Del vivere, del morire e (forse) del guarire

In un saggio intitolato La medicalizzazione della vita, Leonardo Sciascia prende le mosse dalla Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès per riflettere su come e quando sia avvenuto il passaggio da «un’idea della morte all’interdetto sulla morte», e di come la “secolarizzazione” che caratterizza la morte moderna, sottratta al trascendente, al magico, e affidata alla potenza terapeutica della scienza, costituisca l’aspetto principale di quest’interdizione. La medicalizzazione della vita è, per lo scrittore siciliano, una forma d’irreversibile tecnicizzazione della malattia che ingenera, nell’individuo, l’effimera speranza di una guarigione, eludendo così la necessaria presa di coscienza, da parte del malato, della prossimità della fine.

Nel saggio di Ariès è ricordato invece che, nel medioevo, per quanto angosciante fosse l’idea, il trapasso avveniva nel proprio letto, in una dimensione che lo storico definisce «addomesticata», di cerimonialità pubblica, in cui il dolore era attenuato dalla partecipazione di tutta la comunità e da una ritualità priva di manifestazioni esasperate, e di cui l’unico atto ecclesiastico era l’assoluzione in limine mortis. Radunati i familiari attorno al proprio letto, i padri consegnavano ai figli le ultime raccomandazioni, in un estremo abbraccio ideale, poi il moribondo, volgendosi verso il muro, dava le spalle agli astanti, quasi per isolarsi, e si congedava dal mondo senza imbarazzo alcuno, al punto che non solo un qualsiasi sconosciuto di passaggio poteva prendere parte alla veglia, ma gli stessi bambini potevano assistere.

Nella remota Sicilia d’infanzia che Sciascia non cessa mai di ricordare, la speranza nella gradualità del trapasso era tale che una morte «subitanea», e cioè inaspettata, improvvisa, costituiva l’augurio riservato a chi era fatto oggetto d’odio mentre, al contrario, nei confronti dei cari vigeva una sorta di ‘pedagogia’ che assicurava, al momento dell’addio, la dolcezza di un intimo “accompagnamento” familiare, riconoscendo solo marginalmente al medico la possibilità di intervento: «La morte non veniva nascosta a chi ne sarebbe stato preda. L’ammalato veniva informato del suo stato: affinché si preparasse». Nella misura in cui proprio l’ineluttabilità della fine conferiva una dignità specifica alla condizione dell’agonizzante, a lui veniva riconosciuto un ruolo di messaggero col mondo dei morti, al punto che la comunità gli affidava messaggi da recapitare ai cari estinti: saluti per le anime dei conoscenti che si immaginava vagassero nel purgatorio e che gli si raccomandava di andare a cercare; notizie di avvenimenti familiari; rassicurazioni sul fatto che venissero celebrate delle messe in suffragio; richieste di intercessioni per la salvezza delle anime dei familiari viventi.

In una sequenza di Baarìa, di Giuseppe Tornatore, i parenti accorsi al capezzale di un morente gli affidano un lungo elenco di saluti da recare nell’aldilà ai cari defunti. La replica dello sventurato –  «scrivetemi tutto, altrimenti me lo scordo» – sembra provenire da un aneddoto simile che racconta Sciascia per mostrare come l’idea del morire fosse cominciata a divenire «insopportabile» intorno alla fine degli anni Venti del Novecento. Un secolo fa, con l’affermarsi del potere della scienza, l’asettica oggettivazione della morte ha finito col neutralizzare il senso rituale, surrogando la dimensione privata della sofferenza con quella pubblica della conoscenza.

Nasce così il paradosso di una censura sull’ineluttabile, un interdetto che priva le esistenze individuali del loro peso specifico, riducendole a meri corpi. L’eliminazione della morte avviene cioè attraverso la rimozione dell’idea del morire ed esorcizzata, anche linguisticamente, con gli eufemismi che servono a denotarla (“fine della vita”; “venir meno”; “conclusione del cammino terreno”; “uscita dalla scena della Storia”; “decesso”; ovvero, relativamente al morto, quelle che lo denotano come colui che: “non è più”; “si è spento”; “è mancato”; e perciò è detto: “estinto”; “defunto”; “trapassato”; “deceduto”; “scomparso”; “tornato alla casa del Padre”), non già come surrogati pietosi, ma piuttosto come sostituti decorosi di qualsiasi altro riferimento diretto, ritenuto troppo sconveniente a chi ne faccia oggetto di conversazione.

