In una bella canzone napoletana degli anni Cinquanta, un uomo innamorato, lasciato dalla donna che ama, osserva cadere dagli alberi le foglie ingiallite dall’autunno; èrano vèrde ‘e ffrónne e mo, so’ cómme ‘e suónne perdute… paragonate ai sogni perduti sono già un’immagine struggente. Lui non si dà pace, si chiede cosa lei stia facendo, cosa pensi, gli sembra ancora di sentire la voce dell’amata che giura Si’ ‘a vita mia…’Sta vita che sarría s’io nun tenésse a tte? Perciò resta attonito a contemplare tutt’e ffrónne d’o munno che sembrano cadere solo per lui, mentre l’aria intorno sembra farsi densa, quasi liquida – la stupenda metafora aria ‘e lacrime ricorda quella montaliana dell’aria di vetro («Forse un mattino andando in un’aria di vetro…») – ma sono solo i suoi occhi pieni di pianto.

Questa poesia in musica – Malinconico autunno – fu portata al successo da Marisa Del Frate (prima di allora aveva fatto la modella, era stata finalista anche a Miss Universo, e scusa se è poco) e divenne una hit nel 1957 dopo aver vinto il Festival di Napoli, facendo venire peraltro qualche mal di pancia agli aficionados di Domenico Modugno che gli avrebbero preferito la più scanzonata Lazzarella. Ma tant’è: i lunghi capelli neri della giovane indossatrice che si riversavano su una generosa scollatura ebbero la meglio sui ricci del grande Mimmo nazionale.

Ma il punto non è questo, è la malinconia il tema. O meglio, quello stato che i napoletani chiamano ‘pucundria (ci ha scritto una canzone anche Pino Daniele), quel sentire vago e indefinito che non è rimpianto, quella speranza dolente che costeggia la malinconia trainando con sé anche la noia e il distacco dal presente. Quella cantata o messa in rima dai poeti, descritta da romanzieri come Dino Buzzati che, in un racconto intitolato Inviti superflui, scrive di questa sensazione e immagina anch’egli di passeggiare tra le foglie, come l’innamorato di Malinconico autunno, ma in primavera (a riprova del fatto che non si tratta di un sentimento stagionale, benchè viga l’equazione autunno=malinconia): «Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. […] E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola».

Anche con la malinconia bisogna saper parlare, come facevano gli stilnovisti, tanto quelli in capo come Dante quanto certa retroguardia che commerciava volentieri col tema, com’è il caso del meno noto Niccolò de’ Rossi che in un sonetto dal titolo Un dì si venne a me Malinconia immagina che quest’ultima vada a trovarlo fino a casa, dopo essere stata dall’amata che lui ha abbandonato, facendo sì che lei si consolasse tra braccia altrui, e invitandolo a non rammaricarsi poiché è stato lui a lasciarla, e senza alcuna speranza, per cui se lei si aiuta altrimenti, non è cosa da stupirsi («tu la lasasti, e sperar non li çova: / se ella se aita, non èe cosa nuova»). E non è tanto quindi alla cupezza saturnina e alla voluptas dolendi di petrarchesca memoria che pensiamo bensì a una malinconia irridente che compendi saggezza e conoscenza del cuore, a un “malincomico” (con la m) irridente e devastante verso gli altri, ma soprattutto verso sé stessi. Quello di Goldoni, per esempio, che fa tesoro della propria vaporosa ipocondria per penetrare in quella più dolente di Tasso, regalando al lettore pagine gustosissime come quelle del suo Torquato Tasso, o le altre del Medico olandese (1756) in cui a un giovane ipocondriaco polacco un luminare prescrive un regime igienico-sanitario in cui la miglior parte ha l’amore («Tale dal mal potrete, volendo, esser oppresso, / ma la difesa vostra è dentro di voi stesso […] Anche un amore onesto, che vi trovaste io lodo; / chiodo, i poeti dicono, scaccia dall’asse il chiodo. / Ecco il rimedio vostro. Sarà la mia mercede, / che a’ miei buoni consigli abbiate a prestar fede»). Insomma, le incrinature si curano con l’ottimismo, il caos di quella “macchinetta strapazzata” (di cui parla Metastasio nelle sue lettere) che è l’uomo si cura con la ragione.

Lungi dall’essere confusa perciò con sentimenti negativi, come il rimpianto rancoroso, l’atrabile malmostosa che sguazza nel fango delle recriminazioni, la malinconia va corteggiata (se non la si vuole tramutare in depressione) perchè è come il vetrino affumicato che ti consente di guardare il sole senza restarne accecato. E invece viviamo assediati dall’ossessione della ricerca della felicità che è ontologicamente inappagabile, fa desiderare sempre quello che non si ha e non fa vedere quello che si è e che esiste. La malinconia basta a sé stessa, come dice la dodicenne Violet, protagonista di un recente romanzo di Joyce Carol Oates che, a un punto di Ho fatto la spia, dice di essere «innamorata della solitudine, della malinconia» perché «la felicità non è affidabile. La malinconia sì». Che è poi quanto diceva Victor Hugo sostenendo che essa sia «la gioia di essere tristi», intendendo con ciò la nostra piena appartenenza alla memoria – di attimi, esperienze, persone – che non ci sono più accanto, ma che resistono dentro, profondamente, e ci fanno capire che fanno ancora parte di noi, e che proprio per questo hanno definito quello che siamo adesso.