Il parlare che, in quel paese, s’era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse; il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno piú bello dell’altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: – eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualcosa di meglio. Cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n’è per tutto –. Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto. Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo, queste cose; cosí non c’era gran male fin lí. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e piú a lungo tra sé. «E cosa v’importa a voi altri? E chi v’ha detto d’aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v’ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V’ho detto mai che v’avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle».
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. 38
Lucia Mondella conquista il proscenio – in fisica evidenza – nel secondo capitolo dei Promessi sposi. A onor del vero, Don Lisander ammette una sua bellezza esteriore alquanto «modesta» che ben si accorda all’intima «modestia un po’ guerriera delle contadine», con un sorriso che ha la malizia di un tubetto del dentifricio. Ma è pur sempre bellezza, ornata com’è di «lunghi e neri sopraccigli», di «neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura» che si ravvolgono «dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce», e persino «esaltata dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso», da «quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare». Legittimo, quindi, per il lettore figurarsela quantomeno graziosa, come nelle illustrazioni di Francesco Gonin o nelle sue tante successive restituzioni cinematografiche. Non fosse altro che, altrimenti, non si spiegherebbe la fregola di quel Don Giovanni mancato di Don Rodrigo che alla propria impotenza seduttiva non può che opporre la classica prepotenza machista, innescando così il tourbillon di peripezie a cui devono andare incontro due sventurati giovani per riuscire a coronare il loro dimesso sogno d’amore. Ma Manzoni è così, gioca continuamente con le aspettative del lettore, puntualmente frustrandole, lanciando la pietra e nascondendo la mano. Lo fa pure con la storia della monaca di Monza che, in potenza, farebbe scatenare le più torbide fantasie erotiche, salvo poi a usare la penna come un estintore anziché come un cerino. Lo stesso accade con Lucia la cui virginale bellezza, dissimulata per tutto il romanzo, viene addirittura smentita nelle pagine conclusive dell’opera, quando la ragazza torna in scena addirittura «brutta affatto» – vox populi – suscitando la piccata reazione di Renzo che, alle maldicenze degli abitanti del piccolo paese del bergamasco dove si sono rifugiati, oppone non solo le sacrosante morali del chissenefrega e dello sticazzismo («E cosa v’importa a voi altri? […] Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle»), la fiera rivendicazione di un classico principio kantiano, e cioè che la bellezza non è qualità oggettiva, ma caratteristica attribuita dagli uomini in modo soggettivo. E che, in sostanza, quando si ama, trasfiguriamo l’oggetto d’amore nella pura essenza del nostro desiderio, dimostrando al contempo che il non detto e il non visto sono infinitamente più attrattivi di ogni sfacciata esibizione di sé.
Ieri ti ho baciato sulle labbra. Ti ho baciato sulle labbra. Intense, rosse. Un bacio così corto durato più di un lampo, di un miracolo, più ancora. Il tempo dopo averti baciato non valeva più a nulla ormai, a nulla era valso prima. Nel bacio il suo inizio e la sua fine. Oggi sto baciando un bacio; sono solo con le mie labbra. Le poso non sulla bocca, no, non più – dov’è fuggita? – Le poso sul bacio che ieri ti ho dato, sulle bocche unite dal bacio che hanno baciato. E dura questo bacio più del silenzio, della luce. Perché io non bacio ora né una carne né una bocca, che scappa, che mi sfugge. No. Ti sto baciando più lontano.
Pedro Salinas, La voce a te dovuta, XXXVI
Esiste un’unità di misura del bacio? Qual è la sua giusta durata? Come se ne calcola l’intensità? Si potrebbe dire che esso duri per tutto il tempo nel quale se ne avrà memoria («E dura questo bacio | più del silenzio, della luce»). Così è almeno per il primo che, di solito, non si dimentica mai perché è come quell’istante – canta Fossati, «in cui scocca l’unica freccia | Che arriva alla volta celeste | E trafigge le stelle». La più travolgente delle passioni potrà finire, risucchiata nel gorgo del disincanto, avvelenata dalle tossine della recriminazione e del rancore, ma anche il finale più amaro non basterà a far svanire, nemmeno a distanza di anni, il ricordo di quell’istante destinato a diffondere per sempre la sua essenza, come ineffabile petricore. E questo perché esso si sottrae a qualsiasi altro momento di quella storia, in quanto ‘punto’ in cui due destini possono incontrarsi e riconoscersi, e sopravvivere a loro stessi anche nell’assenza. Non contano la scenografia e l’ora del giorno in cui si colloca – siano esse il ponte di una nave che volge la sua prua verso il tramonto o un capanno degli attrezzi dalla cui finestrella filtra la luce dell’alba, la parigina esplanade del Trocadéro al meriggio o il posteggio di un centro commerciale a mezzogiorno – poiché la funzione del primo bacio è quella di operare una ‘trasfigurazione’. Memorabile, in questo senso, è il modo in cui il foscoliano Jacopo Ortis descrive il suo primo e unico bacio con l’amatissima Teresa: «Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia». Di questo genere è il bacio di cui scrive il poeta spagnolo Pedro Salinas; il suo coup de foudre con l’ispanista Katherine Whitmore, scoccato all’università di Madrid, ha qualche analogia con quello tra Clizia ed Eugenio Montale che, negli stessi anni, scriveva i Mottetti, altro bellissimo canzoniere d’amore orbitante attorno al motivo dell’assenza. È di una storia tramata soprattutto di parole scritte, infatti, orbitante attorno al vuoto di trepidanti attese, tenuta in vita a lungo dalla gioia di fugaci incontri, che si parla. Ogni poesia della luminosa raccolta di Salinas è un teorema amoroso in sedicesimo e dei baci La voce a te dovuta traccia una fenomenologia in cui sono quasi riassunte le fasi stesse dell’amore: dall’allegria del primo, con cui è l’esistenza stessa a rinominarsi – incipit vita nova, direbbe Dante – all’astratta attesa che genera l’affanno e il desiderio di trovare nei baci successivi il perfetto punto di congiunzione tra corporeità e sentimento, fino all’assenza, in cui la fine dei baci si dissolve nella loro pura memoria («Oggi sto baciando un bacio»), per poi svanire in un bacio irripetibile, e ormai impossibile («Ti sto baciando più lontano»), ma in quanto tale ancor più vivo perché bruciante come inappagabile desiderio.
