Vivere insieme

Un giorno incontriamo la persona giusta. Restiamo indifferenti, perché non l’abbiamo riconosciuta: passeggiamo con la persona giusta per le strade di periferia, prendiamo a poco a poco l’abitudine di passeggiare insieme ogni giorno. Di tanto in tanto, distratti, ci chiediamo se non stiamo forse passeggiando con la persona giusta: ma crediamo piuttosto di no. Siamo troppo tranquilli; la terra, il cielo non sono mutati; i minuti e le ore fluiscono quietamente, senza rintocchi profondi nel nostro cuore. Noi ci siamo sbagliati già tante volte: ci siamo creduti in presenza della persona giusta, e non era. E in presenza di quelle false persone giuste, cadevamo travolti da un tale impetuoso tumulto che quasi non ci restava più la forza di pensare: ci trovavamo a vivere come al centro d’un paese incendiato: alberi, case e oggetti divampavano intorno a noi. E poi di colpo si spegneva il fuoco, non restava che un po’ di brace tiepida: alle nostre spalle i paesi incendiati sono tanti che non possiamo più nemmeno contarli. Adesso niente brucia intorno a noi. Per settimane e mesi, passiamo i giorni con la persona giusta, senza sapere: solo a volte, quando rimasti soli ripensiamo a questa persona, la curva delle sue labbra, certi suoi gesti e inflessioni di voce, nel ripensarli, ci danno un piccolo sussulto al cuore: ma non teniamo conto d’un così piccolo, sordo sussulto. La cosa strana, con questa persona, è che ci sentiamo sempre così bene e in pace, con un largo respiro, con la fronte che era stata così aggrottata e torva per tanti anni, d’un tratto distesa; e non siamo mai stanchi di parlare e ascoltare. Ci rendiamo conto che mai abbiamo avuto un rapporto simile a questo con nessun essere umano; tutti gli esseri umani ci apparivano dopo un poco così inoffensivi, così semplici e piccoli; questa persona, mentre cammina accanto a noi col suo passo diverso dal nostro, col suo severo profilo, possiede una infinita facoltà di farci tutto il bene e tutto il male. Eppure noi siamo infinitamente tranquilli. E lasciamo la nostra casa, e andiamo a vivere con questa persona per sempre: non perché ci siamo convinti che è la persona giusta: anzi non ne siamo affatto convinti, e abbiamo sempre il sospetto che la vera persona giusta per noi si nasconda chissà dove nella città. Ma non abbiamo voglia di sapere dove si nasconde: sentiamo che ormai avremmo ben poco da dirle, perché diciamo tutto a questa persona forse non giusta con cui adesso viviamo: e il bene e il male della nostra vita noi vogliamo riceverlo da questa persona e con lei. Scoppiano fra noi e questa persona, ogni tanto, violenti contrasti: eppure non riescono a rompere quella pace infinita che è in noi. Dopo molti anni, solo dopo molti anni, dopo che fra noi e questa persona si è intessuta una fitta rete di abitudini, di ricordi e di violenti contrasti, sapremo infine che era davvero la persona giusta per noi, che un’altra non l’avremmo sopportata, che solo a lei possiamo chiedere tutto quello che è necessario al nostro cuore.

Natalia Ginzburg, I rapporti umani, da Le piccole virtù

Dovrebbe essere ormai pacifico, dopo decenni di rivendicazioni, che la femminilità non si possa misurare volgarmente sullo stereotipo dell’attitudine al temperamento emotivo e passionale, o dell’inclinazione all’abbandono e all’intenerimento sognante. L’essere donna di Natalia Ginzburg è tutto l’opposto, senza per questo difettare di femminilità profonda, se s’intende quest’ultima come l’espressione di un garbo timido, di una delicatezza che non esonda mai nel patetismo vischioso. I sentimenti che esprime sono sempre contenuti dal pudore e dalla discrezione e il modo in cui sono detti – lo stile – riflette questo tipo di connotazione psicologica. Rapida, essenziale, senza svolazzi lessicali e arabeschi sintattici, apparentemente scabra e disadorna, la scrittura di Ginzburg è concreta, ubbidisce a un senso quasi fisico dell’esperienza morale, e perciò stesso risulta più vera. L’opposizione tra Lei e Lui fa percepire immediatamente la reciproca irriducibilità; donne e uomini sono inevitabilmente differenti, due universi paralleli e non comunicanti tra i quali può ergersi, occasionalmente, un ponte che rende comunque possibile un incontro, sia pure a lungo termine. Il segreto della felicità è nell’accettazione consapevole di ciò che ci distingue più che in quello che accomuna, nel lungo e paziente talento di un’attesa che ci rivela come l’amore possa banalmente trovarsi persino al centro di una fitta ragnatela di abitudini.

