La semplessità della libellula

Tu mi ami.
Con precisione
di orologiaio
e di arrotino
che intento affila
la lama e si fa
lama.
Tu mi ami.
Come io fossi il lago
è cosí che mi guardi
contemplando
quando meno mi accorgo
come se avessi un insondabile
fondo
e sorridi
all’enigma dei gorghi
che ti sono amici
perché portano a me.
E tu sei lago
che mi sciogli i muscoli
di atleta stanca
di acrobata invecchiata
tutti i me caduti sparsi
nella corrente,
con quiete
con volontà guaritrice
di acqua che sta.
Amore mio
cucciolo di uomo
guardiano di ferite animali
c’è il mondo
il mondo c’è
e ci intuisce.

Chandra Livia Candiani, Tu mi ami, da La bambina pugile, ovvero la precisione dell’amore

Non si cerchi il profondismo nei versi di Chandra Livia Candiani, essendo la sua cifra lirica riducibile a un concetto che si è andato recentemente affermando con le teorie di un fisiologo della percezione come Alain Berthoz: la semplessità. In un mondo in cui l’uomo è ingabbiato in una complessità che non ha precedenti nella storia, l’amore può soccorrerci e lenire il senso di smarrimento che procura la claustrofobica dimensione del labirinto di sovrastrutture sociali e psicologiche con cui rappresentiamo l’esistente. Amare è semplice come pregare, è disporsi alla richiesta in cambio di una tregua, è hiketèia, la supplica, ovvero la richiesta di protezione a scambio di resa. Amando ci consegniamo agli altri, chiediamo riparo per salvarci. Il rituale della supplica antica – Hiketides è il titolo originale della tragedia Supplici di Eschilo – prescriveva che il supplicante si facesse egli stesso dono, nella propria nudità di essere senziente, offrendo ramoscelli di ulivo o veli bianchi, e raccontandosi al supplicato senza imposture. Ma la supplica è anche un rito di passaggio, segna il confine tra il camuffamento sociale e l’elementare nudità animale, è punto di sutura tra Cultura e Natura. In questa disciplina dell’amore, il supplicante non perde nulla della propria dignità di essere umano per il fatto che implori, anzi, esponendosi senza difese esalta la propria nobiltà di essere vivente che chiede, appunto, di essere semplicemente, cioè di affermarsi ontologicamente, con quella levità che non è leggerezza, ma intuizione e meraviglia, contravveleno alla paura.

Eschilo, e con lui la tragedia greca, ci insegnano che gli atti del chiedere, supplicare, implorare non hanno niente di svilente, nel momento in cui ci mettono in relazione con l’altro e col mondo. L’essere che ama è come il naufrago che chiede aiuto per sopravvivere, il suo desiderio non è tanto quello di scampare alla morte, ma di riconoscere umilmente la presenza nella vita, tutto ciò che lo rende simile agli altri. Egli vorrebbe contemplare il battito d’ali della farfalla da un emisfero piuttosto che la catastrofe che genera nell’altro. Per affrontare la complessità sempre maggiore del mondo gli esseri umani hanno bisogno di soluzioni semplici, ma allo stesso tempo facili, un po’ come fanno i software che ci aiutano a gestire in modo intuitivo operazioni altrimenti macchinose. Un po’ come fa la poesia di Candiani che parla di qualcosa di complicato come l’amore – non complicato in sé, probabilmente, ma reso tale dagli esseri umani – utilizzando un linguaggio e degli scenari facilmente decifrabili.

Amare implica la disposizione dell’arrotino che affilando la lama si fa egli stesso lama, o dell’acqua che si avvita in gorgo da cui lasciarsi trascinare e poi si acquieta in lago che scioglie i muscoli. Ognuno può farsi «guardiano di ferite» altrui e non deve farci paura arrenderci; in un suo libro che s’intitola Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano, Candiani si definisce «una persona abbandonabile», intendendo l’abbandono non come possibilità dolorosa ancorché liberatoria (laddove non esistano le condizioni di un incontro), ma addirittura auspicabile «per incontrarsi davvero, per intendersi senza troppa fatica». Che è sua volta il presupposto per la leggerezza e la grazia di un nuovo incontro, come per le libellule o le farfalle.