A l’aire claro ò vista ploggia dare, ed a lo scuro rendere clarore; e foco arzente ghiaccia diventare, e freda neve rendere calore;
e dolze cose molto amareare, e de l’amare rendere dolzore; e dui guerreri in fina pace stare, e ’ntra dui amici nascereci errore.
Ed ho vista d’Amor cosa più forte: ch’era feruto, e sanòmi ferendo; lo foco donde ardea stutò con foco;
la vita che mi dè fue la mia morte, lo foco che mi stinse ora ne ’ncendo: d’amor mi trasse e misemi in su’ loco.
Giacomo da Lentini, A l’aire claro ò vista ploggia dare
Dal cielo sereno ho visto cadere pioggia, ed emettere bagliore di lampi; e la fòlgore trasformarsi in grandine e dai cristalli nivei prodursi calore;
e dolci cose diventare amare, e dell’amare rendere dolcezza; e due nemici restare in una pace perfetta, e tra due amici generarsi discordia.
E dell’Amore ho visto una cosa grandiosa: che io ero ferito e, ferendomi, mi guarì; spense col fuoco il fuoco di cui bruciavo;
la vita che mi diede fu la mia rovina, ora brucio dello stesso fuoco che già mi uccise: mi ha tolto dalle pene d’amore per mettermi di nuovo in esso.
La figura dell’Amore si direbbe essere l’ossimoro: mentre ci dà la vita ci consuma, ci innalza per poi abbatterci. È cura e malattia, vita che ci strappa alla morte e che ad essa ci riconsegna. Insomma, l’Amore si cura con l’amare, come suggerisce la leggenda – saccheggiata dalla poesia provenzale – della lancia di Peleo che guariva, con un secondo colpo, le ferite inferte dal primo. Ne è convinto anche il notaro Giacomo da Lentini che paragona l’esperienza a eccezionali fenomeni fisici ed atmosferici, in cui gli effetti sembrano contraddire le cause. Certo, può capitare tal fiate di vedere piovere col sole e riempirsi di luce la notte, ma come può un fulmine trasformarsi in ghiaccio o darsi calore dalla neve? Non era certo stolido il poeta; quel che a noi sembra incongruo era comune credenza nel Medioevo: il processo di congelamento fa sì che si produca calore dalla neve per mezzo della riflessione della luce solare. Quest’attenzione ai principi scientifici che governano i sentimenti era, altresì, usata prassi (vi ricorreranno ampiamente, tra l’altro, Guido Cavalcanti e Dante) e, almeno fino a Galilei, i poeti faranno largo uso di metafore scientifiche per spiegare qualcosa di ontologicamente non riducibile a teoria, qual è l’Amore. Lo stesso notar Giacomo, in un altro sonetto (Sì come il sol manda che la sua spera), paragona la freccia d’amore che passa attraverso gli occhi dell’amante alla luce che attraversa il vetro senza romperlo fisicamente. Ma il poeta di Lentini alzerà sempre più l’asticella, intensificando la tensione tra desideri sacri e profani, in uno dei suoi sonetti più famosi (Io m’aggio posto in core a Dio servire) in cui dirà qualcosa del tipo: io, Giacomo, voglio sì servire Dio per guadagnarmi un posto in Paradiso, ma sotto sotto non sono poi tanto sicuro di volerci andare, se questo vorrà dire allontanarmi dalla persona che amo.