Una donna, di passaggio

Urlava attorno a me la via, senza pietà.
Alta, snella, in gramaglie, sovranamente triste,
con sontuosa mano sollevando le liste
dell’abito, guarnito di ondosi falbalà,
e con gamba di statua, passò una donna: vidi,
bevvi nell’occhio suo, con spasimi d’insano,
come in un cielo livido, gravido d’uragano,
dolcezze ammalianti e piaceri omicidi.
Fu un lampo… poi la notte. Fuggitiva beltà,
nel cui sguardo, all’istante, l’anima mia risorse,
non ti vedrò più dunque che nell’eternità?
Altrove, e via di qui! Troppo tardi! mai, forse!
Poiché corriamo entrambi a ignoto e opposto sito,
o tu che avrei amato, o tu che l’hai capito!

Charles Baudelaire, Una passante, da I fiori del male (trad. G. Bufalino)

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet;
Agile et noble, aves sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
Un éclair… puis la nuit! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?
Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être!
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!

La passante di Baudelaire, ovvero il moderno mito dell’innamoramento-flash. Si può incontrare una donna per strada, scorgerla in una moltitudine come per epifania, perderla di vista poiché risucchiata dal movimento della folla e vagheggiarla per una vita senza avere più l’occasione di incontrarla di nuovo? Dal XIX secolo in poi accade più frequentemente di quanto non s’immagini. È l’anonimato metropolitano, il ritmo della città-formicaio, il suo frastuono, che sembrano disporre a questo tipo di stordimento; non è un topos inventato dall’autore dei Fiori del male – quello della bellezza fugace – ma è come se, dopo di lui, diventasse un’ossessione, l’inquieta testimonianza dello smarrimento dell’identità e la sinopia delle contemporanee teorizzazioni sulla modernità liquida e sulla provvisorietà delle relazioni. Ingredienti: una sosta – a un crocicchio, alla fermata del bus, sul marciapiedi di una stazione ferroviaria -; uno sguardo come un lampo («Un éclair…», che evoca sia la luce degli occhi sia il suo passaggio fulmineo come una meteora); una distrazione che risucchi quella chiarità nel buio («… puis la nuit!»). Frullare tutto, servire freddo e sorseggiare per un tempo lungo, addirittura eterno («Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?»).

La protagonista del sonetto baudelairiano è una figura longilinea e statuaria che attraversa la strada, solo apparentemente inconsapevole della seduzione che esercita, ma la sua singolarità è la vedovanza. È il suo luttuoso outfit, con gli ondosi falbalà della gramaglia simili alle increspature di un mare in cui annegare, a farla assomigliare a una dark lady da film noir: quel “nero” che Baudelaire definisce, nel Salon del 1846, «tegumento dell’eroe moderno». Lì lo scrittore parla di uomini, in verità, dei loro abiti, per cui quel colore, associato alla donna, proietta un’allure virile che la rende, per ciò stesso, minacciosa, inquietante. In quanto vedove sono libere, indipendenti e non sottomesse a mariti. Quanto basta a turbare una mascolinità che sarà via via più sempre terremotata. Dopo Baudelaire, in letteratura, sarà tutto un andirivieni di passanti, una di loro traghetterà anche in musica, in una canzone di Georges Brassens, prima che il nostro Fabrizio De André dedichi la sua Le passanti «ad ogni donna pensata come amore / in un attimo di libertà / a quella conosciuta appena / non c’era tempo e valeva la pena / di perderci un secolo in più». Del resto, mi convince ancora l’idea che non esista amore più duraturo di quello – vagheggiato e non corrisposto – per un fantasma di donna.

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Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del punto e virgola. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: ministri e deputati; scrittori e professori; allenatori e calciatori; studenti e influencer. Il più negletto tra i segni di punteggiatura è tollerato, al più, come incongrua pecetta infralinguistica, disancorata da un suo uso effettivamente funzionale, un po’ come le fugaci apparizioni di Hitchcock nei suoi film o i messaggi subliminali e satanici che si potevano udire nei vinili delle rock band, suonati al contrario. Insomma, per dirla con un neologismo pescato dal Pasticciaccio di Gadda, quando proprio va bene il suo uso è cinobalanico («l’orgasmo cinobalanico dell’antecipato giudizio»), dal greco κύων, κυνός (kyon, kynòs «cane») e βάλανος (balanos=glande). Se non fosse che serve, nei messaggini, a fare l’emoji che fa l’occhiolino – 😉 – non se lo filerebbe nessuno e lo si potrebbe anche togliere dalle tastiere.