Il momento nel quale avviene il passaggio dalla morte «addomesticata» di Ariès al tabù dell’angoscia e del dolore può essere fissato, secondo Sciascia, nel racconto La morte di Ivan Il’íč e nella messinscena che Tolstoj fa dell’emarginazione del malato dalla scena dei sani. Chi è Ivan Il’íč? Un borghese «ammodo», coscienzioso, di buona famiglia e di buon senso, sussiegoso con i superiori che possono agevolargli la carriera, membro della Corte d’Appello, cristallizzato in un’esteriorità di cui è parte un matrimonio di convenienza, perfettamente allineato a un’esistenza incolore e ordinaria, se non fosse per un banale incidente domestico che lo arpiona e lo condanna all’inesorabilità di un male incurabile.

Nel 1884 cui risale l’inizio della stesura del racconto, si moriva già “modernamente” di cancro, anche se la malattia non era ancora individuata con la precisione delle moderne tecniche diagnostiche. L’elemento nuovo sta nell’ineffabilità della malattia e forse già nell’essere innominabile, nell’essere tenuta nascosta al malato; c’è un elemento di “modernità” nella reticenza che affiora nelle visite mediche, così come nell’ipocrisia dei familiari che gli impongono la zelante osservanza delle terapie e delle prescrizioni cui essi per primi non credono, contribuendo a emarginarlo progressivamente, a neutralizzarlo.

Come scrive Ariès, il malato «viene spogliato della sua responsabilità, della sua capacità a riflettere, a osservare, a decidere, è condannato alla puerilità». L’aspetto interessante di questo transito dalla morte ‘popolare’, di tutti, a quella borghese della medicalizzazione del suo sentimento sta nel fatto che il malato, privato del diritto all’angoscia esistenziale, è condizionato dalla medicina, si abitua a pensare come i medici e non come uno che è arrivato al punto di doversi mettere in ascolto della propria fine. Sciascia avanza l’ipotesi che, per i familiari che recitano col malato la commedia dell’ottimismo, allo scopo di permettere anche a sé stessi, oltre che al moribondo, di tenere altro il morale «i medici e le medicine siano per loro, inconsciamente, strumenti punitivi verso colui che impudicamente li fa spettatori della propria morte, della morte», e fa l’esempio dell’insofferenza della tolstojana Praskov’ja Fedorovna per i lamenti che le infligge il marito.

Del resto, lo stesso auto-segregarsi fisico ed emotivo di Ivan Il’íč nello spazio a parte di una stanzetta in cui vivere la propria malattia, sentendosi «con tre porte chiuse in mezzo» prelude già all’idea della «dislocazione istituzionale» rappresentata dall’ospedale, o segna il passaggio, scrive Sciascia, «da una concezione dell’ospedale in cui il terrore di chi doveva finirvi corrispondeva alla vergogna dei familiari che erano costretti a portarvelo, a una concezione esattamente opposta: dell’andare in ospedale e del portarvi uno della famiglia, come segno di decoro e di mentalità moderna e civile».

La sconvenienza del dolore, il rifiuto collettivo a riconoscere la malattia per esorcizzarne la gravità, l’anestetico dell’ipocrisia generalizzata che camuffa la banale constatazione dell’inefficacia delle cure mediche e dell’accudimento domestico è però proprio ciò che tormenta il personaggio tolstojano che, nel momento in cui realizza l’ineluttabilità e indifferibilità del proprio appuntamento con la morte, è angosciato proprio dal fatto che tutti si affannino a ridurre l’atto terribile e solenne della sua morte al livello delle visite specialistiche e delle cure palliative che gli impongono. È allora che si ribella, si volta verso il muro e si rifiuta di cooperare e comunicare, chiedendo solo di poter morire, di non essere spossessato della morte, della propria morte, affermando così, al contempo, l’autenticità della vita, della propria vita.