È stato detto che il silenzio è una forza; in un senso affatto diverso lo è, e terribile, nelle mani di coloro che amiamo. Il silenzio accresce l’ansia di chi aspetta. Niente ci attira verso una persona come ciò che ci separa da lei, e quale barriera è più insormontabile del silenzio? È stato detto, anche, che il silenzio è un supplizio, e capace di spingere alla follia chi, in una prigione, vi sia sottomesso. Ma che supplizio spaventoso – ben più che il doverlo serbare – è il doverlo subire da parte di chi si ama! «Cosa starà facendo, si chiedeva Robert, per tacere così? Non c’è dubbio, mi sta tradendo con un altro!» E si chiedeva anche: «Che cosa le ho fatto perché ora taccia così? Forse mi odia, e per sempre». E accusava se stesso. Il silenzio lo faceva impazzire, in effetti, di gelosia e di rimorso. Del resto, più crudele di quello delle prigioni, un silenzio siffatto è esso stesso una prigione. Una paratia immateriale, certo, ma impenetrabile, questo strato d’atmosfera vuota che i raggi visivi dell’abbandonato non possono attraversare. C’è forse una luce più terribile del silenzio, che ci fa vedere non un’assente, ma mille, ciascuna nell’atto di consumare un diverso tradimento? Quel silenzio, a volte, in un brusco soprassalto, Robert credeva che fosse lì lì per interrompersi, che la lettera attesa stesse per arrivare. La vedeva, eccola, spiava ogni rumore, e, già placato, mormorava: «La lettera! la lettera!». Dopo aver intravisto, così, un’immaginaria oasi di tenerezza, si ritrovava a trascinarsi nel deserto reale del silenzio senza fine.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. I Guermantes
Nella Recherche di Proust, Robert de Saint-Loup ha interrotto bruscamente la relazione con l’amante; la fine di una storia può essere un balsamo che allevia i patimenti e le angosce che solitamente accompagnano i naufragi sentimentali. Quella stazione esistenziale in cui il personaggio sperimenta finalmente la tregua dall’ansia («è una cosa così dolce che la rottura, una volta che gli si rivelò come definitiva, assunse per lui un po’ dello stesso fascino che avrebbe avuto una riconciliazione») si rivela, però, solo una sosta provvisoria, il preludio a un’esperienza più terribile di qualsiasi turbolenta crisi di coppia: quella del “silenzio d’amore”. Vale a dire quella zona grigia, quell’occhio opaco in cui l’assenza dell’amata genera ogni genere di dubbio, mette in moto la giostra delle supposizioni («una complicazione di carattere secondario, i cui flussi era lui stesso a produrre incessantemente»), dà la stura a una ridda di ipotesi tra le più svariate: vorrà riavvicinarsi? starà aspettando un segno? e se, nell’attesa, volesse vendicarsi concedendosi ad altri? un messaggio potrebbe bastare a scongiurare questa fatalità? quanto tempo passerà prima che qualcun altro la faccia propria, ostinandosi a indugiare nell’attesa? Di questo genere sono le domande, inevitabilmente senza risposta, di Robert che, in silenziosa attesa, finisce «col rendere folle il suo dolore». Anche in absentia si può perpetuare un dialogo con l’immagine che si vuole preservare, si mantiene una personale forma di prossimità ideale in cui la preoccupazione principale è di mantenere integra la forma che si è data all’amore, fin quando questo ha resistito. Ma la distanza, anche fisica, determina un’angoscia che è il terreno di coltura dell’immaginazione, tirannica Gorgone in agguato, pronta a tessere l’intricato e torvo arabesco della gelosia.
Che questa sia passione dentro nata, manifestamente il ti mostro, perciò che, se sì sottilmente volemo guardare lo vero, quella passione non nasce d’alcuna cosa fatta, ma da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta, quella passione procede. L’uomo, quando vede alcuna acconcia ad amare e al suo albitrio formata, di presente comincia a desiderarla nel cuore, e poi, quante volte pensa di quella, tanto maggiormente nel suo amore arde, infino che diviene a pensare le fazioni di quella e distinguere le membra e immaginare gli suoi atti e disegnare per pensieri le segrete cose de’ membri segreti e disiderare d’usare lo uficio di ciascuno membro di quella. Dappoi che per pensieri è divenuto a questa piena congiunzione delle cose segrete, lo amore non sa tenere gli suoi freni, ma incontanente procede all’atto e l’aiutorio cerca di messo mezzano e come e ’l luogo e ’l tempo possa trovare acconcio a parlare, e più, che la brieve ora gli pare più che uno anno, perché all’amante niente gli par fatto sì tosto come vorrebbe: e molte cose l’incontrano in questo modo. Adunque, è quella passione dentro nata per pensamento di cosa veduta. A commuovere ad amore non basta ciascuna pensagione, ma conviene che sanza modo sia, imperciò che pensagione con modo non suole alla mente ritornare, sicché amore non può nascere di quella.
Andrea Cappellano, De Amore, cap. I
Ti dimostro chiaramente che la passione è naturale poiché, a ben guardare la verità, non nasce da nessuna azione; ma procede dal solo pensiero che l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, un uomo vede una donna che corrisponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore, fino a che non giunge a più pieno pensiero. E comincia a pensare alle fattezze della donna, a riconoscere le sue membra, a immaginare i propri gesti, e a frugare i segreti di quel corpo che desidera possedere tutto per il proprio piacere. Ma poi che giunge al pensiero pieno, l’amore non sa tenere il freno, e passa subito ai fatti; subito s’affanna a cercare complici e messaggeri. E comincia a pensare come incontrare la sua grazia, a chiedere luogo e tempo giusto per parlare, e un’ora gli pare un anno, perché non c’è nulla che possa subito saziare l’animo desideroso; e si sa che spesso succede così. Dunque la passione naturale procede da visione e da pensiero. Al sorgere dell’amore non basta il semplice pensiero, ma occorre che esso sia smisurato, perché il pensiero misurato non torna insistentemente alla mente, e da lì dunque non può sbocciare amore.
