Buon compleanno, MM

Oggi Marilyn avrebbe compiuto 90 anni eppure anche sforzandoci non riusciremmo lo stesso a immaginarla come una vecchietta incartapecorita, deformata da massicci interventi di chirurgia plastica o da sovradosaggi di botulino. Non ci riusciamo perché poche icone come la sua incarnano l’idea di una Bellezza assoluta e perciò stessa mitica.

Non erano forse altrettanto luminose le icone di Marlene o Greta Garbo o quella di Rita Hayworth «con il suo immenso corpo, il suo sorriso e il suo seno di sorella e di prostituta – equivoca e angelica – stupida e misteriosa – con quel suo sguardo di miope freddo e tenero fino al languore» – come l’aveva già descritta proprio Pasolini nel giovanile e autobiografico Amado mio, che della Bellezza raccontava appunto la scoperta? Forse. A fare la differenza era però la sua morte, quella che lo stesso poeta racconta liricamente in una bellissima elegia che si può leggere tra le Poesie disperse e che si può ascoltare, dalla voce di Giorgio Bassani, nella sequenza più riuscita del film la RabbiaNel segno del triste sorriso della «sorellina minore», simbo­lo di una bellezza effimera eppure essenziale per comprendere il gesto della vita, divorata dal mondo che gliel’ha insegnata, si conclude uno dei due episodi di cui si compone il film; sul «ronzìo terribile, idiota, inverecondo» di una Storia che per Pasolini è sempre stata come il fantasma del padre per Amleto: un presente da esorcizzare e poi, allo stesso tempo, un passato da vendicare. Con la morte di Marilyn finiva la bellezza e il suo sorriso «impudico per gentilezza, passivo per timidezza» era qualcosa che invitava a placare la rabbia del pianto, a voltare le spalle alla fatalità del male.

landscape-54bc0d769a7b7-hbz-marilyn-monroe-01-xlQuel malinconico rimpianto in quattro strofe dice dello scrittore più di quanto non dica della diva, nel momento in cui rivela d’un tratto, tutta l’energia pasoliniana dell’aspirazione alla riconquista di un mondo mitico, e per questo stesso, sacro. Come dice Roland Barthes in Miti d’oggi, «il mito non si definisce dall’oggetto del suo messaggio, ma dal modo in cui lo proferisce». E la bellezza di Marilyn era, agli occhi di Pasolini, quella dell’innocenza vulnerabile e della schietta sessualità, l’innocenza della povertà della piccola gente, dei mendicanti di colore, delle zingare, delle figlie dei commercianti vincitrici ai concorsi di bellezza. Evocava cioè tutto quel mondo che il poeta amava e che era già svanito come un «pulviscolo d’oro». La bellezza, diventata merce e consumo, aveva abbandonato il mondo «al suo destino di morte» e la morte di Marilyn era perciò la profezia di una fine più grande, di cui quella bellezza era l’epicedio.

Il suo mito si crea a partire da Niagara, il film più atipico tra quelli interpretati dalla diva, girato quando l’attrice aveva alle spalle soprattutto particine in almeno una dozzina di film. Nello stesso anno della pellicola di Hathaway, era stata una presenza eccentrica in due solidi drammi diretti da importanti registi. In Giungla d’asfalto di John Huston, accoccolata su un divano, in posa annoiata e pigiama aderente, era la nipotina di un maturo avvocato ricettatore (Louis Calhern) di cui affretta inconsapevolmente giungla-d-asfalto-2l’arresto con tale ineffabile candore che perfino quel cinico incallito si ammorbidisce e la assolve. L’America era inva­sa allora dal famoso calendario che la ritraeva nuda, il che non fece che aumentare il valore della sua performance, come di quella, altrettanto breve ma egualmente incisiva, sostenuta in Eva contro Eva di Mankiewicz. Nell’ambiente teatrale ad alto livello e ad altissimo tasso di perfidia intellettuale, in cui affilano le armi le due formidabili rivali Bette Davis e Anne Baxter, lei è la splendida, riposante oca bionda, introdotta dal suo protettore George Sanders, un critico tanto influente quanto poi poco prudente.

