Auguri Faber, amico fragile

Oggi sarebbe il compleanno di Fabrizio De André. Avrebbe 83 anni. Battisti, invece, era tre anni più giovaneSe ne andarono quasi insieme, a quattro mesi di distanza l’uno dall’altro, allo stesso modo, entrambi per un male incurabile. Battisti e De Andrè, pressoché coetanei, sono ancora i due più amati e popolari artisti della musica d’autore italiana. Ma quanta simbolica differenza nella loro ultima uscita di scena, quella del congedo che riassume e ricapitola un’esistenza: il funerale di Battisti nascosto agli sguardi dei più, dietro cancelli serrati e vetri d’auto oscurati che davano alle esequie l’aspetto di un mistery inquietante, disturbante proprio per quel fiscale rispetto di un’assoluta volontà di privacy che nulla concedeva all’amore incondizionato di un pubblico che non aveva e non ha mai smesso di amarlo. battisti-bannerI fiori lasciati sotto la pioggia o davanti all’ospedale davano il senso dell’abbandono che avranno provato le migliaia di persone comuni che si radunavano spontaneamente per ringraziare e ricambiare in quel modo semplice la gioia provata attraverso le canzoni che avevano cantato e con cui erano diventati adulti. Il funerale di De Andrè, invece, fu emozionante al pari di tante sue memorabili ballate, in mezzo a un mare di gente, la stessa che lui aveva cantato e che non veniva esclusa dai familiari i cui volti apparivano perciò quasi trasfigurati da un abbraccio immenso di folla con cui condividere la grandezza di un dolore che riguardava indistintamente tutti. Perché Faber era di tutti, come tutti i grandi artisti. Persino un poeta come Mario Luzi confessò allora il proprio disagio e si scusò per essere «invecchiato nella quasi totale ignoranza del suo talento». Quel diverso modo di congedarsi mi dà il senso della distanza fra Battisti e De Andrè, mi fa amare il secondo più del primo cui riservo tuttavia l’ammirazione dovuta ad un indiscutibile talento, limitandosi ad essere, quest’ammirazione, un sentimento che me lo fa sentire meno mio, meno autentico, come se avesse detto, nelle sue bellissime canzoni, di provare cose che forse non provava affatto. De Andrè invece era come le sue ballate e per questo più interessante e vero e imperituro. I suoi brani, a differenza di quelli di Battisti, non sono fatti per essere cantati, ma per essere pensati e Faber li scrisse pensando a quella gente con cui si riconosceva e che lo riconosceva. Ecco: nella riconoscenza del pubblico, nel riconoscersi reciproco tra artista e pubblico c’è spazio persino per una straniante felicità, quella della gratitudine che si deve ad un’artista capace di raccontare, senza ruffianerie o ipocriti moralismi, la vita di ognuno, le odissee tragiche o ridicole di piccoli eroi, né migliori né peggiori di ognuno di noi. Per il resto, di lui si è detto tutto, tanto che non saprei dire niente di più o di meglio.

C’è una canzone che ho ascoltato centinaia di volte con un groppo in gola, non solo per ciò che dice, ma anche perché mi ricorda una delle ultime esibizioni in pubblico, pochi mesi prima di morire: Khorakhané. Sul palco, con Faber, c’erano i figli Cristiano e Luvi. Alla fine del pezzo, la telecamera lo inquadra per poco più di un secondo, quanto basta per scorgere un padre commosso per l’applauso tributato dal pubblico alla figlia. In quel suo «sollievo di lacrime a invadere gli occhi e dagli occhi cadere» io scorgo l’artista che amo e l’uomo che ammiro. E se mai qualcuno si accingesse a scrivere quella storia della lacrime che auspicava un genio della critica come Roland Barthes, mi piacerebbe immaginare di poterci ritrovare anche questa piccola e umanissima pagina dell’«amico fragile».

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