Nella riflessione di Sciascia, tre sono gli aspetti che fanno di Ivan Il’íč il personaggio paradigmatico che percorre il crinale tra due epoche e segna l’evoluzione di un diverso atteggiamento dell’uomo occidentale di fronte alla morte e alla medicalizzazione della vita. Il primo è dato dalla «…confessione e comunione del morente [che] non ha più la funzione di metterlo in regola con l’aldilà, ma è ormai una formalità che fa da diversivo, pausa, da distrazione dal dolore; che conduce i pensieri dell’agonizzante, invece che alla morte e a Dio, alla vita, alla possibilità di guarire […] è come se al suo capezzale il prete avesse fatto consegna al medico della vecchia, antica idea della morte; e il medico non potrà che vanificarla, che surrogarla totalmente con l’idea della vita medicalizzata».

Il secondo aspetto è nel saluto che il protagonista del racconto riserva al figlio Vanja che si curva su di lui, baciandolo disperatamente fra i singhiozzi, quasi a trattenerne la vita che fugge; un congedo che procura pacificazione e sollievo al moribondo perché questi raggiunge finalmente la consapevolezza dell’inautenticità e meschinità della vita precedente e con essa il senso nascosto del vivere e del morire nei loro rapporti eterni. Ma si accompagna alla preoccupazione che il figlio «non veda la morte, che cominci a rispettare anch’egli, come tutti, l’interdizione che sta per cadere sulla morte».

E infine la moderna intuizione tolstojana dell’accomunare la figura del medico a quella del giudice attraverso il paragone che Ivan Il’íč fa tra sé stesso, uomo di legge, della cui imperscrutabilità nell’esercizio delle proprie funzioni giudicanti non è tenuto a dar conto a nessuno «poiché quel che conta è l’affermazione della legge comunque interpretata» e l’uomo di scienza, depositario di ogni speranza di sopravvivenza concreta o ipotetica, che si rivolge all’agonizzante con l’impassibilità che gli deriva dal fare «astrazione dalla malattia e dalla salute, poiché quel che conta è l’affermazione della medicina, cioè della «medicalisation de l’idée de la vie». Che è come dire che, con il medico-giudice di Tolstoj, e poco prima di quel 1923 in cui Il dottor Knock di Jules Romains ne decreterà il «trionfo», siamo già all’idea di una medicina che burocratizza la morte, neutralizzando la sofferenza e sottoponendola alla consuetudine dei protocolli. Ed è ancora una volta felicemente spiazzante la dimensione borgesiana con cui Sciascia chiude il saggio, facendo notare come, a causa delle traslitterazioni dal cirillico, il nome del personaggio tolstojano sia trascritto in tre modi diversi nelle varie traduzioni e che forse potrebbe più semplicemente essere trascritto come Ivan Illich, che è anche il nome del sociologo austriaco che più di altri, nel 1975 in cui verrà pubblicato il suo Némésis médicale (Nemesi medica. L’espropriazione della salute), polemizzerà con la medicalizzazione della vita.

Un’ultima chiosa, su Tolstoj e Sciascia, su Ivan Il’íč e lo scrittore di Racalmuto, per dire che l’esorcizzazione della morte, attraverso ipocriti rituali propri di quella modernità omologante che annulla ogni valore trascendente e morale, e che Sciascia non fece mai mostra di amare, era anche il problema individuale di prepararsi alla propria fine. Così Tolstoj fa morire il principe Andréj Bolkonski in Guerra e pace, dopo le atroci sofferenze causategli da una granata che gli ha squarciato l’addome durante la battaglia contro Napoleone a Borodino: «Aveva la sensazione di allontanarsi da ogni cosa terrena e quella di una strana e gioiosa levità di tutto il suo essere. Senza impazienza e senza ansia, attendeva il compimento di ciò che incombeva su di lui. Quella cosa terribile, eterna, ignota e lontana di cui aveva sentito la presenza per tutta la vita, gli era ormai vicinissima e, per quella strana sensazione di levità dell’essere, quasi comprensibile e tangibile…»