Amori, armature e sfilate di moda

«Infelice, la tua forza sarà la tua rovina; non hai pietà del figlio ancora bambino e di me, sventurata, che presto resterò vedova perché gli Achei ti uccideranno tra poco, assalendoti in massa; e se ti perdo, allora è meglio che muoia anch’io; non ci sarà più conforto per me se il tuo destino si compie, solo dolore. […] Tu, Ettore, tu mi sei padre e madre e fratello e sei anche il mio giovane sposo: abbi pietà di me, resta qui sulla torre, non fare del figlio un orfano, di me una vedova; […] Le rispose allora il grande Ettore dall’elmo splendente: «Donna, so anch’io tutto questo; ma terribile è la vergogna che provo davanti ai Troiani, alle Troiane dai lunghi pepli se, come un vile, mi tengo lontano dalla battaglia; me lo impedisce il mio cuore, perché ho imparato ad essere forte, sempre, e a combattere con i Troiani in prima fila, per la gloria di mio padre e per la mia gloria. Io lo so bene nel cuore e nell’animo: verrà il giorno in cui perirà la sacra città di Ilio e con essa Priamo e la gente di Priamo dalla lancia gloriosa. Ma al dolore dei Troiani io non penso, non penso ad Ecuba, al re Priamo, ai miei valorosi fratelli che cadranno nella polvere uccisi dai nemici. Io penso a te, a quando qualcuno degli Achei vestiti di bronzo ti priverà della tua libertà e ti trascinerà via in lacrime; a quando in Argo dovrai tessere stoffe per un’altra donna o porterai acqua dalle fonti di Messeide o di Iperea, contro il tuo volere, costretta dalla dura necessità; e forse qualcuno dirà vedendoti piangere: “È la sposa di Ettore che fra i Troiani domatori di cavalli era il più forte quando si combatteva intorno a Ilio”. Così diranno un giorno: e sarà un nuovo dolore per te, privata di un uomo che avrebbe potuto tenerti lontano il giorno della schiavitù. Ma possa io morire, possa ricoprirmi la terra prima che ti sappia trascinata in schiavitù, prima che debba udire le tue grida».

Così disse Ettore glorioso e verso il figlio tese le braccia. Ma si piegò il bambino contro il petto della bella nutrice, gridando impaurito alla vista del padre, atterrito dal bronzo, dal pennacchio dell’elmo che sulla cima vedeva ondeggiare, tremando. Sorrisero entrambi il padre e la madre; ed Ettore glorioso si tolse dal capo l’elmo splendente deponendolo a terra; poi prese tra le braccia il figlio, lo baciò e a Zeus e agli altri dei rivolse questa preghiera: «Zeus, e voi divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, che si distingua fra i Teucri per forza e valore, che regni sovrano su Ilio. E vedendolo tornare dalla battaglia un giorno qualcuno dirà: “È molto più forte del padre”. Lui tornerà portando le spoglie insanguinate dei nemici uccisi e la madre ne sarà lieta in cuore». 

Così disse e mise il figlio tra le braccia della sua sposa che lo accolse sul petto odoroso, e sorrideva, piangendo; ebbe pietà di lei l’eroe che, accarezzandola, disse: «Infelice anche tu, non affliggerti troppo nel cuore; nessuno potrà gettarmi nell’Ade contro il destino; io ti dico che nessun uomo può sfuggire alla sorte, sia valoroso, sia vile, una volta che è nato. Ma ora va a casa e torna alle tue occupazioni, al fuso e al telaio e alle ancelle ordina di badare al lavoro; alla guerra penseranno gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, ed io più di ogni altro». Così disse Ettore glorioso e sollevò l’elmo dalla chioma equina; si avviò verso casa la sposa, andava voltandosi indietro e piangeva a dirotto. Quando giunse alla bella dimora di Ettore uccisore di uomini, trovò dentro le ancelle e in tutte suscitò desiderio di pianto. Piangevano Ettore, vivo, nella sua casa; poiché non pensavano che sarebbe riuscito a sfuggire alle forti mani dei Danai e a ritornare indietro dalla battaglia. 

