Un cuore (beatamente) prigioniero

Aventuroso carcere soave,
dove né per furor né per dispetto,
ma per amor e per pietà distretto
la bella e dolce mia nemica m’ave;

gli altri prigioni al volger de la chiave
s’attristano, io m’allegro: ché diletto
e non martìr, vita e non morte aspetto,
né giudice sever né legge grave,

ma benigne accoglienze, ma complessi
licenzïosi, ma parole sciolte 
da ogni fren, ma risi, vezzi e giochi; 

ma dolci baci, dolcemente impressi
ben mille e mille e mille e mille volte;
e, se potran contarsi, anche fien pochi.

Ludovico Ariosto, Rime, XIX (ed. Bianchi)

Fortunata prigione di dolcezze dove mi ha chiuso la bella e dolce mia nemica, non per furia vendicatrice o per dispetto, ma per amore e per pietà; gli altri prigionieri, al chiudere della mandata, s’intristiscono, io mi rallegro: perché aspetto il diletto e non il martirio, la vita e non la morte, e non un giudice severo o una legge grave, ma benevole accoglienze, abbracci voluttuosi, parole liberate da freni inibitori, risa, carezze e giochi; e dolci baci, dolcemente impressi ben mille e mille e mille volte; e se ancora potranno contarsi, sarebbero pochi.

Alessandra Benucci, la magnifica ossessione di Ariosto, va e viene continuamente dai suoi versi, come il carceriere che, con metodica regolarità, porta il pasto al sequestrato. Il “carcere soave” è un luogo fisico – la camera dei convegni erotici semiclandestini, nella casetta ferrarese di via Borgo Vado – in cui l’amata lo ha probabilmente posto al riparo da sguardi indiscreti (la “cameretta” del sonetto che, nelle Rime per il Canzoniere, precede questo non lascia àdito a dubbi), e la stessa situazione immaginata è da “sindrome di Stoccolma”: l’ostaggio aspetta con ansia di sentire il rumore che farà la serratura della cella in cui è rinchiuso, ma anziché farsi prendere dall’ansia, prova sollievo fino a trepidare all’idea di incontrare chi lo ha rinserrato. Chi l’ha detto che soffrire per amore sia un male? Massimo Troisi – di Pensavo fosse amore e invece era un calesse – direbbe: «lasciatemi soffrire tranquillo, voglio solo soffrire bene». La luminosa e calda schiavitù di cui canta Ariosto, come quella che fingeva per i suoi eroi nelle isole incantate dell’Oceano, è piuttosto una condizione elettiva che fa vivere come un privilegio ciò che agli altri appare come un tormento (ma qui il poeta demolisce quella concezione penitenziale dell’amore che da Petrarca smotta fino al Cinquecento). E a riprova della sua tesi, Ariosto convoca, nell’ultima terzina – insopprimibile vezzo classicheggiante tipico dell’epoca – due autori (Catullo a Properzio) che cita in filigrana, con abile e liberatoria crasi intertestuale: i «dolci baci, dolcemente impressi | ben mille e mille e mille e mille volte» traducono i catulliani «basia mille, deinde centum / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum» del quinto carme, mentre il «se potran contarsi, anche fien pochi» del verso finale evoca l’«omnia si dederis oscula, pauca dabis» di un famoso carme properziano (II 15). Il “carcere”, perciò, allude anche a una condizione esistenziale ‘resiliente’ (mi si perdoni l’abusato aggettivo da élite del supermercato) che, anche nel più bruciante dei tormenti, fa volgere lo sguardo piuttosto alle gioie dell’amore: ai baci, agli abbracci, al linguaggio senza freni inibitori (leggasi: dirty talking), alle risa, alle carezze, ai giochi.

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