«Tògli quella maschera d’oro ardente
Con gli occhi di smeraldo».
«Oh no, mio caro, tu vuoi permetterti
Di scoprire se i cuori sian selvaggi o saggi,
Benché non freddi».
«Volevo solo scoprire quel che c’è da scoprire,
Amore o inganno».
«Fu la maschera ad attrarre la tua mente
E poi a farti battere il cuore,
Non quel che c’è dietro».
«Ma io debbo indagare per sapere
Se tu mi sia nemica».
«Oh no, mio caro, lascia andar tutto questo;
Che importa, purché ci sia fuoco
In te, in me?»
William B. Yeats, La maschera
La poesia dell’irlandese William Butler Yeats, la cui cifra è quella dell’oscillazione tra simbolismo e occultismo, misteri iniziatici e criptiche epifanie, è qui insolitamente evidente. L’amore è tutto un inganno o piuttosto gli è intimamente connaturata la finzione, necessario compromesso per conferirgli quella patina d’ideale che è ciò da cui ci sentiamo fatalmente attratti? Recitare una parte non significa necessariamente mentire; in qualsiasi relazione c’è, almeno all’inizio della storia, una componente d’artificiosa ritualità che si esprime in più o meno elaborate strategie di seduzione. Quel grande laboratorio globale di chirurgia plastica dell’Ego che è Facebook, così come quel salone di social make-up che è Instagram, non hanno fatto altro che pantografare questa componente istrionica – fatta di ammiccamenti e schermaglie, di abboccamenti e dissimulazioni, di gioco a nascondere e plateali coup de théâtre – che è il nutrimento stesso dell’amore 2.0. Siamo abbastanza smaliziati, ormai, da non aver nemmeno bisogno di fare la tara ai copioni di corteggiamento – tutti canzoni a manetta e citazioni da Coelho o D’Avenia, esplorazioni fotografiche ed emoji di cuori, soli e fiori – perché, come in teatro o al cinema, accettiamo di buon grado quel patto finzionale che, senza bisogno di antiacidi, ci fa digerire come vera una realtà che sappiamo non essere sempre tale. L’amore implica una certa dose di finzione che non dev’essere per forza menzogna. Si può amare veramente anche indossando una maschera perché ciò che copre il volto non è meno vero di ciò che ci sta sotto purché, alla prova del nove, «ci sia fuoco | In te, in me».