Degli episodi che compongono il Decalogo di Krzysztof Kiešlowski, il quarto è tra i più enigmatici: un corpo a corpo padre-figlia sul mistero e la prepotenza della sindrome edipica. Protagonista è la giovane Anka che vive col padre Michal da quando ha perduto la madre, cinque giorni dopo essere nata, e che coltiva la passione per la recitazione frequentando i corsi dell’Accademia d’Arte Drammatica di Varsavia. La promiscuità con l’uomo e l’esclusività di un ventennale rapporto protettivo è la naturale espressione di un sentimento tra consanguinei. Tuttavia, sin dalle prime scene il regista insinua il sospetto di una relazione che sembra trascendere il normale affetto familiare, di un rapporto totalizzante, viscerale, tale da impedire ad entrambi una vita affettiva autonoma.
Nel giorno del lunedì di Pasqua, i due giocano in casa, si rincorrono, si fanno scherzi che sembrano rituali, come quello di Anka che sveglia il padre versandogli in testa dell’acqua. Fin qui lo spettatore non è ancora a conoscenza della natura del loro legame, dell’essere un padre e una figlia, e sarebbe portato a interpretarlo come un normale gioco tra innamorati, tanto più che quando l’uomo contraccambia lo scherzo, la macchina da presa indugia su uno sguardo non proprio innocente dell’uomo sulla camicia da notte bagnata della figlia.

Un’ambiguità di rapporti analoga ricorda un bellissimo romanzo di Guido Morselli, da cui Florestano Vancini ricavò un film nel 1979. Anche in Un dramma borghese la storia si svolge praticamente in un unico spazio, una stanza d’albergo dove un uomo di cinquant’anni trascorre qualche giorno con la figlia Mimmina, messa in collegio dopo la morte della madre. Nel libro, però, la tensione tra l’istinto del padre di allontanarsi per l’incapacità di aderire al suo ruolo e l’attrazione invadente della figlia che ubbidisce a un impulso profondo – l’imperioso desiderio d’essere amata – ha un epilogo drammatico. Affine è però la rappresentazione di quella zona oscura dei sentimenti in cui lo spettro terribile dell’incesto s’insinua nella complicità tra padre e figlia da cui ci si può solo ritrarre spaventati.
In Decalogo IV, invece, l’elemento determinante della narrazione è una lettera rivelatrice che rappresenta un tassello della memoria all’ombra del quale si svolge la vicenda. Essa porta alla rivelazione di un rapporto segreto: dopo una partenza del padre, la ragazza trova una busta su cui riconosce la grafia di Michal e l’invito ad aprirla solo dopo la morte del genitore. Anka indugerà per un po’, osservandola in controluce, tastandola per cercare di svelarne il contenuto, ma resisterà alla tentazione d’aprirla.
Il giorno dopo, nell’unica scena in esterni del film, ambientata in una radura sulle rive della Vistola, la giovane aprirà la busta e ne troverà un’altra all’interno con su scritto «per mia figlia Anka». Testimone muto della scena è un misterioso uomo del destino che appare anche in altri episodi del Decalogo. Attraversa su un canotto le acque del fiume osservando con espressione di rimprovero la ragazza che tiene in mano la lettera; la sua presenza è chiaramente simbolica e nei suoi occhi si possono cogliere infinite possibilità circa il contenuto della busta che resterà ancora proibito.
Quale nesso esiste tra la vicenda raccontata da Kiešlowski e il precetto («Onora il padre e la madre») che dà il titolo alla storia? Credo si debba rintracciare nel paradosso su cui si regge il quarto dei comandamenti. Esso reclama e rivendica l’obbedienza che è dovuta ai genitori (il doverli cioè «onorare»), ma questi in quanto tali e per il compito che svolgono sono quasi fatalmente chiamati ad auspicare la progressiva indipendenza dei figli, fino direi alla disobbedienza. Di quest’implicita contraddizione sono forse più consapevoli i figli, ma essi non possono eluderla dal momento che chi la proclama è qualcuno di cui riconoscono profondamente l’autorità. Nella forbice tra il rispetto della norma, imposto dall’imperativo morale, e la trasgressione in qualche modo necessaria alla formazione di un individuo autonomo, che è poi l’obiettivo educativo autentico di chi abbia a cuore i propri figli, il precetto «onora il padre e la madre» è forse il più difficile da osservare perché non ha che fare tanto con l’obbedienza, ma piuttosto con la liceità e la necessità della disobbedienza.