Nell’una e nell’altra occasione, grandi attori e grandi attrici non ne avrebbero cancellato le orme. Nel film di Houston era tutta presa dal piacere di un costume da bagno bianco e verde che avrebbe indossato a Cuba, in quello sul teatro dal desiderio di una pelliccia di zibellino che antici­pava i fasti diamantiferi della cacciatrice di ricchi in Gli uomini preferiscono le bionde e Come sposare un milionario.

14È in Niagara però, che se ne consacra il mito, è lì che incarna per la prima e uni­ca volta nella sua carriera, un personaggio as­solutamente perfido, in cui non c’è spazio né per l’ingenuità, né per il candore. La Rose di quel film è una donna amorale che, come esigeva il Codice Hays, anco­ra imperante a Hollywood, finisce assassinata, ovvero punita per i suoi peccati. Paradossalmente il trionfo di Niagara nasce dal connubio di due elementi ritenuti antitetici e quindi inconciliabili. Marilyn recita una parte che per metà è la sua e per metà è inconsueta e unica nella sua filmografia. Niente di più anomalo, di più schizofrenico, di questa bellis­sima e cattivissima che è l’esatto contrario della sua figura mitica, oltre che del suo temperamento e del suo carattere. Soprattutto niente di meno ori­ginale della sgualdrina malvagia: il cinema e il romanzo noir rigurgitavano ancora allora di femmine eccitanti e funeste. Ma solo in Niagara la miscela funziona e quel corpo esibito con elementare protervia, quell’oggetto di desiderio conclamato con natura­le immediatezza, si converte in un detonatore erotico di massa. Perché quella Rose, nella qui anima malefica Marilyn entra con tutta la carica final­mente liberata del suo fisico, in fondo è anche una perversa innocente. Turba­ta lei per prima dalla carica devastante che la sua pre­senza possiede, smorzerà nei film successivi la minac­cia aggressiva del desiderio che può suscitare, e troverà ad attenderla parti di bambola stupida, che però con maliziosa ironia trasformerà in simboli vincenti di una perversa strategia che si rivelerà autodistruttiva.

In Niagara no. Lì, sulle cascate dove si scatena la furia de­gli elementi e le passioni perdono i loro freni Rose-Ma­rilyn si offre senza risparmio. E il ruolo dello psicopatico passa all’uomo, che in apertura proclama solennemente la propria debolezza di fronte alla Cascata. Squinternato reduce da quella Corea dove invece la Marilyn in carne e ossa solleverà l’entusiasmo dei soldati americani, il marito è reso ulteriormente folle dalla gelosia. Giustificata gelosia, perché quel fior di moglie raccattata in un bar dove serviva dando spettacolo, dentro il cottage che la ospita non nasconde nulla del proprio sex-appeal, ma quando ne esce, 5867-42143-article-0-0f02e9fe00000578-790-634x758-fullè peggio perché il suo abitino scarlatto (un rosso-fucsia che fece sensazione) è così attillato da rivelarla addirittura di più. E pagherà il suo essere troppo desiderata con la morte, l’unica dei suoi trenta film. Niagara, quel cupo dram­ma di tradimenti e castighi le regala la ribalta su cui incedere superba: la sequenza della camminata sui tacchi troppo alti e con la gonna strettissima mozza an­cora oggi il fiato, una camminata che da quel momento si chiamerà proprio “alla Monroe”. Lo spettatore ha finalmente avuto da Marilyn tutto quello che finora l’attrice aveva solo promesso: dolce perversione, bellezza, sen­sualità, indolenza, aggres­sività erotica.

Niagara non è un film: sono tre intrecciati, uno erotico, uno turistico e uno giallo. Il trittico è affidato all’esperienza di Henry Hathaway che non può fare più niente quando dallo schermo scompare l’unica presenza in grado di interessare il pubblico. Viene in primo piano la bellezza del tutto normale della bruna Jean Peters, ma il film è finito da tempo sulla mor­te di Marilyn-Rose. Dalla morte di quel personaggio si origina il mito cinematografico, da quella della donna avrà origine un altro mito, più potente, quello della bellezza eterna che ancora oggi celebriamo. E allora, ancora una volta, buon compleanno, Norma Jean.

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