La fine è nota: la carriera di uomo di Gaetano Scirea si concluse fatalmente tra le lamiere di una vecchia Fiat 125 in fiamme il 3 settembre 1989, lungo un’anonima strada di Babsk, in Polonia. Quella del calciatore invece si era conclusa un anno prima, all’età di 35 anni, al termine della stagione 1987-88, dopo 377 partite di campionato e 552 totali con la maglia bianconera.
Vedere la mostra a lui dedicata, all’interno dello Juventus Museum, significa arrendersi alla nostalgia, immergersi in una vasca di decantazione che separa frammenti di un’umanità e di una civiltà che stentiamo a riconoscere negli atleti di oggi. Il rimpianto è anche quello per un’epoca in cui il calcio non si era ancora trasformato definitivamente in show business e i campioni erano sì idoli delle folle – come lo erano stati Sivori, Riva, Facchetti, Rivera, Zoff, Baresi – ma da antidivi, da “tipi che parlano piano” come cantarono gli Stadio in una canzone (Gaetano e Giacinto) dedicata proprio a Scirea e Facchetti, sommessi interpreti di un understatement inconcepibile per i procuratori e gli sponsor delle odierne star dell’universo pedatorio.
Scirea, con quel prominente nasone che torreggiava sotto le sopracciglia perennemente aggrottate, era un bizzarro connubio di sobria eleganza e buona educazione, di pudica mitezza e rara lealtà (tra i suoi record, uno di quelli che a mio giudizio spicca di più è il non essere mai stato espulso durante una partita). “Un angelo piovuto dal cielo”, a detta di Enzo Bearzot che fu il c.t. della nazionale che vinse il nostro più bel Mondiale, quello dell’82, la nazionale di cui Scirea diventerà capitano 4 anni più tardi. Primo in assoluto ad aver vinto tutte le competizioni per club, il suo fu un palmares da far invidia ai campioni di ogni epoca. Era fortissimo, ma troppo umile anche solo per pensarlo, la sua vera forza essendo la normalità, il senso del pudore che gli derivava dalla consapevolezza di essere, in quanto calciatore della Juventus, un privilegiato, magari non con la potenza atletica di un Ronaldo o la destrezza di un Messi, ma riuscendo lo stesso a ritagliarsi un ruolo – quello del libero moderno o meglio del difensore con i piedi da regista – di cui resterà tra i massimi interpreti nella storia, talmente perfetto nella lettura delle situazioni di gioco da essere il compagno di gioco più affidabile. Nella tradizione calcistica precedente, almeno dai tempi del mitico Virginio Rosetta che fu una specie di Scirea degli anni Trenta, il libero poteva difettare di dinamismo dovendo essere essenzialmente un abile difensore pronto a chiudere sull’avversario e intelligente a prevedere. Gai invece univa a queste caratteristiche la rapidità nello sganciamento, l’appoggio, la capacità di dettare i tempi dell’azione e lo faceva con una semplicità e un’eleganza che gli riusciva naturale. Tutti ricordano il gol di Tardelli nella finale mundial vinta contro la Germania, ma quanti saprebbero dire che nacque da un fondamentale colpo di tacco e poi da un assist di Scirea che, mentre il compagno esplodeva nella gioia incontenibile di un urlo che qualsiasi spettatore a distanza di 37 anni saprebbe riconoscere, si limitò ad alzare semplicemente un braccio?
Al giorno d’oggi è difficile vedere calciatori che non siano patologicamente innamorati della propria immagine e che quando parlano non amino ascoltare la propria voce; Scirea, al contrario, rinunciava alla propria continenza verbale solo per dire cose di un’esattezza dettata da elementare buon senso. Nel chiasso mediatico dei nostri tempi, una figura di calciatore così non troverebbe spazio. Certo, di atleti straordinari è pieno il mondo del calcio anche ora, ma si tratta nella maggior parte dei casi di mercenari; ciò che rimpiango non è solo un campione quasi “per caso” come Gai, ma tutta un’epoca e uno spirito che l’intellettuale uruguaiano marxista Eduardo Galeano ha efficacemente riassunto così: “La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. Mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. In questo mondo […] il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende”. E Scirea, nella sua “inutile” sobrietà e semplicità era essenziale per tenere in vita un ethos ormai irrimediabilmente perduto.