Quello che ho fatto per te

«È questo il ringraziamento? Dopo tutto quello che ho fatto per te?»: quante volte sarà capitato di pensarlo di un amico, di una persona amata, di un figlio da cui ci sia sentiti trascurati o traditi? Quanto ci è familiare quest’infelice e perentoria domanda così gravida di espliciti ricatti? Il fatto è che l’aspro sapore dell’ingratitudine ci ferisce, ci fa sentire umiliati, abbandonati, delusi, “usati”, ma è, in fondo, un sentimento che non risparmia nessuno perché tutti, a ben guardare, quando facciamo i conti col nostro passato o la nostra coscienza, potremmo finire col riconoscere di aver commesso torti che hanno causato, se non sempre dolore, almeno amarezza. Se non si accetta l’idea che occorra conviverci, le conseguenze saranno le meschine emozioni in cui la sensazione di aver subito un torto pesca a piene mani: il malanimo, che può tramutarsi in disgusto, la perfidia ricattatoria, la cronica recriminazione, l’istinto di vendetta. Quella cicatrice che l’ingratitudine procura è tanto più profonda quanto maggiori sono il significato e il ruolo che abbiamo attribuito a chi ci ha procurato un disagio. Con indifferenza, con noncuranza. Ma ciò che colpisce di più è pensare che si possa essere ingrati solo perché incapaci di saldare un debito di riconoscenza e che, quindi, ci possa essere qualcosa di premeditato o opportunistico nella fuga di chi non sa in che modo perdonarsi uno strappo irreparabile. Una psicologa e psicoterapeuta l’ha definita, una decina d’anni fa, la «sindrome rancorosa del beneficato». Ma la spiega benissimo anche una bellissima poesia, tra le tante che formano l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; è l’epitaffio di Harlan Sewall:

Tu non comprendesti mai, o Sconosciuto,
perché abbia ripagato
la tua devota amicizia e i tuoi servigi delicati
dapprima con ringraziamenti via via piú rari,
poi col graduale sottrarmi alla tua presenza
in modo da non dovere esser costretto a ringraziarti,
e poi col silenzio che seguí alla nostra
separazione estrema.
Tu avevi curato la mia anima malata. Ma per curarla conoscesti il mio male, penetrasti il mio segreto,
ed è perciò che fuggii da te.
Perché mentre, riemergendo da un dolore del corpo,
noi baciamo in eterno le vigili mani
che ci han dato l’assenzio, pur rabbrividendo
se pensiamo all’assenzio,
la cura di un’anima è tutt’altra cosa,
perché allora vorremmo cancellar dal ricordo
le parole tenere, gli occhi indaganti,
e restare per sempre dimentichi
non tanto del nostro dolore,
quanto della mano che lo ha risanato.

Nemmeno Dante, nella Commedia, riesce a immaginare un girone dedicato agli ingrati. Non che non incontri o non biasimi l’ingratitudine, ma assegnandole sempre una funzione di supplemento di altre iniquità, ancella dispersa fra anime perse, figlia di un demone minore, corollario di dissolutezze diverse. Quelle degli avari e dei prodighi, per esempio, che «fuor guerci» cioè incapaci di antivedere, di misurare le conseguenze della loro inadempienza: o perchè hanno promesso senza elargire o perchè hanno disperso senza essere valenti nell’offrire benefici. E ancora i traditori, intrappolati nel ghiaccio per l’eternità. E non è forse l’ingratitudine una ruga del tradimento? Non è tradimento anche una memoria disconosciuta, una promessa avvilita, l’oblio di un vantaggio e di una considerazione ricevuta da un familiare, da un collega, da un amico, da un benefattore? Si può obiettare che l’aver compiuto un’azione virtuosa dovrebbe bastare al saggio la cui ricompensa dovrebbe essere proprio il fatto di averla compiuta, ma il vedersela dimostrata fa pur sempre parte dell’amore e dell’amicizia. Anzi, ne è il termometro. Al contempo essa non è autentica, se dettata da motivi di convenienza. Come diceva Rousseau, «un animo grato è attratto unicamente dal valore della sua intenzione […] chi accetta con buona disposizione d’animo un beneficio e con identica disposizione d’animo si sente in debito: la gratitudine, in questo caso, è celata nell’intimo della coscienza».