Con la stessa pace nell’animo se ne andrà pure Sciascia, le cui ultime parole furono: «è l’alba», quasi a voler intendere di essere sopravvissuto, una notte ancora, alla via crucis di quel mieloma multiplo che gli aveva invaso il sangue, condannandolo alla paura, al dolore, alla paura del dolore. E chissà che non gli siano tornati in mente alcuni dei suoi versi giovanili – «Ora, in quest’alba che hanno le case, / il paese è come un vascello che salpa: / nella sua nitida alberatura / per me s’impiglia una vela di morte» – o la disarmante perplessità psicologica e metafisica dei personaggi in cui amò scheggiarsi: il piccolo giudice di Porte aperte che considerava la vita soltanto «caso e assurdità», capace di valere «soltanto in sé, nelle illusioni in cui la si vive»; il Vice del Cavaliere e la morte che si congeda dalla vita quando«era già eterno e ineffabile il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta»; il professor Franzò di Una storia semplice che nutre il suo cupio dissolvi della considerazione per cui «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza».

Quali che siano stati i suoi pensieri, peraltro insondabili, vorremmo credere che le sue ultime parole affidate alla scrittura, nell’explicit di Una storia semplice, siano definitivamente riassuntive dello stato d’animo che ne ha accompagnato la fine: «Uscì dalla città cantando». Vorrei immaginare che la sua mente sia stata attraversata proprio dal ricordo del tolstojano Ivan Il’íč, e come lui, nell’ora fatale, si sia messo in ascolto, acquietato dal conforto della livida e luttuosa luce dell’alba, consegnato infine a una perfetta pace: «E la morte?Dov’è?». Cercò al sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’è? Ma che morte? Non c’era più paura perché non c’era più morte. Invece della morte, la luce. Dunque è così! – disse d’un tratto ad alta voce. – Che gioia!»

«Vorrei raccontare il morire, la morte come esperienza», aveva scritto Sciascia nella Medicalizzazione della vita, ancora ignaro del proprio destino, e assumendo proprio l’«impareggiabile tentativo» dell’Ivan Il’íč di Tolstoj come paradigma di un concetto destinato a segnare il discrimine tra due opposte idee della malattia e del modo di vivere la morte per malattia, limitandosi ad averne per conto suo solo «un’ultima suprema curiosità intellettuale». E a testimoniare la propria ars moriendi, restano le parole con le quali, descrivendo la fine del Vice, nel Cavaliere e la morte, sembra prefigurare la propria: «Cadde pensando: si cade per precauzione e per convenzione. Credeva di potersi rialzare, ma non ce la fece. Si sollevò su un gomito. La vita se ne andava fluida, leggera; il dolore era scomparso. Al diavolo la morfina, pensò. E tutto era chiaro, ora…»

Il rifiuto dell’angoscia di morte ha il suo fondamento in quello che Heidegger chiama l’«essere per la morte», una forma di «disadattamento», spiega Edgar Morin nell’Uomo e la morte, che consente «l’autenticità»: «La vita autentica è quella che in ogni istante sa di essere promessa alla morte e l’accetta coraggiosamente, onestamente. […] Bisogna smettere di eludere l’idea della morte, smettere di fare come se non si dovesse morire mai, come se la morte non ci fosse». Ma per Heidegger non si tratta di pensare all’orrore del cadavere o alla resurrezione. Si tratta invece, grazie alla scelta necessaria dell’autenticità, di diventare «liberi per la morte».

Una forma di ri-significazione, insomma, in cui l’aldilà non viene esorcizzato, ma diventa l’essenza stessa dell’essere, dell’esserci, rappresenta il rigore della spiritualizzazione contro la mutevolezza impura delle cose. Anche in quest’ottica si può leggere l’epitaffio che Sciascia si scelse per la sua tomba, la frase di Villiers de l’Isle-Adam «Ce ne ricorderemo di questo pianeta»: il ricordo da un lato, dunque, l’hic et nunc dall’altro a illuminare una concezione che fa del mondo una necessità e una fatalità, l’approdo di un percorso che ha salde radici nel passato e investe, nel presente, tanto l’autore che i propri contemporanei.