Come si amava nel XII secolo? Come oggi e come in tutti i secoli della storia dell’uomo. Ma è in quel torno di tempo che viene concepito un trattato fondamentale per capire che la disciplina dell’amore sopravvive immutata nella storia dell’uomo e, soprattutto, genera poesia. Lo si deve a tale Andrea “Cappellano”, secondo alcuni ciambellano del re di Francia Filippo II Augusto, secondo i più attivo alla corte di Maria di Champagne, figlia di quell’Eleonora d’Aquitania alla cui famiglia si deve – scusa, se è poco – la nascita e il diffondersi in tutta Europa della lirica trobadorica. Insomma, non si capirebbe un bel po’ della poesia della scuola poetica siciliana, di Guido Cavalcanti, come pure di Paolo e Francesca nel V dell’Inferno dantesco, senza aver letto il De Amore. Non si capirebbe, cioè, quanto assoluta e totalizzante sia la passione d’amore e come sovente sia destinata a restare per lo più insoddisfatta, poiché il desiderio eccede sempre la possibilità di essere pienamente soddisfatto. Perché l’amore nasce da un’ossessione del pensiero («da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta»): in principio è la “vista” dell’oggetto del desiderio a innescare il congegno esplosivo, ma perché questo diventi passione è necessaria quella che gli uomini del medioevo chiamavano vis cogitativa, cioè l’immaginazione interiore, quella che ci fa ripassare a memoria, ossessivamente, le fattezze, i gesti, le azioni quotidiane della persona amata, la sua presenza in situazione. Da qui, a cascata, tutte le sensazioni cui il discorso amoroso si associa, dall’attesa al timore, dalla speranza alla disillusione. Questo precipitato di fenomenologia sentimentale ha un’unica controindicazione, sinceramente antidemocratica: il suo autore non la riteneva proprio prerogativa di tutti tutti. Non dei ricchi e potenti né dei “rustici” (contadini e operai); vuoi perché i primi sono troppo presi da altre occupazioni per sopportare la lunga devozione che si deve a questo processo di affinamento dell’animo, mentre i secondi possono tutt’al più amare come «cavallo o mulo» (cioè «naturalmente») perché, se smettessero di lavorare, ne risentirebbe l’intera struttura economica. A fare il lavoro sporco dell’amore non restano, perciò, che gli sfaccendati professionisti dell’intelletto (poeti e professori, filosofi e artisti). Cappellano dixit.
La poesia dell’irlandese William Butler Yeats, la cui cifra è quella dell’oscillazione tra simbolismo e occultismo, misteri iniziatici e criptiche epifanie, è qui insolitamente evidente. L’amore è tutto un inganno o piuttosto gli è intimamente connaturata la finzione, necessario compromesso per conferirgli quella patina d’ideale che è ciò da cui ci sentiamo fatalmente attratti? Recitare una parte non significa necessariamente mentire; in qualsiasi relazione c’è, almeno all’inizio della storia, una componente d’artificiosa ritualità che si esprime in più o meno elaborate strategie di seduzione. Quel grande laboratorio globale di chirurgia plastica dell’Ego che è Facebook, così come quel salone di social make-up che è Instagram, non hanno fatto altro che pantografare questa componente istrionica – fatta di ammiccamenti e schermaglie, di abboccamenti e dissimulazioni, di gioco a nascondere e plateali coup de théâtre – che è il nutrimento stesso dell’amore 2.0. Siamo abbastanza smaliziati, ormai, da non aver nemmeno bisogno di fare la tara ai copioni di corteggiamento – tutti canzoni a manetta e citazioni da Coelho o D’Avenia, esplorazioni fotografiche ed emoji di cuori, soli e fiori – perché, come in teatro o al cinema, accettiamo di buon grado quel patto finzionale che, senza bisogno di antiacidi, ci fa digerire come vera una realtà che sappiamo non essere sempre tale. L’amore implica una certa dose di finzione che non dev’essere per forza menzogna. Si può amare veramente anche indossando una maschera perché ciò che copre il volto non è meno vero di ciò che ci sta sotto purché, alla prova del nove, «ci sia fuoco | In te, in me».
Aventuroso carcere soave, dove né per furor né per dispetto, ma per amor e per pietà distretto la bella e dolce mia nemica m’ave;
gli altri prigioni al volger de la chiave s’attristano, io m’allegro: ché diletto e non martìr, vita e non morte aspetto, né giudice sever né legge grave,
ma benigne accoglienze, ma complessi licenzïosi, ma parole sciolte da ogni fren, ma risi, vezzi e giochi;
ma dolci baci, dolcemente impressi ben mille e mille e mille e mille volte; e, se potran contarsi, anche fien pochi.
Ludovico Ariosto, Rime, XIX (ed. Bianchi)
Fortunata prigione di dolcezze dove mi ha chiuso la bella e dolce mia nemica, non per furia vendicatrice o per dispetto, ma per amore e per pietà;gli altri prigionieri, al chiudere della mandata, s’intristiscono, io mi rallegro: perché aspetto il diletto e non il martirio, la vita e non la morte, e non un giudice severo o una legge grave, ma benevole accoglienze, abbracci voluttuosi, parole liberate da freni inibitori, risa, carezze e giochi; e dolci baci, dolcemente impressi ben mille e mille e mille volte; e se ancora potranno contarsi, sarebbero pochi.