Sarà per quella sua posa leziosa che si fa beffe dell’austera assertività del punto o della minacciosa perentorietà dei due punti, fatto è che lo amo; è come lo sbuffo di profumo da vaporizzare sul collo prima di uscire per andare a un appuntamento galante. Non c’entra niente con la sostanza, ma dice tutto delle sfumature; serve, infatti, a mettere in relazione due segmenti di frasi tra i quali c’è nesso logico, ma non sintattico. Quindi, si direbbe che è come un lubrificante del pensiero, serve a vivacizzare il periodare pallido e assorto. Lode, perciò, al grande editore Aldo Manuzio che lo inventò nella seconda metà del Quattrocento. Manzoni, insuperato lavandaio in Arno, ne fa usi notevoli, come quando mette di fronte un untuoso Don Rodrigo che si autocandida “protettore” di Lucia a un titanico fra Cristoforo che gli taglia le gambe proprio con un punto e virgola, adoperato a mo’ di sprangata sui denti del signorotto: «… la vostra protezione! Bene sta che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colma la misura; e non vi temo più». Il punto sarebbe stato troppo e la virgola troppo poco; ecco allora che quell’esatta e studiata pausa amplifica perfettamente il tono fermo della perentoria frase finale: «non vi temo più». E Don Rodrigo se la prende così in saccoccia.

Una nota teoria evoluzionistica affermava che «la funzione crea l’organo», ma perché questo si sviluppi occorre l’uso. Che fine ha fatto, oggi, il punto e virgola? Qual è il suo stato di salute? Se non è morto, poco ci manca, compagno di sventura del congiuntivo, vuoi per sporadico utilizzo vuoi per il suo definirsi più per “sottrazione” – non è un punto e nemmeno una virgola – pur potendosi riconoscergli, rispetto ai suoi parenti prossimi, anche delle non trascurabili peculiarità ritmico-prosodiche. Assuefatti all’idea della semplificazione argomentativa, aborriamo tutto ciò che è dubbio; tra l’evidenza indicativa e la sfumatura possibilistica ci facciamo attrarre dalla prima e così il congiuntivo e il punto virgola finiscono per stare alla lingua come l’ombretto alla matita per gli occhi. Uno sfuma, l’altro marca. Eppure l’italica genìa che ha ereditato il gusto per la guicciardiniana discrezione, così poco avvezza alle decisioni chiare e propensa piuttosto alle causidiche distinzioni, dovrebbe adorare il punto e virgola. E invece lo snobba. Come una cosa inutile

Ricordo una mia compagna di classe che, al liceo, aveva evidenti problemi con la punteggiatura. Non ne azzeccava uno che fosse uno. I suoi temi erano flussi di coscienza che Virginia Woolf si sarebbe scansata; ricordo che, una volta, consegnò alla professoressa d’italiano un compito in cui non c’era nemmeno una virgola per sbaglio. Roba che nemmeno il monologo di Molly Bloom nel più sopravvalutato dei romanzi moderni – l’Ulysses di Joyce, ça va sans dire. Ebbe, però, l’accortezza di aggiungervi un riquadro, alla fine del foglio, un recinto a matita in cui erano accatastati, alla rinfusa, tutti i segni di punteggiatura, con una didascalia per l’insegnante: “li metta lei dove servono”. Geniale. Perché coglieva, così, una verità ancor oggi drammatica, e cioè che non si dedica abbastanza attenzione, a scuola, all’uso corretto dei segni d’interpunzione. Se solo si cogliesse come il punto e virgola possa diventare il piede di porco che scardina un’arrugginita serratura argomentativa, non riusciremmo più a farne a meno. Quindi, dissento affatto dallo scrittore americano Kurt Vonnegut che, in una sua lezione di scrittura creativa, ne scoraggiava l’uso definendolo «un ermafrodita travestito che non rappresenta assolutamente niente, se non che si è stati al college». Sto più dalla parte di Pietro Citati che reputava il suo assassinio «molto più grave dell’assassinio di padri, madri, figli, figlie, mariti, mogli, nonne, cognati di cui parlano con infinita voluttà i nostri giornali». Perché è la ricchezza stessa del pensiero complesso ed elegante, un po’ come l’accordo diminuito in uno standard del jazz, come la tinta pastello in una tavolozza di colori primari, come la nebbiolina sul mare che sfuma la vista dell’orizzonte. Qualcosa da preservare con ossuta determinazione, da custodire con materna sollecitudine. Dio salvi il punto e virgola.

Manzoni, Kant e lo “sticazzismo” di Renzo

Il parlare che, in quel paese, s’era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse; il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno piú bello dell’altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: – eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualcosa di meglio. Cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n’è per tutto –. Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto.
Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo, queste cose; cosí non c’era gran male fin lí. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e piú a lungo tra sé. «E cosa v’importa a voi altri? E chi v’ha detto d’aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v’ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V’ho detto mai che v’avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle».