Nella laica prospettiva del regista che trascende il problema astrattamente religioso delle conseguenze dell’incesto, Decalogo IV è paradigmatico del paradosso e della contraddizione insita nella necessità del “disobbedire obbedendo”, sin dal messaggio che il padre scrive sulla busta che la figlia trova in un cassetto – «Non aprire fino alla mia morte» – che è un irresistibile invito alla disobbedienza. E infatti Anka, seppur tra tante esitazioni, trasgredirà e leggerà. Da quel momento, le parole della lettera si infiggeranno nella mente e la ragazza, che studia da attrice, le imparerà a memoria proprio come siamo stato abituati a fare, da bambini, con i dieci comandamenti: «…ti devo dire una cosa: Michal non è tuo padre. Non ha troppa importanza chi lo sia: un attimo di disattenzione, di stupidità, e di cattiveria. So che Michal ti amerà come una figlia…».
Nel gergo teatrale, ma in generale in ogni processo comunicativo, il sottotesto comprende ciò che pensiamo ma non diciamo, è come un linguaggio segreto, più rivelatore della stessa comunicazione verbale: nel film, esso è il rapporto tra personaggio e dilemma. Quel passo che Anka ripete a memoria è il sottotesto (così lo chiama anche la ragazza) del rapporto con Michal e dice – sono le parole della figlia nel film – «che da sempre conosco il contenuto di quella lettera. Quando ho avuto il mio primo ragazzo ho sentito dentro di me di tradire qualcuno: non riuscivo a capire che eri tu». D’altro canto, anche il padre comprende quel messaggio e di conseguenza si comporta da padre autentico: «Se ti costringessi o ti proibissi di fare qualcosa, per me sarebbe una forma di gelosia». Nell’educazione di un figlio è insito, infatti, quest’ineliminabile paradosso: occorre auspicare l’irreversibilità del momento in cui il figlio disobbedirà al padre perché, come un buon genitore dovrebbe desiderare, sarà proprio quello il momento in cui troverà realizzazione il desiderio d’indipendenza dalla propria autorità.
In una scena del film, l’aspro colloquio tra Anka che accusa Michal di non essere suo padre e questi che la colpisce con uno schiaffo è quanto mai rivelatore. Il seguito è uno sconvolgente precipizio sentimentale: a casa, l’uomo manda in frantumi una porta di vetro con un calcio e la scena ha quasi una valenza metaforica che sancisce l’irreparabile frattura della relazione che ha unito i due personaggi sino a quel punto; Anka a sua volta la ribadisce recandosi dalla madre del suo fidanzato per annunciarle il proposito di volerlo sposare anche subito, a dispetto dell’opinione paterna.

In un successivo colloquio chiarificatore tra i due emerge però tutto il senso di frustrazione della figlia che confessa di aver provato, con ogni suo fidanzato, la sensazione di un costante «tradimento» del padre. Il disagio di Anka dimostra come sia concreto il paradosso su cui si regge il rapporto padre-figlia: entrambi si amano profondamente fino al limite estremo dell’attrazione fisica oltre il quale c’è solo la tragedia. Il dilemma etico della vicenda ruota attorno al valore della rivelazione affidato alla lettera: si tratta della verità o di una fantasia della ragazza che l’ha inventata di sana pianta, come fa pensare una scena in cui Anka fruga tra ricordi e carte della madre e a un tavolo si esercita a imitarne la grafia? Non è questione da poco poiché nell’intensità del rapporto tra padre e figlia s’insinua un desiderio ostacolato dal fantasma di uno dei tabù più radicati nella storia dell’umanità, quello appunto dell’incesto: Anka sembra volersi offrire all’uomo, ma in quest’ultimo prevale la volontà di una paternità più imperiosa di quella naturale, e cioè quella morale, frutto di una lunga costruzione il cui fondamento sta nel rispetto della libertà e dell’autonomia esistenziale della figlia.
Su un labile confine tra affetto ed attrazione erotica, l’episodio ruota così attorno ad un dubbio immaginario, dietro cui si cela l’utopico desiderio di entrambi i protagonisti di essere liberi di scegliere il modo in cui potersi amare. Ad Anka che gli rimprovera di averle tenuto nascosto che non è suo padre, Michal oppone il rifiuto di quest’idea e l’invito a vivere la sua vita, ma la figlia lo sfida, gli si offre, si denuda e invita il padre a toccarla. Questi invece la copre con un maglione, la abbraccia e le dice una frase bellissima nella sua semplicità e riassuntiva di ogni possibile contraddizione: «Ti amo, e sei mia figlia», con cui suggella l’impossibilità del loro amore carnale. La minaccia dell’incesto si dissolve nella stessa verità dell’amore paterno.