Alessandra Benucci, la magnifica ossessione di Ariosto, va e viene continuamente dai suoi versi, come il carceriere che, con metodica regolarità, porta il pasto al sequestrato. Il “carcere soave” è un luogo fisico – la camera dei convegni erotici semiclandestini, nella casetta ferrarese di via Borgo Vado – in cui l’amata lo ha probabilmente posto al riparo da sguardi indiscreti (la “cameretta” del sonetto che, nelle Rime per il Canzoniere, precede questo non lascia àdito a dubbi), e la stessa situazione immaginata è da “sindrome di Stoccolma”: l’ostaggio aspetta con ansia di sentire il rumore che farà la serratura della cella in cui è rinchiuso, ma anziché farsi prendere dall’ansia, prova sollievo fino a trepidare all’idea di incontrare chi lo ha rinserrato. Chi l’ha detto che soffrire per amore sia un male? Massimo Troisi – di Pensavo fosse amore e invece era un calesse – direbbe: «lasciatemi soffrire tranquillo, voglio solo soffrire bene». La luminosa e calda schiavitù di cui canta Ariosto, come quella che fingeva per i suoi eroi nelle isole incantate dell’Oceano, è piuttosto una condizione elettiva che fa vivere come un privilegio ciò che agli altri appare come un tormento (ma qui il poeta demolisce quella concezione penitenziale dell’amore che da Petrarca smotta fino al Cinquecento). E a riprova della sua tesi, Ariosto convoca, nell’ultima terzina – insopprimibile vezzo classicheggiante tipico dell’epoca – due autori (Catullo a Properzio) che cita in filigrana, con abile e liberatoria crasi intertestuale: i «dolci baci, dolcemente impressi | ben mille e mille e mille e mille volte» traducono i catulliani «basia mille, deinde centum / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum» del quinto carme, mentre il «se potran contarsi, anche fien pochi» del verso finale evoca l’«omnia si dederis oscula, pauca dabis» di un famoso carme properziano (II 15). Il “carcere”, perciò, allude anche a una condizione esistenziale ‘resiliente’ (mi si perdoni l’abusato aggettivo da élite del supermercato) che, anche nel più bruciante dei tormenti, fa volgere lo sguardo piuttosto alle gioie dell’amore: ai baci, agli abbracci, al linguaggio senza freni inibitori (leggasi: dirty talking), alle risa, alle carezze, ai giochi.
Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, CXXXII
Quel che ci affascina dell’Amore è il suo essere ontologicamente contraddittorio. Annosa questione: «di cosa parliamo quando parliamo d’amore»? Prima di Raymond Carver – e da che esiste memoria della poesia stessa – se lo sono chiesti tutti. Al tempo di Petrarca, la faccenda generava sovente delle “tenzoni” – me ne viene in mente una tra Jacopo Mostacci, Pier della Vigna e Giacomo da Lentini – ma qui è l’autore del Canzoniere a ingaggiare un’assillante disputa con sé stesso attraverso un fuoco di fila di interrogativi destinati a rimanere, inevitabilmente, senza risposta. Più facile è procedere per negazione: an sit, quid sit («S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?»). Il movente l’aveva spiegato Andrea Cappellano: l’Amore muove ex visione et immoderata cogitatione, come prodotto di un cortocircuito tra vista e memoria attivata da una lontananza, e si esprime in forma di patologia che causa brividi di freddo quando c’è caldo e vampate nei mesi rigidi (è l’efficace ossimoro fisiologico del verso finale: «e tremo a mezza state, ardendo il verno»). La volontà di non amare serve a poco («come puoi tanto in me, s’io nol consento?») perché l’innamorato è, convenzionalmente, un navigante che deve governare una nave tra marosi in tempesta. Per cui la quidditas non può che essere la resa, il lieve e lieto naufragio nell’oceano della rassegnazione.
Nonostante la convenzionalità della sua annuale liturgia, mi piace la kermesse (così la chiamano quelli che sanno parlare) sanremese. E mi piacciono le canzonette che, non di rado, non «sono solo canzonette», come cantava Edoardo Bennato. Per uno stigma di leggerezza che accompagna il termine, siamo abituati, infatti, come italiani, ad associare loro l’idea del disimpegno, tanto da definire “leggera” la musica che passa dal palco del teatro Ariston e che in Francia si chiama, invece, musiques de variétes. Non la leggerezza, quindi, che evoca il «cuscino di piume, l’acqua del fiume che passa che va», di carrisiana memoria (nel senso di Carrisi “Al Bano”) o «una sola canzone per far confusione fuori e dentro di te» di stampo “riccopoveristico”, ma la varietas della forma che può dare ospitalità persino a versi struggenti come «laisse-moi devenir | l’ombre de ton ombre | l’ombre de ta main | l’ombre de ton chien» o «Non perderti per niente al mondo | lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te», al cui confronto persino Eugenio Montale si scanserebbe. Già nel 1964, Umberto Eco (Apocalittici e integrati) scriveva che «non è necessario che intrattenimento ed evasione, gioco, ristoro siano perciò stesso sinonimo di irresponsabilità, automatismo, qualunquismo, ghiottoneria sregolata» ed è quindi ormai comune la consapevolezza – almeno da quando l’Accademia di Svezia ha sdoganato definitivamente le canzoni conferendo il Nobel a Bob Dylan – che la strofa di una canzone possa avere pari dignità letteraria di una terzina dantesca.