Omero, Iliade, dal libro VI, trad. di M. G. Ciani

L’Iliade è il poema di Achille. Lo è nel senso che tutto sembra parlare di lui, la sua presenza, la sua furia, la sua forza oscurano tutto il resto. Ma il vero gigante, di umanissima e moderna sensibilità, è Ettore; lo è nel senso che la sua totale mancanza di quella hybris che è la cifra stessa dell’eroe per antonomasia dei poemi epici, vince alla distanza e fa giustizia dell’arroganza e della scriteriata follia del suo rivale («come un folle è costui e nessuno può eguagliare il suo furore», dice di lui l’indovino Eleno), facendone per questo un unicum nella letteratura antica. In una storia che parla inequivocabilmente e solo di guerra, un libro – il sesto – contiene una delle più belle scene d’amore che la mente di un narratore abbia potuto concepire. I Greci stanno dilagando, per i troiani si mette male e nemmeno gli dei, indifferenti per statuto, sono dalla loro parte.

Ettore è un predestinato a morire; in cuor suo sa che, quando si ritufferà nella mischia da cui si è temporaneamente allontanato, dovrà affrontare Achille, e allora non ne uscirà vivo. Prima del momento della verità, però, torna alla reggia di Priamo, per chiedere alle donne di invocare l’aiuto di Atena, ma anche per incontrare per l’ultima volta la moglie Andromaca. Omero apparecchia l’incontro come farebbe il navigato sceneggiatore di una serie tv, procrastinandolo con una serie di stazioni in cui l’eroe «dall’elmo splendente» rivede tra le cinquanta stanze del palazzo le sorelle, poi la dolcissima madre Ecuba che gli offre del vino da donare a Zeus e con cui ristorarsi; quindi quel guerriero da Milano fashion week del fratello Paride, intento a lucidarsi le armi dimentico che la “fuitina” con Elena, conseguente alla sua foia, era stata la causa causans di tutto quell’inutile marasma. Ettore se lo cazzìa per bene – l’appellativo più delicato con cui l’apostrofa è «miserabile» -, con parole affilate come la punta della sua lancia, prima di rivolgersi ad Elena, consapevole anche lei a quel punto di avere abbracciato una causa persa.

Quindi si rimette alla ricerca della moglie, ma non la trova subito, non perché sia al tempio con le altre donne, ma perché ha fatto la cosa più struggente e “normale” che una donna innamorata farebbe. È corsa piangendo, col figlio Astianatte in braccio, in cima alla torre che domina il campo di battaglia (Omero è anche uno straordinario regista ante litteram, con la sua straordinaria capacità di usare tutta la scala dei campi e dei piani, di montare campi e controcampi meglio di Steven Spielberg). Da lassù scruta il campo di battaglia per vedere se riesce a scorgere il marito tra i guerrieri. Ma non lo trova; torna allora indietro, e lo stesso fa il marito, ed entrambi vagano per le vie della città fino a quando s’incontrano alle sue porte. Ettore guarda il figlio. E sorride in silenzio. Cazzo! Sorride! Con una dolcezza disarmante, lui sporco di battaglia, coperto di sangue, trafelato, lui che ha avuto parole per tutti, fino a poco prima incazzato col fratello per le sorti a cui ha condannato la sua patria, sorride. Come farebbe qualsiasi padre davanti all’espressione innocente di un figlio. Lui patriota e padre (etimologicamente, la radice è la stessa) ha perso ora le parole e allora tocca alle moglie leggergli dentro quello che l’uomo non ha la forza di riconoscere. E cioè che madre e figlio cadranno in mano ai nemici.

Cosa può dire una donna innamorata a un uomo che sta andando a suicidarsi, se non supplicarlo di non combattere, dichiarargli che senza di lui la vita non ha senso, che preferirebbe morire anche lei piuttosto che sapere il marito morto? Ma Ettore è un patriota e non c’è niente che possa spiegare il suo bisogno di morire anche per la sua famiglia. A questo punto cerca di prendere in braccio il figlio, ma questi, spaventato dall’armatura che non gli consente di riconoscere il padre, si spaventa. E che fa il padre? Si toglie l’elmo e lo posa a terra. Si è spogliato così della sua virilità d’ufficio ed è rimasto solo un uomo, un padre, un marito, con tutte le fragilità che gli assegna la sua natura e che non gli impone più il suo ruolo di eroe. I padri dovrebbero fare sempre questo con i figli: non spaventarli con la loro autorità, ma far sentire loro che sono capaci di risvegliare l’infanzia dentro di sé, saper essere come loro quando è necessario, e che, se non ci si spoglia delle armature, se non si smette di essere guerrieri, non si potrà essere buoni genitori. Ma Ettore fa di più: solleva il figlio in braccio, sopra di sé e formula l’augurio – udite udite – che possa essere migliore di lui («Zeus, e voi divinità del cielo, fate che […] un giorno qualcuno dirà: “È molto più forte del padre”». Capotta in una sola mossa tutta l’epica classica che non concepiva nemmeno per sbaglio che i figli potessero essere migliori dei loro avi. Ettore, per amore solo per amore, desidera invece proprio il contrario. Quel bambino che non sa ancora parlare, spaventato di fronte a un padre così impreparato di fronte al suo spavento, è riuscito a candeggiare la secolare ideologia dell’epica greca: far scommettere agli adulti che il futuro sarà migliore del passato e unire in un unico sentimento due esseri tanto diversi come una donna innamorata e un guerriero, ignaro quest’ultimo di essere, per questo, il padre di cui avrebbe bisogno ogni bambino.

