpatico era il fatto di essere quasi sempre isolato, se non solo, nelle sue rivoluzionarie battaglie civili, e isolato soprattutto da quelli che si erano proclamati rivoluzionari e che ci hanno smaronato con la storia che loro “avevano fatto” il ’68 quando l’unica cosa che sarebbero riusciti a fare si sarebbe rivelata essere la carriera.
Sempre in quel fatidico (per me) 1983, in un intervista di Ernesto Galli della Loggia per l’”Europeo”, Pannella diceva: “Dove sono finiti tutti i leader del ‘68? Nell’industria culturale, nella pubblicità, nel marketing. Loro che accusavano noi di essere dei coglioni piccolo borghesi disinteressati alla lotta di classe. Il nuovo Terzo stato sono i proletari del Sud del mondo. Io non ho mai avuto il gergo sociologico del sinistrese. Se la fantasia va al potere, vada a fare in culo anche la fantasia, la rinnego. La polizia ha tollerato per anni che formazioni quasi militari si impadronissero delle città con i loro cortei, e poi arrestavano i pacifisti radicali con i cartelli sul marciapiede per manifestazione non autorizzata”.
Eccoli i “quattro gatti” radicali di allora, come li chiamava Pasolini, capaci di tradurre in battaglia politica temi che riguardavano dimensioni essenziali della vita pubblica e privata, nel sostanziale disinteresse dei partiti maggiori, e depositari di una sorta di “pensiero magico” non in senso “medianico”, ma della fiducia che Pasolini, Sciascia, Pannella e chi ci ha creduto con loro, riponevano nella possibilità che continuando a battere sullo stesso tasto si sarebbe riusciti prima o poi a scuotere la coscienza di quest’infelice Paese.
Temo però che, finita con lui quella stagione, verrà meno definitivamente anche la funzione che ha saputo anche fisicamente incarnare, in modo unico ed irripetibile. E di questo non ci sarà da essere contenti per molto molto tempo a venire.