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. 38

Lucia Mondella conquista il proscenio – in fisica evidenza – nel secondo capitolo dei Promessi sposi. A onor del vero, Don Lisander ammette una sua bellezza esteriore alquanto «modesta» che ben si accorda all’intima «modestia un po’ guerriera delle contadine», con un sorriso che ha la malizia di un tubetto del dentifricio. Ma è pur sempre bellezza, ornata com’è di «lunghi e neri sopraccigli», di «neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura» che si ravvolgono «dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce», e persino «esaltata dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso», da «quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare». Legittimo, quindi, per il lettore figurarsela quantomeno graziosa, come nelle illustrazioni di Francesco Gonin o nelle sue tante successive restituzioni cinematografiche. Non fosse altro che, altrimenti, non si spiegherebbe la fregola di quel Don Giovanni mancato di Don Rodrigo che alla propria impotenza seduttiva non può che opporre la classica prepotenza machista, innescando così il tourbillon di peripezie a cui devono andare incontro due sventurati giovani per riuscire a coronare il loro dimesso sogno d’amore. Ma Manzoni è così, gioca continuamente con le aspettative del lettore, puntualmente frustrandole, lanciando la pietra e nascondendo la mano. Lo fa pure con la storia della monaca di Monza che, in potenza, farebbe scatenare le più torbide fantasie erotiche, salvo poi a usare la penna come un estintore anziché come un cerino. Lo stesso accade con Lucia la cui virginale bellezza, dissimulata per tutto il romanzo, viene addirittura smentita nelle pagine conclusive dell’opera, quando la ragazza torna in scena addirittura «brutta affatto» – vox populi – suscitando la piccata reazione di Renzo che, alle maldicenze degli abitanti del piccolo paese del bergamasco dove si sono rifugiati, oppone non solo le sacrosante morali del chissenefrega e dello sticazzismo («E cosa v’importa a voi altri? […] Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle»), la fiera rivendicazione di un classico principio kantiano, e cioè che la bellezza non è qualità oggettiva, ma caratteristica attribuita dagli uomini in modo soggettivo. E che, in sostanza, quando si ama, trasfiguriamo l’oggetto d’amore nella pura essenza del nostro desiderio, dimostrando al contempo che il non detto e il non visto sono infinitamente più attrattivi di ogni sfacciata esibizione di sé.

I paradossi dell’amore

Quei giorni perduti a rincorrere il vento
a chiederci un bacio e volerne altri cento
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai

e tu che con gli occhi di un altro colore
mi dici le stesse parole d’amore
fra un mese fra un anno scordate le avrai

amore che vieni da me fuggirai
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai

venuto dal sole o da spiagge gelate
perduto in novembre o col vento d’estate
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai.

Fabrizio De Andrè, Amore che vieni amore che vai

All’amore non si addice la precisione o l’esattezza, non è carne che si possa incidere con un bisturi. Se quando ti innamori, non ti senti franare il terreno sotto i piedi e non barcolli come un ubriaco, sopraffatto dalla vertigine, probabilmente non sei ancora pronto ad amare. Questa condizione d’incertezza e di confusione è uno stereotipo solitamente declinato al femminile, ma quale essere umano può dirsene immune? De André, comunque, è uno di quei rari autori che riesce a confonderti tutte le idee; molte sue canzoni attraversano il tema, ma alla fine ci lasciano più dubbi che rassicurazioni. Del resto, Boccaccio l’aveva già detto nel proemio del Decameron, quando si autodenunciava come uno che, per poco, non era diventato pazzo a causa di una donna, salvo poi a scoprire che persino da questo genere di follie si può guarire, che anche nel più precario degli smottamenti esistenziali si può riuscire a non perdere l’equilibrio. E non servono terapie d’urto, ma il semplice conforto delle parole, la psicoterapia di una saviezza appena appena elementare. Me lo ripeteva, anni fa, il mio falegname – terza media e quarant’anni passati in bottega a piallare e smussare gli spigoli delle più legnose complicazioni: «ntà vita ci voli sempri ‘n pocu ‘i buon sensu». Quando si riesce ad applicarlo, le cose ti appaiono miracolosamente chiare e puoi persino scoprire che l’amore, come tutte le cose della vita, può nascere e morire per naturale causalità. E quando finisce, si placherà da sé il tormento del «non posso vivere senza di lui/lei» per lasciare il posto a domande quali: «ma come ho fatto a innamorarmi di quello/a?», «che c’azzeccava con me?». In amore vige la legge, già enunciata da Boccaccio, della mutevolezza incessante e dell’eterna ciclicità; De André la ribadisce, quasi a voler dire che quella precarietà che asseconda le relazioni è frutto non già dell’Amore, ma del Desiderio e che, paradossalmente, non facciamo che amare sempre, in loop, i nostri stessi desideri. Cosa può significare il suo «io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai», se non che l’innamoramento è la condizione di sanità mentale più vicina alla follia, essendo questa stessa paradosso?

