S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?
Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?
Se bona, onde l’effecto aspro mortale?
Se ria, onde sí dolce ogni tormento?
S’a mia voglia ardo, onde ‘l pianto e lamento?
S’a mal mio grado, il lamentar che vale?
O viva morte, o dilectoso male,
come puoi tanto in me, s’io nol consento?
Et s’io ‘l consento, a gran torto mi doglio.
Fra sí contrari vènti in frale barca
mi trovo in alto mar senza governo,
sí lieve di saver, d’error sí carca
ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio,
e tremo a mezza state, ardendo il verno.
Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, CXXXII
Quel che ci affascina dell’Amore è il suo essere ontologicamente contraddittorio. Annosa questione: «di cosa parliamo quando parliamo d’amore»? Prima di Raymond Carver – e da che esiste memoria della poesia stessa – se lo sono chiesti tutti. Al tempo di Petrarca, la faccenda generava sovente delle “tenzoni” – me ne viene in mente una tra Jacopo Mostacci, Pier della Vigna e Giacomo da Lentini – ma qui è l’autore del Canzoniere a ingaggiare un’assillante disputa con sé stesso attraverso un fuoco di fila di interrogativi destinati a rimanere, inevitabilmente, senza risposta. Più facile è procedere per negazione: an sit, quid sit («S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?»). Il movente l’aveva spiegato Andrea Cappellano: l’Amore muove ex visione et immoderata cogitatione, come prodotto di un cortocircuito tra vista e memoria attivata da una lontananza, e si esprime in forma di patologia che causa brividi di freddo quando c’è caldo e vampate nei mesi rigidi (è l’efficace ossimoro fisiologico del verso finale: «e tremo a mezza state, ardendo il verno»). La volontà di non amare serve a poco («come puoi tanto in me, s’io nol consento?») perché l’innamorato è, convenzionalmente, un navigante che deve governare una nave tra marosi in tempesta. Per cui la quidditas non può che essere la resa, il lieve e lieto naufragio nell’oceano della rassegnazione.