Amo, ovviamente, le canzoni cosiddette “d’autore”, perché penso che proprio i cantautori (termine ormai onnicomprensivo e probabilmente desueto), in ogni tempo, siano stati tra i pochi che abbiano saputo raccontare la poesia. Mi sorprende sempre il fatto di riuscire a ricordare esattamente tutto il testo dell’Avvelenata di Guccini o 4 marzo ’43 di Dalla e pochissime poesie per intero, anche quelle che mi è capitato di spiegare decine di volte. Non imparo versi a memoria, ma alcuni canti della Divina Commedia mi sono entrati spontaneamente in testa. Non mi entusiasma l’idea di un ragazzo che digerisca e sciorini le terzine di un intero canto del poema dantesco, come mi lasciò affatto indifferente un professore del liceo che si compiaceva nel declamare il trentatreesimo del Paradiso, senza però riuscire a far sentire la potenza delle rime e delle immagini, la sua paura davanti al testo, il convincimento di essere arrivato davvero nell’Empireo.
Ora posso dirlo: ringrazio Petrarca, Leopardi e Saba. Sono stati loro, paradossalmente, a farmi approdare, entusiasta e impudico, alle “canzonette”. E mi dà un grande piacere ascoltarle ogni giorno mentre guido o cammino per strada e chiedermi puntualmente quanto sottile sia il confine tra l’arte e la boiata pazzesca. Le canzoni assomigliano sempre a chi le ascolta, così come i libri assomigliano sempre a chi li legge. Lo spiega bene Truffaut in quella sequenza della Signora della porta accanto in cui fa dire a Mathilde-Fanny Ardant: «Ascolto solo le canzoni d’amore perché dicono la verità, più sono stupide più sono vere… e poi non sono stupide. Che dicono? Dicono “non devi lasciarmi”, “senza di te in me non c’è vita”, “senza di te io sono una casa vuota”, “lascia che io divenga l’ombra della tua ombra” oppure “senza amore non siamo niente”». Il regista francese disse pure, in qualche intervista, non so dove, che quel film assomigliava a una canzone di Edith Piaf, era un po’ come Ne me quitte pas di Jacques Brel.
Vecchia questione quella del rapporto tra poesia e canzone. Mi piacerebbe, un anno, dedicare un intero corso di letteratura italiana ai ‘dintorni’ della letteratura. Chessò: un ciclo di conversazioni sulle voci di Buscaglione e Conte, Tenco e De André, Springsteen e Tom Waits, che sono riusciti a raccontare la loro epoca meglio di quanto facciano quei poeti che – loro sì – per dirla con il poetico (senza virgolette) Ligabue, “hanno perso le parole”. E questo perché la forza della musica “leggera” (sì, persino quella di Sanremo) è nel suo essere anche cultura orale. Come nell’incipit di Moby Dick («Chiamatemi Ismaele»), in cui Melville è come se ci dicesse “guardate che non è solo roba scritta quella che leggerete, ma voce, racconto, respiro, invenzione senza fine”. Sì, la canzone è voce che racconta versi, per questo cattura più della poesia (un mio ex alunno delle medie mi diceva: «prof, Dante non lo capisco, invece Vasco mi prende»). La poesia vuol essere rimasticata dalle parole di tutti e allora forse le inventeremmo o le scopriremmo una funzione. Chi ricorda Travis-De Niro in Taxi Driver? Ripeteva a memoria un intero elenco del telefono in modo autistico. Eroico certo, ma profondamente malato, indurito, a un punto morto e senza speranza.
Io non me ne farò mai niente della letteratura che si perpetua uguale a sé stessa. Io vorrei che la poesia passasse di bocca in bocca, come le strofe di una canzone. Forse è per questo che i moderni vati sono le star della musica. E forse è giusto che sia così. I poeti avrebbero tanto da imparare ascoltando Sanremo, capirebbero che la parola può essere muffa (o «merda», come diceva Rimbaud della poesia), se non diventa corpo, fiato, spirito, sangue, se non si scioglie tra le dita quando cominciamo ad ascoltare le voci che si muovono sotto e dentro di essa. Proprio come succede con alcune canzoni che ci parlano, ci raccontano, ci mentono, ci recitano e, recitando, elaborano sogni, rappresentano il presente.
In un saggio intitolato La medicalizzazione della vita, Leonardo Sciascia prende le mosse dalla Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès per riflettere su come e quando sia avvenuto il passaggio da «un’idea della morte all’interdetto sulla morte», e di come la “secolarizzazione” che caratterizza la morte moderna, sottratta al trascendente, al magico, e affidata alla potenza terapeutica della scienza, costituisca l’aspetto principale di quest’interdizione. La medicalizzazione della vita è, per lo scrittore siciliano, una forma d’irreversibile tecnicizzazione della malattia che ingenera, nell’individuo, l’effimera speranza di una guarigione, eludendo così la necessaria presa di coscienza, da parte del malato, della prossimità della fine.
Nel saggio di Ariès è ricordato invece che, nel medioevo, per quanto angosciante fosse l’idea, il trapasso avveniva nel proprio letto, in una dimensione che lo storico definisce «addomesticata», di cerimonialità pubblica, in cui il dolore era attenuato dalla partecipazione di tutta la comunità e da una ritualità priva di manifestazioni esasperate, e di cui l’unico atto ecclesiastico era l’assoluzione in limine mortis. Radunati i familiari attorno al proprio letto, i padri consegnavano ai figli le ultime raccomandazioni, in un estremo abbraccio ideale, poi il moribondo, volgendosi verso il muro, dava le spalle agli astanti, quasi per isolarsi, e si congedava dal mondo senza imbarazzo alcuno, al punto che non solo un qualsiasi sconosciuto di passaggio poteva prendere parte alla veglia, ma gli stessi bambini potevano assistere.