Auguri Faber, amico fragile

Oggi sarebbe il compleanno di Fabrizio De André. Avrebbe 83 anni. Battisti, invece, era tre anni più giovaneSe ne andarono quasi insieme, a quattro mesi di distanza l’uno dall’altro, allo stesso modo, entrambi per un male incurabile. Battisti e De Andrè, pressoché coetanei, sono ancora i due più amati e popolari artisti della musica d’autore italiana. Ma quanta simbolica differenza nella loro ultima uscita di scena, quella del congedo che riassume e ricapitola un’esistenza: il funerale di Battisti nascosto agli sguardi dei più, dietro cancelli serrati e vetri d’auto oscurati che davano alle esequie l’aspetto di un mistery inquietante, disturbante proprio per quel fiscale rispetto di un’assoluta volontà di privacy che nulla concedeva all’amore incondizionato di un pubblico che non aveva e non ha mai smesso di amarlo. battisti-bannerI fiori lasciati sotto la pioggia o davanti all’ospedale davano il senso dell’abbandono che avranno provato le migliaia di persone comuni che si radunavano spontaneamente per ringraziare e ricambiare in quel modo semplice la gioia provata attraverso le canzoni che avevano cantato e con cui erano diventati adulti. Il funerale di De Andrè, invece, fu emozionante al pari di tante sue memorabili ballate, in mezzo a un mare di gente, la stessa che lui aveva cantato e che non veniva esclusa dai familiari i cui volti apparivano perciò quasi trasfigurati da un abbraccio immenso di folla con cui condividere la grandezza di un dolore che riguardava indistintamente tutti. Perché Faber era di tutti, come tutti i grandi artisti. Persino un poeta come Mario Luzi confessò allora il proprio disagio e si scusò per essere «invecchiato nella quasi totale ignoranza del suo talento». Quel diverso modo di congedarsi mi dà il senso della distanza fra Battisti e De Andrè, mi fa amare il secondo più del primo cui riservo tuttavia l’ammirazione dovuta ad un indiscutibile talento, limitandosi ad essere, quest’ammirazione, un sentimento che me lo fa sentire meno mio, meno autentico, come se avesse detto, nelle sue bellissime canzoni, di provare cose che forse non provava affatto. De Andrè invece era come le sue ballate e per questo più interessante e vero e imperituro. I suoi brani, a differenza di quelli di Battisti, non sono fatti per essere cantati, ma per essere pensati e Faber li scrisse pensando a quella gente con cui si riconosceva e che lo riconosceva. Ecco: nella riconoscenza del pubblico, nel riconoscersi reciproco tra artista e pubblico c’è spazio persino per una straniante felicità, quella della gratitudine che si deve ad un’artista capace di raccontare, senza ruffianerie o ipocriti moralismi, la vita di ognuno, le odissee tragiche o ridicole di piccoli eroi, né migliori né peggiori di ognuno di noi. Per il resto, di lui si è detto tutto, tanto che non saprei dire niente di più o di meglio.

C’è una canzone che ho ascoltato centinaia di volte con un groppo in gola, non solo per ciò che dice, ma anche perché mi ricorda una delle ultime esibizioni in pubblico, pochi mesi prima di morire: Khorakhané. Sul palco, con Faber, c’erano i figli Cristiano e Luvi. Alla fine del pezzo, la telecamera lo inquadra per poco più di un secondo, quanto basta per scorgere un padre commosso per l’applauso tributato dal pubblico alla figlia. In quel suo «sollievo di lacrime a invadere gli occhi e dagli occhi cadere» io scorgo l’artista che amo e l’uomo che ammiro. E se mai qualcuno si accingesse a scrivere quella storia della lacrime che auspicava un genio della critica come Roland Barthes, mi piacerebbe immaginare di poterci ritrovare anche questa piccola e umanissima pagina dell’«amico fragile».

Il primo (e l’ultimo) bacio

Ieri ti ho baciato sulle labbra.
Ti ho baciato sulle labbra. Intense,
rosse. Un bacio così corto
durato più di un lampo,
di un miracolo, più ancora.
Il tempo
dopo averti baciato
non valeva più a nulla
ormai, a nulla
era valso prima.
Nel bacio il suo inizio e la sua fine.
Oggi sto baciando un bacio;
sono solo con le mie labbra.
Le poso
non sulla bocca, no, non più
– dov’è fuggita? –
Le poso
sul bacio che ieri ti ho dato,
sulle bocche unite
dal bacio che hanno baciato.
E dura questo bacio
più del silenzio, della luce.
Perché io non bacio ora
né una carne né una bocca,
che scappa, che mi sfugge.
No.
Ti sto baciando più lontano.