Del vivere, del morire e (forse) del guarire

In un saggio intitolato La medicalizzazione della vita, Leonardo Sciascia prende le mosse dalla Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès per riflettere su come e quando sia avvenuto il passaggio da «un’idea della morte all’interdetto sulla morte», e di come la “secolarizzazione” che caratterizza la morte moderna, sottratta al trascendente, al magico, e affidata alla potenza terapeutica della scienza, costituisca l’aspetto principale di quest’interdizione. La medicalizzazione della vita è, per lo scrittore siciliano, una forma d’irreversibile tecnicizzazione della malattia che ingenera, nell’individuo, l’effimera speranza di una guarigione, eludendo così la necessaria presa di coscienza, da parte del malato, della prossimità della fine.

Nel saggio di Ariès è ricordato invece che, nel medioevo, per quanto angosciante fosse l’idea, il trapasso avveniva nel proprio letto, in una dimensione che lo storico definisce «addomesticata», di cerimonialità pubblica, in cui il dolore era attenuato dalla partecipazione di tutta la comunità e da una ritualità priva di manifestazioni esasperate, e di cui l’unico atto ecclesiastico era l’assoluzione in limine mortis. Radunati i familiari attorno al proprio letto, i padri consegnavano ai figli le ultime raccomandazioni, in un estremo abbraccio ideale, poi il moribondo, volgendosi verso il muro, dava le spalle agli astanti, quasi per isolarsi, e si congedava dal mondo senza imbarazzo alcuno, al punto che non solo un qualsiasi sconosciuto di passaggio poteva prendere parte alla veglia, ma gli stessi bambini potevano assistere.

Nella remota Sicilia d’infanzia che Sciascia non cessa mai di ricordare, la speranza nella gradualità del trapasso era tale che una morte «subitanea», e cioè inaspettata, improvvisa, costituiva l’augurio riservato a chi era fatto oggetto d’odio mentre, al contrario, nei confronti dei cari vigeva una sorta di ‘pedagogia’ che assicurava, al momento dell’addio, la dolcezza di un intimo “accompagnamento” familiare, riconoscendo solo marginalmente al medico la possibilità di intervento: «La morte non veniva nascosta a chi ne sarebbe stato preda. L’ammalato veniva informato del suo stato: affinché si preparasse». Nella misura in cui proprio l’ineluttabilità della fine conferiva una dignità specifica alla condizione dell’agonizzante, a lui veniva riconosciuto un ruolo di messaggero col mondo dei morti, al punto che la comunità gli affidava messaggi da recapitare ai cari estinti: saluti per le anime dei conoscenti che si immaginava vagassero nel purgatorio e che gli si raccomandava di andare a cercare; notizie di avvenimenti familiari; rassicurazioni sul fatto che venissero celebrate delle messe in suffragio; richieste di intercessioni per la salvezza delle anime dei familiari viventi.

In una sequenza di Baarìa, di Giuseppe Tornatore, i parenti accorsi al capezzale di un morente gli affidano un lungo elenco di saluti da recare nell’aldilà ai cari defunti. La replica dello sventurato –  «scrivetemi tutto, altrimenti me lo scordo» – sembra provenire da un aneddoto simile che racconta Sciascia per mostrare come l’idea del morire fosse cominciata a divenire «insopportabile» intorno alla fine degli anni Venti del Novecento. Un secolo fa, con l’affermarsi del potere della scienza, l’asettica oggettivazione della morte ha finito col neutralizzare il senso rituale, surrogando la dimensione privata della sofferenza con quella pubblica della conoscenza.

