Cuore e mente di madre

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Pier Paolo Pasolini, Supplica a mia madre

Sono pochi gli artisti italiani del Novecento che sono stati in grado, come Pier Paolo Pasolini, di scavarsi dentro oltre ogni pudore, di confessarsi al di là di ogni convenzione o di ogni irrazionale timore che la parola «rispetto» spesso nasconde. È così nella famosa e struggente Supplica alla madre, in cui l’autore s’immerge nel maelstrom della propria angoscia esistenziale identificandone il movente primario nel più assoluto degli amori, quello materno. Un amore che è speculare all’altro, assoluto e impossibile, che si era voluto perseguitare e punire, e di cui non avrebbe senso parlare ancora oggi, se la religione e lo Stato non provassero fastidio a sentirlo proclamato in ogni evidenza come naturale. Un motivo privato, viscerale e persistente che si porta appresso anche il suo contrario, cioè quello frustrato e frustrante col Padre, laddove il concetto di Padre implica non solo il confronto con il modello biologico, ma con la Tradizione – culturale, ideologica, religiosa – con cui entrò sempre in un rapporto dialettico e conflittuale.

Lo stesso rapporto di Pasolini con ogni altra donna, si chiamasse Laura Betti, Maria Callas, Silvana Mangano o Elsa Morante, passa attraverso il rapporto con la madre, l’unico in cui è andato a fondo, quello attraverso cui leggere il mondo, per ciò che Susanna Colussi, sua madre, rappresentava.

Il fatto di non vedere le donne nella loro realtà lo avrebbe portato a prendere posizione contro l’aborto, vedendolo essenzialmente dal punto di vista del bambino ancora non nato, dell’uomo “potenziale”, vedendoci la negazione di sé stesso come figlio e una forma di violenza da parte della madre, senza riflettere sul fatto che il più delle volte è la donna a subire la violenza.

estratto da In forma di rosa. Sei quadri e un requiem per Pasolini (2009), di Rosario Castelli

Complesso e contraddittorio Pasolini, come nessun altro, perché complesso umanamente e non solo per la deformazione del personaggio la cui esistenza e la cui opera, proprio perché così complessa, non si presta a essere romanzata. Ma anche per altri motivi come, per esempio, l’ampiezza della produzione e l’essere questa strettamente legata al momento storico-sociale in cui fu concepita, e soprattutto perché nella sue parole non c’è nulla di inessenziale: una caratteristica degli scrittori molto presi dal senso della propria attività, dalla frequente tentazione di auto-analizzarsi attraverso la propria arte. L’unico approccio possibile sembra, perciò, quello disordinato, onnivoro, candido e irrazionale che si conviene a un artista “rinascimentale” – l’ultimo della nostra storia – seppe tessere come in un retablo una ragnatela di interessi – la narrativa, la poesia, la critica militante, la filologia, la politica, la musica, la pittura, il cinema, il teatro – cosicché la sua migliore opera è la globalità della sua Opera, in un’inestricabile fusione di Arte e Vita.

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