Pedro Salinas, La voce a te dovuta, XXXVI

Esiste un’unità di misura del bacio? Qual è la sua giusta durata? Come se ne calcola l’intensità? Si potrebbe dire che esso duri per tutto il tempo nel quale se ne avrà memoria («E dura questo bacio | più del silenzio, della luce»). Così è almeno per il primo che, di solito, non si dimentica mai perché è come quell’istante – canta Fossati, «in cui scocca l’unica freccia | Che arriva alla volta celeste | E trafigge le stelle». La più travolgente delle passioni potrà finire, risucchiata nel gorgo del disincanto, avvelenata dalle tossine della recriminazione e del rancore, ma anche il finale più amaro non basterà a far svanire, nemmeno a distanza di anni, il ricordo di quell’istante destinato a diffondere per sempre la sua essenza, come ineffabile petricore. E questo perché esso si sottrae a qualsiasi altro momento di quella storia, in quanto ‘punto’ in cui due destini possono incontrarsi e riconoscersi, e sopravvivere a loro stessi anche nell’assenza. Non contano la scenografia e l’ora del giorno in cui si colloca – siano esse il ponte di una nave che volge la sua prua verso il tramonto o un capanno degli attrezzi dalla cui finestrella filtra la luce dell’alba, la parigina esplanade del Trocadéro al meriggio o il posteggio di un centro commerciale a mezzogiorno – poiché la funzione del primo bacio è quella di operare una ‘trasfigurazione’. Memorabile, in questo senso, è il modo in cui il foscoliano Jacopo Ortis descrive il suo primo e unico bacio con l’amatissima Teresa: «Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia». Di questo genere è il bacio di cui scrive il poeta spagnolo Pedro Salinas; il suo coup de foudre con l’ispanista Katherine Whitmore, scoccato all’università di Madrid, ha qualche analogia con quello tra Clizia ed Eugenio Montale che, negli stessi anni, scriveva i Mottetti, altro bellissimo canzoniere d’amore orbitante attorno al motivo dell’assenza. È di una storia tramata soprattutto di parole scritte, infatti, orbitante attorno al vuoto di trepidanti attese, tenuta in vita a lungo dalla gioia di fugaci incontri, che si parla. Ogni poesia della luminosa raccolta di Salinas è un teorema amoroso in sedicesimo e dei baci La voce a te dovuta traccia una fenomenologia in cui sono quasi riassunte le fasi stesse dell’amore: dall’allegria del primo, con cui è l’esistenza stessa a rinominarsi – incipit vita nova, direbbe Dante – all’astratta attesa che genera l’affanno e il desiderio di trovare nei baci successivi il perfetto punto di congiunzione tra corporeità e sentimento, fino all’assenza, in cui la fine dei baci si dissolve nella loro pura memoria («Oggi sto baciando un bacio»), per poi svanire in un bacio irripetibile, e ormai impossibile («Ti sto baciando più lontano»), ma in quanto tale ancor più vivo perché bruciante come inappagabile desiderio.

L’amore si cura con l’amare

A l’aire claro ò vista ploggia dare,
ed a lo scuro rendere clarore;
e foco arzente ghiaccia diventare,
e freda neve rendere calore;

e dolze cose molto amareare,
e de l’amare rendere dolzore;
e dui guerreri in fina pace stare,
e ’ntra dui amici nascereci errore.

Ed ho vista d’Amor cosa più forte:
ch’era feruto, e sanòmi ferendo;
lo foco donde ardea stutò con foco;

la vita che mi dè fue la mia morte,
lo foco che mi stinse ora ne ’ncendo:
d’amor mi trasse e misemi in su’ loco.

Giacomo da Lentini, A l’aire claro ò vista ploggia dare

Dal cielo sereno ho visto cadere pioggia,
ed emettere bagliore di lampi;
e la fòlgore trasformarsi in grandine
e dai cristalli nivei prodursi calore;

e dolci cose diventare amare,
e dell’amare rendere dolcezza;
e due nemici restare in una pace perfetta,
e tra due amici generarsi discordia.

E dell’Amore ho visto una cosa grandiosa:
che io ero ferito e, ferendomi, mi guarì;
spense col fuoco il fuoco di cui bruciavo;

la vita che mi diede fu la mia rovina,
ora brucio dello stesso fuoco che già mi uccise:
mi ha tolto dalle pene d’amore per mettermi di nuovo in esso.