Nasce così il paradosso di una censura sull’ineluttabile, un interdetto che priva le esistenze individuali del loro peso specifico, riducendole a meri corpi. L’eliminazione della morte avviene cioè attraverso la rimozione dell’idea del morire ed esorcizzata, anche linguisticamente, con gli eufemismi che servono a denotarla (“fine della vita”; “venir meno”; “conclusione del cammino terreno”; “uscita dalla scena della Storia”; “decesso”; ovvero, relativamente al morto, quelle che lo denotano come colui che: “non è più”; “si è spento”; “è mancato”; e perciò è detto: “estinto”; “defunto”; “trapassato”; “deceduto”; “scomparso”; “tornato alla casa del Padre”), non già come surrogati pietosi, ma piuttosto come sostituti decorosi di qualsiasi altro riferimento diretto, ritenuto troppo sconveniente a chi ne faccia oggetto di conversazione.

Il momento nel quale avviene il passaggio dalla morte «addomesticata» di Ariès al tabù dell’angoscia e del dolore può essere fissato, secondo Sciascia, nel racconto La morte di Ivan Il’íč e nella messinscena che Tolstoj fa dell’emarginazione del malato dalla scena dei sani. Chi è Ivan Il’íč? Un borghese «ammodo», coscienzioso, di buona famiglia e di buon senso, sussiegoso con i superiori che possono agevolargli la carriera, membro della Corte d’Appello, cristallizzato in un’esteriorità di cui è parte un matrimonio di convenienza, perfettamente allineato a un’esistenza incolore e ordinaria, se non fosse per un banale incidente domestico che lo arpiona e lo condanna all’inesorabilità di un male incurabile.

Nel 1884 cui risale l’inizio della stesura del racconto, si moriva già “modernamente” di cancro, anche se la malattia non era ancora individuata con la precisione delle moderne tecniche diagnostiche. L’elemento nuovo sta nell’ineffabilità della malattia e forse già nell’essere innominabile, nell’essere tenuta nascosta al malato; c’è un elemento di “modernità” nella reticenza che affiora nelle visite mediche, così come nell’ipocrisia dei familiari che gli impongono la zelante osservanza delle terapie e delle prescrizioni cui essi per primi non credono, contribuendo a emarginarlo progressivamente, a neutralizzarlo.

Come scrive Ariès, il malato «viene spogliato della sua responsabilità, della sua capacità a riflettere, a osservare, a decidere, è condannato alla puerilità». L’aspetto interessante di questo transito dalla morte ‘popolare’, di tutti, a quella borghese della medicalizzazione del suo sentimento sta nel fatto che il malato, privato del diritto all’angoscia esistenziale, è condizionato dalla medicina, si abitua a pensare come i medici e non come uno che è arrivato al punto di doversi mettere in ascolto della propria fine. Sciascia avanza l’ipotesi che, per i familiari che recitano col malato la commedia dell’ottimismo, allo scopo di permettere anche a sé stessi, oltre che al moribondo, di tenere altro il morale «i medici e le medicine siano per loro, inconsciamente, strumenti punitivi verso colui che impudicamente li fa spettatori della propria morte, della morte», e fa l’esempio dell’insofferenza della tolstojana Praskov’ja Fedorovna per i lamenti che le infligge il marito.

Del resto, lo stesso auto-segregarsi fisico ed emotivo di Ivan Il’íč nello spazio a parte di una stanzetta in cui vivere la propria malattia, sentendosi «con tre porte chiuse in mezzo» prelude già all’idea della «dislocazione istituzionale» rappresentata dall’ospedale, o segna il passaggio, scrive Sciascia, «da una concezione dell’ospedale in cui il terrore di chi doveva finirvi corrispondeva alla vergogna dei familiari che erano costretti a portarvelo, a una concezione esattamente opposta: dell’andare in ospedale e del portarvi uno della famiglia, come segno di decoro e di mentalità moderna e civile».