Nella remota Sicilia d’infanzia che Sciascia non cessa mai di ricordare, la speranza nella gradualità del trapasso era tale che una morte «subitanea», e cioè inaspettata, improvvisa, costituiva l’augurio riservato a chi era fatto oggetto d’odio mentre, al contrario, nei confronti dei cari vigeva una sorta di ‘pedagogia’ che assicurava, al momento dell’addio, la dolcezza di un intimo “accompagnamento” familiare, riconoscendo solo marginalmente al medico la possibilità di intervento: «La morte non veniva nascosta a chi ne sarebbe stato preda. L’ammalato veniva informato del suo stato: affinché si preparasse». Nella misura in cui proprio l’ineluttabilità della fine conferiva una dignità specifica alla condizione dell’agonizzante, a lui veniva riconosciuto un ruolo di messaggero col mondo dei morti, al punto che la comunità gli affidava messaggi da recapitare ai cari estinti: saluti per le anime dei conoscenti che si immaginava vagassero nel purgatorio e che gli si raccomandava di andare a cercare; notizie di avvenimenti familiari; rassicurazioni sul fatto che venissero celebrate delle messe in suffragio; richieste di intercessioni per la salvezza delle anime dei familiari viventi.
In una sequenza di Baarìa, di Giuseppe Tornatore, i parenti accorsi al capezzale di un morente gli affidano un lungo elenco di saluti da recare nell’aldilà ai cari defunti. La replica dello sventurato – «scrivetemi tutto, altrimenti me lo scordo» – sembra provenire da un aneddoto simile che racconta Sciascia per mostrare come l’idea del morire fosse cominciata a divenire «insopportabile» intorno alla fine degli anni Venti del Novecento. Un secolo fa, con l’affermarsi del potere della scienza, l’asettica oggettivazione della morte ha finito col neutralizzare il senso rituale, surrogando la dimensione privata della sofferenza con quella pubblica della conoscenza.
Nasce così il paradosso di una censura sull’ineluttabile, un interdetto che priva le esistenze individuali del loro peso specifico, riducendole a meri corpi. L’eliminazione della morte avviene cioè attraverso la rimozione dell’idea del morire ed esorcizzata, anche linguisticamente, con gli eufemismi che servono a denotarla (“fine della vita”; “venir meno”; “conclusione del cammino terreno”; “uscita dalla scena della Storia”; “decesso”; ovvero, relativamente al morto, quelle che lo denotano come colui che: “non è più”; “si è spento”; “è mancato”; e perciò è detto: “estinto”; “defunto”; “trapassato”; “deceduto”; “scomparso”; “tornato alla casa del Padre”), non già come surrogati pietosi, ma piuttosto come sostituti decorosi di qualsiasi altro riferimento diretto, ritenuto troppo sconveniente a chi ne faccia oggetto di conversazione.
Il momento nel quale avviene il passaggio dalla morte «addomesticata» di Ariès al tabù dell’angoscia e del dolore può essere fissato, secondo Sciascia, nel racconto La morte di Ivan Il’íč e nella messinscena che Tolstoj fa dell’emarginazione del malato dalla scena dei sani. Chi è Ivan Il’íč? Un borghese «ammodo», coscienzioso, di buona famiglia e di buon senso, sussiegoso con i superiori che possono agevolargli la carriera, membro della Corte d’Appello, cristallizzato in un’esteriorità di cui è parte un matrimonio di convenienza, perfettamente allineato a un’esistenza incolore e ordinaria, se non fosse per un banale incidente domestico che lo arpiona e lo condanna all’inesorabilità di un male incurabile.
Nel 1884 cui risale l’inizio della stesura del racconto, si moriva già “modernamente” di cancro, anche se la malattia non era ancora individuata con la precisione delle moderne tecniche diagnostiche. L’elemento nuovo sta nell’ineffabilità della malattia e forse già nell’essere innominabile, nell’essere tenuta nascosta al malato; c’è un elemento di “modernità” nella reticenza che affiora nelle visite mediche, così come nell’ipocrisia dei familiari che gli impongono la zelante osservanza delle terapie e delle prescrizioni cui essi per primi non credono, contribuendo a emarginarlo progressivamente, a neutralizzarlo.
Come scrive Ariès, il malato «viene spogliato della sua responsabilità, della sua capacità a riflettere, a osservare, a decidere, è condannato alla puerilità». L’aspetto interessante di questo transito dalla morte ‘popolare’, di tutti, a quella borghese della medicalizzazione del suo sentimento sta nel fatto che il malato, privato del diritto all’angoscia esistenziale, è condizionato dalla medicina, si abitua a pensare come i medici e non come uno che è arrivato al punto di doversi mettere in ascolto della propria fine. Sciascia avanza l’ipotesi che, per i familiari che recitano col malato la commedia dell’ottimismo, allo scopo di permettere anche a sé stessi, oltre che al moribondo, di tenere altro il morale «i medici e le medicine siano per loro, inconsciamente, strumenti punitivi verso colui che impudicamente li fa spettatori della propria morte, della morte», e fa l’esempio dell’insofferenza della tolstojana Praskov’ja Fedorovna per i lamenti che le infligge il marito.
