Nella celebre battuta di Totò, Eva e il pennello proibito, così come in quella simile di Totò Le Mokò («Lei è un cretino, si specchi, si convinca»), l’aggettivo qualificativo è spogliato del proprio peso specifico volgare e assume una coloritura buffa, surreale, irriverente, ma a suo modo elegante, come tutti gli insulti pronunciati dal grande comico («Che ofessa, che ofessa, sono profondamente ofesso» dirà in Miseria e nobiltà).
L’epiteto non arriva mai a colpire in modo degradante chi ne è destinatario il quale, anzi, in qualche caso trova persino una sua giustificazione («A volte, anche un cretino ha un’idea», si dice in Che fine ha fatto Totò baby?). In generale, non è semplice definire un cretino, tanto più che il termine viene oggi usato nei contesti più disparati e nelle accezioni più generiche, al punto che nemmeno i massimi classificatori di questa categoria – gli scrittori Fruttero e Lucentini nei loro La prevalenza del cretino, Il cretino in sintesi, Il cretino è per sempre – si può dire che giungano a darne un’indiscutibile chiave di lettura.
«È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino», scrive Leonardo Sciascia in Nero su nero, dicendosi immalinconito dagli odierni «cretini adulterati, sofisticati» che gli facevano rimpiangere «i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l’olio e il vino dei contadini». Il cretino 2.0 è, di fatto, tante cose, ma nessuna di esse conserva traccia dell’etimologia originaria che ha una declinazione positiva non ancora corrotta dalla degradazione che il termine via via acquisterà.
La sua variante nobile ha un antecedente nella maschera popolare di Giufà, il bifolco assolutamente privo di ogni malizia e furberia, concreto nel suo essere scevro da condizionamenti verbali e ideologici: un anima candida nella misura del candore come forma esorcistica della stoltezza, detentore di quel tipo di verità scomoda che nessuno avrebbe il coraggio di rivelare e che solo lo scemo del villaggio può gridare in piazza. C’è un legame etimologico – lo spiegano gli accademici della Crusca e lo attestano svariati dizionari etimologici accreditati – tra questo termine e quello di «cristiano», attraverso il francese «crétin», da «chrétien». Una forma lessicale che, attraverso le varianti, ha perso nella propria evoluzione semantica il proprio significante ‘cristiano’ originario per denotare dapprima gli individui affetti da una precisa malattia, l’ipotiroidismo congenito, e per assumere infine, con slittamento semantico nel corso dell’Ottocento, una connotazione prevalentemente ingiuriosa. Un passaggio avvenuto per eufemismo: non gli individui intellettivamente poco dotati, ma i malati affetti da cretinismo – patologia che, secondo il Vocabolario Etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani (1907), li faceva assomigliare a «persone semplici e innocenti, ovvero perché, stupidi e insensati quali sono […]; quasi assorti nella contemplazione delle cose celesti» – erano commiserati perché “poveri Cristi”, sofferenti e infelici. Nel 1754, addirittura, l’Encyclopédie riportava la consuetudine delle popolazioni vallesi delle Alpi occidentali di considerare i cretini come «angeli tutelari» delle famiglie. Nelle attestazioni letterarie e nelle consuetudini d’uso novecentesche, una certa disinvoltura d’uso ha fatto perdere la memoria semantica originaria, ma nell’etimologia del cretino c’è anche il significato del candore la cui definizione più precisa si deve all’elogio che Massimo Bontempelli fa di Pirandello in un suo celebre discorso commemorativo sulla “semplicità” dell’agrigentino (Pirandello o del candore):
«La prima qualità delle anime candide è la incapacità di accettare i giudizi altrui e farli propri. L’anima candida affacciandosi al mondo lo vede sùbito a suo modo: la impressione e il giudizio degli altri, anche di tutti gli altri, di tutto il mondo, che si affretta ad andarle incontro e cerca insegnarle tante cose, tanti giudizi fatti, questo non la scuote, ella può tutt’al più maravigliarsene. Spesso non li capisce neppure, i giudizi altrui; li sente come parole complicate. Invece lei ha un linguaggio proprio, semplificato ed elementare. E l’effetto immediato del candore è la sincerità. L’anima candida non fa concessioni. Con quel suo stile e sincerità, l’anima candida, che è una forza elementare, va facilmente al fondo delle cose, raggiunge i rudimenti immutevoli. Ella può sùbito isolare con istinto maraviglioso quel che è elementare da quello che è sovrapposto: convenzioni, decorazione, cautela. L’anima candida è divinamente incauta. […] Il candore è al punto più lontano dalla ipocrisia […] appunto perché il candido ha dimora in quella zona elementare e radicale della vita nella quale non sono ancora avvenute le distinzioni. Invece l’ipocrisia è precisamente la tecnica della distinzione».Ed è perciò con una certa nostalgia che rimpiango anch’io certi cretini insuperabili che il cinema mi ha fatto conoscere: da Harpo Marx a Stan Laurel, da Lou Costello a Jerry Lewis, ma nessuno ne sintetizza meglio le qualità quanto il giardiniere Chauncey Gardner interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino, intensamente tragico e ridicolo allo stesso tempo, depositario di un profondo smarrimento che illumina il carisma dell’imbecille, proiettato in una propria perfetta dimensione di Verità. Niente a che vedere con certi cretini mediatici, minacciosi e impudichi, da cui dipende oggi l’ordine mondiale.