
C’è quest’espressione, in siciliano: cascari du cori, cadere dal cuore. Si usa per dare l’idea di un sentimento usurato ed esaurito, in un modo che si percepisce come irreversibile: mi cascau du cori, per dire “non l’amo più”. Non so bene se, quanto e come si usi in italiano, non mi vengono in mente scrittori che l’abbiano usata e mi pare che non esista un corrispettivo in altre lingue. Anzi, in inglese il verbo “cadere” si usa semmai in un’accezione opposta a quella dell’espressione dialettale che indica il venir meno dell’amore. To fall in love vuol dire, al contrario, “innamorarsi”. Perché si usa, allora, il verbo “cadere”? Penso che abbia a che fare con ciò che considererei qualcosa di più di una sensazione o un sintomo, piuttosto un sentimento: la vertigine, l’ebbrezza del vuoto che ti coglie quando temi non tanto di cadere nel precipizio, ma di gettartici tu stesso. E rifletto su quando, nella vita, mi è capitato di provarlo. Ci penso dopo aver ripreso in mano il Trattato di funambolismo di Philippe Petit e dopo aver visto un film di Robert Zemeckis (The walk, sconsigliatissimo a chi soffre proprio di vertigini) sulla sua più spettacolare impresa: la camminata, il 7 agosto del 1974, su un cavo d’acciaio teso tra le Twin Towers. Mi dico che il senso più simile alla vertigine l’ho provato in alcune circostanze particolari: in amore, ça va sans dire; mentre studiavo dei manoscritti di un autore a cui ho dedicato anni di ricerche; giocando (a carte, soprattutto); assistendo ad alcune partite di calcio; durante le mie crisi d’ansia.

Quanto a queste ultime, è difficile spiegare, a chi non ne soffra, la vertiginosa sensazione di confusione che ti ottenebra, la testa che ti gira, il respiro che prima si fa affannoso e poi ti manda in iperventilazione, l’irrequietezza, l’aritmia, la perdita di controllo del corpo, lo smarrimento e il bisogno di essere in qualsiasi altro posto diverso da quello in cui ti trovi, l’impulso irrazionale a fare ogni cosa pur di non essere travolto da ciò che assomiglia a un turbine, a un mostro che sai che potrebbe prendere il tuo controllo anche solo pensando che potrebbe accadere. È la sensazione di un vuoto che ti risucchia, è la mancanza di riferimenti stabili e solidi a crearlo, è l’assenza di tutto ciò che solitamente ci dà confini e certezze.

Ed è a questo punto che mi ricordo ciò che scrive Petit a proposito delle sue passeggiate sul filo, sospeso nel cielo: «Questo vuoto atterrisce. Prigionieri d’un brandello di spazio, combatterete allo stremo delle forze misteriosi elementi: l’assenza di materia, l’odore dell’equilibrio, la vertigine dai lati molteplici e il cupo desiderio di ritornare a terra, tutto questo sarà schiacciante. Tale vertigine è il dramma della danza sul filo, ma di quello non ho paura».
Cos’hanno in comune le nostre vertigini con quelle del funambolo? Tutto.
Non è forse vertigine anche quella della conoscenza? Quando studi e ti sembra di non cogliere immediatamente ogni cosa o realizzi di non saperne mai abbastanza? Ti affacci su un vuoto immenso su cui hai teso una fune e sai di doverci camminare sopra. Puoi cadere, ma non puoi tornare indietro, anzi senti di non voler più tornare indietro.
Non è forse vertigine quella del giocatore, con la sua inebriante commistione di audacia, voluttà e sofferenza? Basti pensare ai personaggi dostoevskjani del Giocatore, tutti irretiti dalla vertigine incontrollabile della caduta, e al suo protagonista, Aleksèj, dominato dalla duplice attrazione per la roulette e per l’altera e inquietante Polina: «C’è qualcosa di particolare nella sensazione che provi quando, solo in terra straniera, lontano dalla patria e dagli amici, senza neanche sapere quel che mangerai domani, punti l’ultimo fiorino, proprio l’ultimo!».
Non è infine vertigine quella dell’innamorato assalito da mille timori e tremori che lo agiscono e, non volendo recedere dalla sua scelta, non può che procedere in equilibrio su un vuoto? «L’ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere» – scrive Kundera – «ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso».

Il desiderio di conoscenza (Ulisse docet), il gioco e l’amore hanno in comune l’idea della molteplicità delle azioni possibili, della sfida e dell’abbandono alle forze del caso e della conseguente vertigine che provocano, il modo in cui ci rapportiamo a ciò che per comodità chiamiamo “destino”. L’azzardo cui il ricercatore, il giocatore e l’innamorato si rivolgono ha in comune il disinteresse materiale, il più segreto radicato desiderio di sovvertire l’ordine tra cielo e terra facendo percepire come dimensione sicura quella dell’altezza e non del suolo. Ma è proprio quando cadi nel vuoto che arriva l’inattesa e imprevedibile possibilità di ripartire scegliendo un’altra direzione, tra le infinite possibili. Per questo non bisognerebbe mai cercare di allontanarsi da quel punto in cui ci sembra di stare perdendo tutto.

Parafrasando e sovvertendo Pirandello che, a proposito dell’umorismo, distingueva tra avvertimento e sentimento del contrario, si può dire che la caduta – in amore, nel gioco, nello studio – è l’avvertimento di una scomposizione dell’ordine in cui ci si rappresenta una situazione che procura angoscia, ma il vuoto in cui si cade non è il Nulla, è invece un alleato, il punto di appoggio che permette di essere altro da ciò che si è, permette di diventare finalmente funamboli. A quel punto diventa un sentimento e il cadere dal cuore significa allora sentire che si ha di nuovo la possibilità di risalire su quel filo sospeso nel cielo perché a quello si appartiene, a quella dimensione che si misura attraverso l’accuratezza che serve ad ogni passo per non cadere in terra.
Da fedele lettrice, questa volta mi sento ‘raccontata’. Una riflessione che ho letto (e riletto e riletto e riletto) e che, appunto, è stata uno specchio. Grazie.
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