La sconvenienza del dolore, il rifiuto collettivo a riconoscere la malattia per esorcizzarne la gravità, l’anestetico dell’ipocrisia generalizzata che camuffa la banale constatazione dell’inefficacia delle cure mediche e dell’accudimento domestico è però proprio ciò che tormenta il personaggio tolstojano che, nel momento in cui realizza l’ineluttabilità e indifferibilità del proprio appuntamento con la morte, è angosciato proprio dal fatto che tutti si affannino a ridurre l’atto terribile e solenne della sua morte al livello delle visite specialistiche e delle cure palliative che gli impongono. È allora che si ribella, si volta verso il muro e si rifiuta di cooperare e comunicare, chiedendo solo di poter morire, di non essere spossessato della morte, della propria morte, affermando così, al contempo, l’autenticità della vita, della propria vita.

Nella riflessione di Sciascia, tre sono gli aspetti che fanno di Ivan Il’íč il personaggio paradigmatico che percorre il crinale tra due epoche e segna l’evoluzione di un diverso atteggiamento dell’uomo occidentale di fronte alla morte e alla medicalizzazione della vita. Il primo è dato dalla «…confessione e comunione del morente [che] non ha più la funzione di metterlo in regola con l’aldilà, ma è ormai una formalità che fa da diversivo, pausa, da distrazione dal dolore; che conduce i pensieri dell’agonizzante, invece che alla morte e a Dio, alla vita, alla possibilità di guarire […] è come se al suo capezzale il prete avesse fatto consegna al medico della vecchia, antica idea della morte; e il medico non potrà che vanificarla, che surrogarla totalmente con l’idea della vita medicalizzata».

Il secondo aspetto è nel saluto che il protagonista del racconto riserva al figlio Vanja che si curva su di lui, baciandolo disperatamente fra i singhiozzi, quasi a trattenerne la vita che fugge; un congedo che procura pacificazione e sollievo al moribondo perché questi raggiunge finalmente la consapevolezza dell’inautenticità e meschinità della vita precedente e con essa il senso nascosto del vivere e del morire nei loro rapporti eterni. Ma si accompagna alla preoccupazione che il figlio «non veda la morte, che cominci a rispettare anch’egli, come tutti, l’interdizione che sta per cadere sulla morte».

E infine la moderna intuizione tolstojana dell’accomunare la figura del medico a quella del giudice attraverso il paragone che Ivan Il’íč fa tra sé stesso, uomo di legge, della cui imperscrutabilità nell’esercizio delle proprie funzioni giudicanti non è tenuto a dar conto a nessuno «poiché quel che conta è l’affermazione della legge comunque interpretata» e l’uomo di scienza, depositario di ogni speranza di sopravvivenza concreta o ipotetica, che si rivolge all’agonizzante con l’impassibilità che gli deriva dal fare «astrazione dalla malattia e dalla salute, poiché quel che conta è l’affermazione della medicina, cioè della «medicalisation de l’idée de la vie». Che è come dire che, con il medico-giudice di Tolstoj, e poco prima di quel 1923 in cui Il dottor Knock di Jules Romains ne decreterà il «trionfo», siamo già all’idea di una medicina che burocratizza la morte, neutralizzando la sofferenza e sottoponendola alla consuetudine dei protocolli. Ed è ancora una volta felicemente spiazzante la dimensione borgesiana con cui Sciascia chiude il saggio, facendo notare come, a causa delle traslitterazioni dal cirillico, il nome del personaggio tolstojano sia trascritto in tre modi diversi nelle varie traduzioni e che forse potrebbe più semplicemente essere trascritto come Ivan Illich, che è anche il nome del sociologo austriaco che più di altri, nel 1975 in cui verrà pubblicato il suo Némésis médicale (Nemesi medica. L’espropriazione della salute), polemizzerà con la medicalizzazione della vita.

Un’ultima chiosa, su Tolstoj e Sciascia, su Ivan Il’íč e lo scrittore di Racalmuto, per dire che l’esorcizzazione della morte, attraverso ipocriti rituali propri di quella modernità omologante che annulla ogni valore trascendente e morale, e che Sciascia non fece mai mostra di amare, era anche il problema individuale di prepararsi alla propria fine. Così Tolstoj fa morire il principe Andréj Bolkonski in Guerra e pace, dopo le atroci sofferenze causategli da una granata che gli ha squarciato l’addome durante la battaglia contro Napoleone a Borodino: «Aveva la sensazione di allontanarsi da ogni cosa terrena e quella di una strana e gioiosa levità di tutto il suo essere. Senza impazienza e senza ansia, attendeva il compimento di ciò che incombeva su di lui. Quella cosa terribile, eterna, ignota e lontana di cui aveva sentito la presenza per tutta la vita, gli era ormai vicinissima e, per quella strana sensazione di levità dell’essere, quasi comprensibile e tangibile…»