Pier Leone Ghezzi, La Gratitudine (1706)

Un motivo, quello della dimenticanza dei benefici ricevuti, caro a Seneca che, nel De beneficiis e nelle Lettere a Lucilio, gli dedica non pochi passi che potrebbero, da soli, comporre un florilegio. Leggendolo se ne ricava la sensazione che – ammesso che ci stia a cuore ribadire e testimoniare riconoscenza a chi ha curato il nostro deserto interiore, a chi ci ha teso una mano al momento giusto, a chi ci è stato vicino nelle crisi, a chi ci ha difeso, a chi ci ha insegnato, a chi ci ha fatto scoprire qualcosa del mondo e della vita – la gratitudine è un talento paziente, necessita di costanza e delicatezza. Mentre l’ingratitudine che resta in potenza e non arriva a tradursi in perfidia, cela un germe di prepotenza e di violenza psicologica. Ci vuol coraggio ad ammettere il nostro debito verso il prossimo e a porci in una posizione di restituzione e reciprocità. Accettare umilmente che non possiamo fare a meno degli altri significa ribadire la nostra appartenenza all’idea stessa di socialità, ci pone, al contempo, in ascolto profondo di noi stessi facendoci capire il ruolo che ognuno può giocare nella reciproca relazione, ci vaccina dal virus della sopraffazione. Tanto più in questi tempi di (in)sofferenza determinata dall’eccezionalità del periodo storico che viviamo, essere grati “nonostante tutto”, accogliere con mitezza tutta l’indefinitezza del nostro essere, costituisce l’orientamento etico più salutare. Forse l’unico possibile.

4 pensieri riguardo “Quello che ho fatto per te

  1. Credo che la gratitudine sia il desiderio che nasce spontaneo in noi di far crescere star bene chi ci ha fatto star bene. Desiderio da esaudire senza sentire l’onere di ricambiare, senza alcuna fretta. Anzi richiede il suo tempo, presenza costante, tanto che la gratitudine finisce per non esser sentita nemmeno come tale, ma come fiducia, come se si creasse una rete capace di tenere al sicuro le due persone che l’ hanno costruita. Penso possa chiamarsi fiducia.
    D’altra parte, anche l’ingratitudine ha un suo perché da ricercare caso per caso. Non mi sentirei di crocifiggere chi sospetta che essa alberghi in sé e che magari ne avverte anche la colpa. A volte distanze incolmabili ci separano dalle persone che amiamo di più e che ci amano, a volte solo l’imporsi di essere ingrati ci dà quel margine di libertà che ci permette di andare avanti con le nostre vite. La ferita resta ma va accettata come parte di sé, forse addirittura come pietra angolare sulla quale costruire la nostra esistenza. Del resto, devo confessare che quella domanda iniziale pesa come i sensi di colpa di un figlio che tradisce le attese di un padre. Ma se così non facesse, cosa ne sarebbe di lui?
    Poi va da sé che ci sono quelle ingratitudini dalle quali si guarisce solo prendendo atto del mancato interesse dell’altro. A me è capitato, come a tutti, ma ragionandoci su ho sempre avuto l’impressione che le persone non si sbilancino verso il prossimo per tutelare se stessi, il più delle volte perdendosi tutto ciò che di bello si può avere.

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  2. L’approccio letterario ad una sfaccettatura dell’anima, solitamente scandagliata dalla psicologia, è un modo fungibile e didattico per conoscere meglio la complessità umana. Del resto cosa sono molto spesso gli scrittori se non raffinati indagatori dei sentimenti?

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  3. Difficile aggiungere dell’altro di vero e profondo a riflessioni che trovo sempre esatte, equilibrate, o per meglio dire, sensibili nella misura giusta. Anche nei commenti… Anch’io penso che nel dono reciproco e spontaneo degli affetti, nel dare che non s’affanna a chiedere ciò che dà, non perché sia gratuito ma perché si sente felicemente contraccambiato, «la gratitudine finisce per non esser sentita nemmeno come tale, ma come fiducia».
    E condivido l’idea che l'”ingratitudine” sia anche l’effetto inevitabile, forse non voluto o forse soltanto trascurato, del comportamento di chi ha bisogno di un’altra libertà, di un’altra via oltre quella già vissuta (e non per forza già conclusa) insieme ad altri, e la va cercando in tanti modi… Questo desiderio non può essere trascurato mentre ci si preoccupa, giustamente, di non accrescere negli altri il dolore dell’abbandono; perché s’impone, s’espande, anche quando vorremmo dissimularlo davanti alle attese e alle angosce di chi ci scopre incredibilmente distanti.
    Certo, troppe volte non si ha alcuna cura della sofferenza che si può provocare e si provoca; non si è minimamente capaci di sentire e apprezzare il valore dei doni ricevuti; mancano delicatezza, pazienza, empatia, comprensione per l’Altro. Ma in generale direi: se la persona che amiamo si mostra ingrata, allora o non avevamo capito quanto fosse (in)sensibile e quale sforzo bisognasse fare per starle accanto ed essere contenti; o non è ingrata, ma piuttosto non è più grata, almeno non lo è come prima perché ha maturato degli altri bisogni.
    Se fossimo più lucidi non ignoreremmo tante cose di noi stessi e degli altri, e il fatto che i sentimenti mutano e per comprendere questo”evento” non basta inventariare tutte le sue possibili ragioni. Scopriremmo, forse, che l'”ingratitudine” dell’amato (o amata) scompare nell’instante in cui smettiamo di chiedergli quello che non può più dare.

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