Nel finale, Kiešlowski capovolge però il senso dell’episodio: al risveglio, Anka non trova Michal in casa. Dalla finestra lo vede uscire in strada e lo chiama a gran voce: «papino!», come quand’era bambina; lo raggiunge e gli confessa di essere stata lei a scrivere la lettera imitando la calligrafia della madre, e che quella vera non l’ha mai aperta. Insieme tornano a casa e decidono di bruciare la vera lettera di cui rimangono solo insignificanti frammenti che acoltiamo letti dalla voce fuori campo di Anka: «Mia adorata bambina… Non capisco… Vorrei dirti una cosa molto importante: Michal non è…».

Il desiderio della ragazza Anka è che il padre resti tale pur nella necessità di doverlo «tradire»; nel conflitto tra obbedienza e disobbedienza, la terza via che lei trova è recitare, cioè essere altro da sé, senza smentire così la necessità di quel paradosso. Il suo dilemma sembra così essere legato al bisogno di razionalità, alla volontà di chiarire, comprendere i “sottotesti” della propria vita, quelli a cui guarda come a una drammaturgia che è possibile “interpretare”, nella duplice accezione del capire e del farsene interprete. Quelli della trasparenza e della chiarezza, tanto sul contenuto della lettera quanto sulla natura dei rapporti sentimentali, sono motivi suggeriti, come spesso accade in Kiešlowski, da una serie di segni rivelatori, presagi, dettagli dalla forte evidenza simbolica: l’acqua con cui Anka e Michal si bagnano a vicenda; le candele alla cui luce entrambi osservano le fotografie che ritraggono la madre con i potenziali padri di Anka; la busta osservata in controluce per cercare di indovinarne il contenuto; gli oggetti di cristallo che il padre raccatta quando la figlia gli dice di essere incinta; il vetro della porta che va in frantumi per la reazione rabbiosa di Michal alla ribellione della figlia. Infine, non è di poco conto la miopia di cui si accorge la ragazza e che la obbliga a usare gli occhiali, indossati per la prima volta il giorno in cui recita al padre il contenuto della lettera.
Nel gioco delle scritture si addensano temi tipici della poetica di Kiešlowski: il caso, il mistero, l’ambiguità dei rapporti umani. Ma ogni racconto del Decalogo, a dire il vero, offre una molteplicità di spunti narrativi. La storia ispirata al quarto comandamento, almeno come si legge nella sceneggiatura, sarebbe dovuta essere esposta in modo decisamente più ambiguo da tre diversi punti di vista – dei due protagonisti e di un narratore esterno – in modo da accentuare il relativismo dei punti di vista e far risaltare pirandellianamente l’impossibilità di scegliere tra diverse versioni dei fatti. È significativo, in questo senso, anche il discrimine che, nella vita di Anka, è rappresentato dal teatro: l’attore è un individuo al confine, è abituato a procedere su una sottile linea di demarcazione che separa l’essere e l’apparire. Nella vita come sulla scena nessuna relazione può prescindere dal gioco delle parti, dai ruoli che i singoli ricoprono consapevolmente o meno. La possessività e la gelosia sono costitutivi di ogni rapporto sentimentale, ma anche componenti ambigue di cui non è facile decifrare il risvolto etico. È l’amore stesso, del resto, che si offre nella forma di un incessante e indecifrabile mutamento su cui nessuno è mai riuscito a dire l’ultima parola.