“I would prefer not to”: essere senza avere

Più passa il tempo più mi rendo conto di assomigliare agli eroi della rinuncia che mi sono scelto, quelli di cui leggo in una plaquette di Carlo Ossola del 2011 che, col titolo En pure pert. Le renoncemment et le gratuit, raccoglieva le lezioni del corso Comment vivre ensemble tenuto nell’anno accademico 1976-77 al Collège de France. Sulla scena perimetrata dal filologo avanzano i campioni della Gelassenheit, dell’abbandono, dello sciogliersi dalle convenzioni del sé: dal Rudin di Turgenev al Bartleby di Melville, dalla Félicité di Flaubert al Pagnka di Leskov, dall’Oblomov di Goncarov al principe Myskin di Dostoevskij, dal Minetti di Thomas Bernhard al Don Giovanni di Peter Handke poiché il  fuoco tematico è la nudità della rinuncia messa di fronte all’accumulo della conquista. Sono loro i campioni dell’esilio da sé, delle virtù ‘passive’ come il dépouillement, il distacco, l’abbandono: una letteraria «società della stanchezza», replica di quella reale presa in esame, prima di Ossola, dal filosofo sudcoreano Byung-Chul Han che, in un saggio che porta questo titolo, ha studiato le nevrosi dell’individuo ossessionato dal mito dell’iperattività, dalla bulimia del possesso, dalla frenesia del godere di tutto, nell’odierna società della competizione incapace di gestire la “negatività” dell’esperienza.

Una costellazione letteraria di antieroi «senza qualità» che si definiscono per sottrazione, di “negati” che all’attivismo ulissistico oppongono l’attesa, la desistenza, il rifiuto, la retraite, il distacco, il ritegno che già Roland Barthes aveva definito nei termini della déprise cioè del «lasciarsi andare, dentro di sé, al riposo da sé», del fare vuoto e silenzio all’interno e all’intorno. Il critico francese aveva definito mirabilmente questa «disoccupazione di spazi» come peregrinatio instabilitate (un «esiliarsi restando lì»), un ‘derealizzarci’ togliendoci dalle cose e restituendoci al possibile, all’assenza, al lontano: non conta l’événement, l’accadimento, ma l’avènement, ciò che viene verso di noi, la meraviglia del non appartenerci più. La «pura perdita» è tale soltanto se essa conserva memoria non già dell’orgoglio del “privarsi”, ma della purezza di questo cancellarsi senza traccia.

27390794._SX540_Forse perché deluso dalla realtà, torno così a frequentare in questi giorni il Bernardo Soares del Libro dell’inquietudine di Pessoa, l’inquieto rêveur di Rua dos Douradores che mi ha affiancato a lungo nella mia giovinezza, «senza difese come orfano, volontario escluso dagli altri e dalla vita, sognatore di tutti i sogni, soprattutto di quelli improbabili». E immagino di andarci a passeggio, magari passando a prendere lo scrivano Bartleby di Melville la cui gloria è tutta nella frase “I would prefer not to” che iscrivo volentieri a epigrafe della mia vita, la cui eroica passività è la più alta forma di resistenza. Il copista Bartleby: l’inquilino di una voragine che è quella della possibilità, per cui non conta quello che vuoi o che devi, ma quello che potresti perché la potenza non è la volontà e l’impotenza non è la necessità

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