La figura dell’Amore si direbbe essere l’ossimoro: mentre ci dà la vita ci consuma, ci innalza per poi abbatterci. È cura e malattia, vita che ci strappa alla morte e che ad essa ci riconsegna. Insomma, l’Amore si cura con l’amare, come suggerisce la leggenda – saccheggiata dalla poesia provenzale – della lancia di Peleo che guariva, con un secondo colpo, le ferite inferte dal primo. Ne è convinto anche il notaro Giacomo da Lentini che paragona l’esperienza a eccezionali fenomeni fisici ed atmosferici, in cui gli effetti sembrano contraddire le cause. Certo, può capitare tal fiate di vedere piovere col sole e riempirsi di luce la notte, ma come può un fulmine trasformarsi in ghiaccio o darsi calore dalla neve? Non era certo stolido il poeta; quel che a noi sembra incongruo era comune credenza nel Medioevo: il processo di congelamento fa sì che si produca calore dalla neve per mezzo della riflessione della luce solare. Quest’attenzione ai principi scientifici che governano i sentimenti era, altresì, usata prassi (vi ricorreranno ampiamente, tra l’altro, Guido Cavalcanti e Dante) e, almeno fino a Galilei, i poeti faranno largo uso di metafore scientifiche per spiegare qualcosa di ontologicamente non riducibile a teoria, qual è l’Amore. Lo stesso notar Giacomo, in un altro sonetto (Sì come il sol manda che la sua spera), paragona la freccia d’amore che passa attraverso gli occhi dell’amante alla luce che attraversa il vetro senza romperlo fisicamente. Ma il poeta di Lentini alzerà sempre più l’asticella, intensificando la tensione tra desideri sacri e profani, in uno dei suoi sonetti più famosi (Io m’aggio posto in core a Dio servire) in cui dirà qualcosa del tipo: io, Giacomo, voglio sì servire Dio per guadagnarmi un posto in Paradiso, ma sotto sotto non sono poi tanto sicuro di volerci andare, se questo vorrà dire allontanarmi dalla persona che amo.

Il silenzio mi parla

È stato detto che il silenzio è una forza; in un senso affatto diverso lo è, e terribile, nelle mani di coloro che amiamo. Il silenzio accresce l’ansia di chi aspetta. Niente ci attira verso una persona come ciò che ci separa da lei, e quale barriera è più insormontabile del silenzio? È stato detto, anche, che il silenzio è un supplizio, e capace di spingere alla follia chi, in una prigione, vi sia sottomesso. Ma che supplizio spaventoso – ben più che il doverlo serbare – è il doverlo subire da parte di chi si ama! «Cosa starà facendo, si chiedeva Robert, per tacere così? Non c’è dubbio, mi sta tradendo con un altro!» E si chiedeva anche: «Che cosa le ho fatto perché ora taccia così? Forse mi odia, e per sempre». E accusava se stesso. Il silenzio lo faceva impazzire, in effetti, di gelosia e di rimorso. Del resto, più crudele di quello delle prigioni, un silenzio siffatto è esso stesso una prigione. Una paratia immateriale, certo, ma impenetrabile, questo strato d’atmosfera vuota che i raggi visivi dell’abbandonato non possono attraversare. C’è forse una luce più terribile del silenzio, che ci fa vedere non un’assente, ma mille, ciascuna nell’atto di consumare un diverso tradimento? Quel silenzio, a volte, in un brusco soprassalto, Robert credeva che fosse lì lì per interrompersi, che la lettera attesa stesse per arrivare. La vedeva, eccola, spiava ogni rumore, e, già placato, mormorava: «La lettera! la lettera!». Dopo aver intravisto, così, un’immaginaria oasi di tenerezza, si ritrovava a trascinarsi nel deserto reale del silenzio senza fine.

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. I Guermantes

Nella Recherche di Proust, Robert de Saint-Loup ha interrotto bruscamente la relazione con l’amante; la fine di una storia può essere un balsamo che allevia i patimenti e le angosce che solitamente accompagnano i naufragi sentimentali. Quella stazione esistenziale in cui il personaggio sperimenta finalmente la tregua dall’ansia («è una cosa così dolce che la rottura, una volta che gli si rivelò come definitiva, assunse per lui un po’ dello stesso fascino che avrebbe avuto una riconciliazione») si rivela, però, solo una sosta provvisoria, il preludio a un’esperienza più terribile di qualsiasi turbolenta crisi di coppia: quella del “silenzio d’amore”. Vale a dire quella zona grigia, quell’occhio opaco in cui l’assenza dell’amata genera ogni genere di dubbio, mette in moto la giostra delle supposizioni («una complicazione di carattere secondario, i cui flussi era lui stesso a produrre incessantemente»), dà la stura a una ridda di ipotesi tra le più svariate: vorrà riavvicinarsi? starà aspettando un segno? e se, nell’attesa, volesse vendicarsi concedendosi ad altri? un messaggio potrebbe bastare a scongiurare questa fatalità? quanto tempo passerà prima che qualcun altro la faccia propria, ostinandosi a indugiare nell’attesa? Di questo genere sono le domande, inevitabilmente senza risposta, di Robert che, in silenziosa attesa, finisce «col rendere folle il suo dolore». Anche in absentia si può perpetuare un dialogo con l’immagine che si vuole preservare, si mantiene una personale forma di prossimità ideale in cui la preoccupazione principale è di mantenere integra la forma che si è data all’amore, fin quando questo ha resistito. Ma la distanza, anche fisica, determina un’angoscia che è il terreno di coltura dell’immaginazione, tirannica Gorgone in agguato, pronta a tessere l’intricato e torvo arabesco della gelosia.