Con la stessa pace nell’animo se ne andrà pure Sciascia, le cui ultime parole furono: «è l’alba», quasi a voler intendere di essere sopravvissuto, una notte ancora, alla via crucis di quel mieloma multiplo che gli aveva invaso il sangue, condannandolo alla paura, al dolore, alla paura del dolore. E chissà che non gli siano tornati in mente alcuni dei suoi versi giovanili – «Ora, in quest’alba che hanno le case, / il paese è come un vascello che salpa: / nella sua nitida alberatura / per me s’impiglia una vela di morte» – o la disarmante perplessità psicologica e metafisica dei personaggi in cui amò scheggiarsi: il piccolo giudice di Porte aperte che considerava la vita soltanto «caso e assurdità», capace di valere «soltanto in sé, nelle illusioni in cui la si vive»; il Vice del Cavaliere e la morte che si congeda dalla vita quando«era già eterno e ineffabile il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta»; il professor Franzò di Una storia semplice che nutre il suo cupio dissolvi della considerazione per cui «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza».

Quali che siano stati i suoi pensieri, peraltro insondabili, vorremmo credere che le sue ultime parole affidate alla scrittura, nell’explicit di Una storia semplice, siano definitivamente riassuntive dello stato d’animo che ne ha accompagnato la fine: «Uscì dalla città cantando». Vorrei immaginare che la sua mente sia stata attraversata proprio dal ricordo del tolstojano Ivan Il’íč, e come lui, nell’ora fatale, si sia messo in ascolto, acquietato dal conforto della livida e luttuosa luce dell’alba, consegnato infine a una perfetta pace: «E la morte?Dov’è?». Cercò al sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’è? Ma che morte? Non c’era più paura perché non c’era più morte. Invece della morte, la luce. Dunque è così! – disse d’un tratto ad alta voce. – Che gioia!»

«Vorrei raccontare il morire, la morte come esperienza», aveva scritto Sciascia nella Medicalizzazione della vita, ancora ignaro del proprio destino, e assumendo proprio l’«impareggiabile tentativo» dell’Ivan Il’íč di Tolstoj come paradigma di un concetto destinato a segnare il discrimine tra due opposte idee della malattia e del modo di vivere la morte per malattia, limitandosi ad averne per conto suo solo «un’ultima suprema curiosità intellettuale». E a testimoniare la propria ars moriendi, restano le parole con le quali, descrivendo la fine del Vice, nel Cavaliere e la morte, sembra prefigurare la propria: «Cadde pensando: si cade per precauzione e per convenzione. Credeva di potersi rialzare, ma non ce la fece. Si sollevò su un gomito. La vita se ne andava fluida, leggera; il dolore era scomparso. Al diavolo la morfina, pensò. E tutto era chiaro, ora…»

Il rifiuto dell’angoscia di morte ha il suo fondamento in quello che Heidegger chiama l’«essere per la morte», una forma di «disadattamento», spiega Edgar Morin nell’Uomo e la morte, che consente «l’autenticità»: «La vita autentica è quella che in ogni istante sa di essere promessa alla morte e l’accetta coraggiosamente, onestamente. […] Bisogna smettere di eludere l’idea della morte, smettere di fare come se non si dovesse morire mai, come se la morte non ci fosse». Ma per Heidegger non si tratta di pensare all’orrore del cadavere o alla resurrezione. Si tratta invece, grazie alla scelta necessaria dell’autenticità, di diventare «liberi per la morte».

Una forma di ri-significazione, insomma, in cui l’aldilà non viene esorcizzato, ma diventa l’essenza stessa dell’essere, dell’esserci, rappresenta il rigore della spiritualizzazione contro la mutevolezza impura delle cose. Anche in quest’ottica si può leggere l’epitaffio che Sciascia si scelse per la sua tomba, la frase di Villiers de l’Isle-Adam «Ce ne ricorderemo di questo pianeta»: il ricordo da un lato, dunque, l’hic et nunc dall’altro a illuminare una concezione che fa del mondo una necessità e una fatalità, l’approdo di un percorso che ha salde radici nel passato e investe, nel presente, tanto l’autore che i propri contemporanei.