Lo smisurato pensiero d’amore

Che questa sia passione dentro nata, manifestamente il ti mostro, perciò che, se sì sottilmente volemo guardare lo vero, quella passione non nasce d’alcuna cosa fatta, ma da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta, quella passione procede. L’uomo, quando vede alcuna acconcia ad amare e al suo albitrio formata, di presente comincia a desiderarla nel cuore, e poi, quante volte pensa di quella, tanto maggiormente nel suo amore arde, infino che diviene a pensare le fazioni di quella e distinguere le membra e immaginare gli suoi atti e disegnare per pensieri le segrete cose de’ membri segreti e disiderare d’usare lo uficio di ciascuno membro di quella. Dappoi che per pensieri è divenuto a questa piena congiunzione delle cose segrete, lo amore non sa tenere gli suoi freni, ma incontanente procede all’atto e l’aiutorio cerca di messo mezzano e come e ’l luogo e ’l tempo possa trovare acconcio a parlare, e più, che la brieve ora gli pare più che uno anno, perché all’amante niente gli par fatto sì tosto come vorrebbe: e molte cose l’incontrano in questo modo. Adunque, è quella passione dentro nata per pensamento di cosa veduta. A commuovere ad amore non basta ciascuna pensagione, ma conviene che sanza modo sia, imperciò che pensagione con modo non suole alla mente ritornare, sicché amore non può nascere di quella. 

Andrea Cappellano, De Amore, cap. I

Ti dimostro chiaramente che la passione è naturale poiché, a ben guardare la verità, non nasce da nessuna azione; ma procede dal solo pensiero che l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, un uomo vede una donna che corrisponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore, fino a che non giunge a più pieno pensiero. E comincia a pensare alle fattezze della donna, a riconoscere le sue membra, a immaginare i propri gesti, e a frugare i segreti di quel corpo che desidera possedere tutto per il proprio piacere. Ma poi che giunge al pensiero pieno, l’amore non sa tenere il freno, e passa subito ai fatti; subito s’affanna a cercare complici e messaggeri. E comincia a pensare come incontrare la sua grazia, a chiedere luogo e tempo giusto per parlare, e un’ora gli pare un anno, perché non c’è nulla che possa subito saziare l’animo desideroso; e si sa che spesso succede così. Dunque la passione naturale procede da visione e da pensiero. Al sorgere dell’amore non basta il semplice pensiero, ma occorre che esso sia smisurato, perché il pensiero misurato non torna insistentemente alla mente, e da lì dunque non può sbocciare amore.

Come si amava nel XII secolo? Come oggi e come in tutti i secoli della storia dell’uomo. Ma è in quel torno di tempo che viene concepito un trattato fondamentale per capire che la disciplina dell’amore sopravvive immutata nella storia dell’uomo e, soprattutto, genera poesia. Lo si deve a tale Andrea “Cappellano”, secondo alcuni ciambellano del re di Francia Filippo II Augusto, secondo i più attivo alla corte di Maria di Champagne, figlia di quell’Eleonora d’Aquitania alla cui famiglia si deve – scusa, se è poco – la nascita e il diffondersi in tutta Europa della lirica trobadorica. Insomma, non si capirebbe un bel po’ della poesia della scuola poetica siciliana, di Guido Cavalcanti, come pure di Paolo e Francesca nel V dell’Inferno dantesco, senza aver letto il De Amore. Non si capirebbe, cioè, quanto assoluta e totalizzante sia la passione d’amore e come sovente sia destinata a restare per lo più insoddisfatta, poiché il desiderio eccede sempre la possibilità di essere pienamente soddisfatto. Perché l’amore nasce da un’ossessione del pensiero («da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta»): in principio è la “vista” dell’oggetto del desiderio a innescare il congegno esplosivo, ma perché questo diventi passione è necessaria quella che gli uomini del medioevo chiamavano vis cogitativa, cioè l’immaginazione interiore, quella che ci fa ripassare a memoria, ossessivamente, le fattezze, i gesti, le azioni quotidiane della persona amata, la sua presenza in situazione. Da qui, a cascata, tutte le sensazioni cui il discorso amoroso si associa, dall’attesa al timore, dalla speranza alla disillusione. Questo precipitato di fenomenologia sentimentale ha un’unica controindicazione, sinceramente antidemocratica: il suo autore non la riteneva proprio prerogativa di tutti tutti. Non dei ricchi e potenti né dei “rustici” (contadini e operai); vuoi perché i primi sono troppo presi da altre occupazioni per sopportare la lunga devozione che si deve a questo processo di affinamento dell’animo, mentre i secondi possono tutt’al più amare come «cavallo o mulo» (cioè «naturalmente») perché, se smettessero di lavorare, ne risentirebbe l’intera struttura economica. A fare il lavoro sporco dell’amore non restano, perciò, che gli sfaccendati professionisti dell’intelletto (poeti e professori, filosofi e artisti). Cappellano dixit.