Del resto, lo stesso auto-segregarsi fisico ed emotivo di Ivan Il’íč nello spazio a parte di una stanzetta in cui vivere la propria malattia, sentendosi «con tre porte chiuse in mezzo» prelude già all’idea della «dislocazione istituzionale» rappresentata dall’ospedale, o segna il passaggio, scrive Sciascia, «da una concezione dell’ospedale in cui il terrore di chi doveva finirvi corrispondeva alla vergogna dei familiari che erano costretti a portarvelo, a una concezione esattamente opposta: dell’andare in ospedale e del portarvi uno della famiglia, come segno di decoro e di mentalità moderna e civile».
La sconvenienza del dolore, il rifiuto collettivo a riconoscere la malattia per esorcizzarne la gravità, l’anestetico dell’ipocrisia generalizzata che camuffa la banale constatazione dell’inefficacia delle cure mediche e dell’accudimento domestico è però proprio ciò che tormenta il personaggio tolstojano che, nel momento in cui realizza l’ineluttabilità e indifferibilità del proprio appuntamento con la morte, è angosciato proprio dal fatto che tutti si affannino a ridurre l’atto terribile e solenne della sua morte al livello delle visite specialistiche e delle cure palliative che gli impongono. È allora che si ribella, si volta verso il muro e si rifiuta di cooperare e comunicare, chiedendo solo di poter morire, di non essere spossessato della morte, della propria morte, affermando così, al contempo, l’autenticità della vita, della propria vita.
Nella riflessione di Sciascia, tre sono gli aspetti che fanno di Ivan Il’íč il personaggio paradigmatico che percorre il crinale tra due epoche e segna l’evoluzione di un diverso atteggiamento dell’uomo occidentale di fronte alla morte e alla medicalizzazione della vita. Il primo è dato dalla «…confessione e comunione del morente [che] non ha più la funzione di metterlo in regola con l’aldilà, ma è ormai una formalità che fa da diversivo, pausa, da distrazione dal dolore; che conduce i pensieri dell’agonizzante, invece che alla morte e a Dio, alla vita, alla possibilità di guarire […] è come se al suo capezzale il prete avesse fatto consegna al medico della vecchia, antica idea della morte; e il medico non potrà che vanificarla, che surrogarla totalmente con l’idea della vita medicalizzata».
Il secondo aspetto è nel saluto che il protagonista del racconto riserva al figlio Vanja che si curva su di lui, baciandolo disperatamente fra i singhiozzi, quasi a trattenerne la vita che fugge; un congedo che procura pacificazione e sollievo al moribondo perché questi raggiunge finalmente la consapevolezza dell’inautenticità e meschinità della vita precedente e con essa il senso nascosto del vivere e del morire nei loro rapporti eterni. Ma si accompagna alla preoccupazione che il figlio «non veda la morte, che cominci a rispettare anch’egli, come tutti, l’interdizione che sta per cadere sulla morte».
E infine la moderna intuizione tolstojana dell’accomunare la figura del medico a quella del giudice attraverso il paragone che Ivan Il’íč fa tra sé stesso, uomo di legge, della cui imperscrutabilità nell’esercizio delle proprie funzioni giudicanti non è tenuto a dar conto a nessuno «poiché quel che conta è l’affermazione della legge comunque interpretata» e l’uomo di scienza, depositario di ogni speranza di sopravvivenza concreta o ipotetica, che si rivolge all’agonizzante con l’impassibilità che gli deriva dal fare «astrazione dalla malattia e dalla salute, poiché quel che conta è l’affermazione della medicina, cioè della «medicalisation de l’idée de la vie». Che è come dire che, con il medico-giudice di Tolstoj, e poco prima di quel 1923 in cui Il dottor Knock di Jules Romains ne decreterà il «trionfo», siamo già all’idea di una medicina che burocratizza la morte, neutralizzando la sofferenza e sottoponendola alla consuetudine dei protocolli. Ed è ancora una volta felicemente spiazzante la dimensione borgesiana con cui Sciascia chiude il saggio, facendo notare come, a causa delle traslitterazioni dal cirillico, il nome del personaggio tolstojano sia trascritto in tre modi diversi nelle varie traduzioni e che forse potrebbe più semplicemente essere trascritto come Ivan Illich, che è anche il nome del sociologo austriaco che più di altri, nel 1975 in cui verrà pubblicato il suo Némésis médicale (Nemesi medica. L’espropriazione della salute), polemizzerà con la medicalizzazione della vita.
Un’ultima chiosa, su Tolstoj e Sciascia, su Ivan Il’íč e lo scrittore di Racalmuto, per dire che l’esorcizzazione della morte, attraverso ipocriti rituali propri di quella modernità omologante che annulla ogni valore trascendente e morale, e che Sciascia non fece mai mostra di amare, era anche il problema individuale di prepararsi alla propria fine. Così Tolstoj fa morire il principe Andréj Bolkonski in Guerra e pace, dopo le atroci sofferenze causategli da una granata che gli ha squarciato l’addome durante la battaglia contro Napoleone a Borodino: «Aveva la sensazione di allontanarsi da ogni cosa terrena e quella di una strana e gioiosa levità di tutto il suo essere. Senza impazienza e senza ansia, attendeva il compimento di ciò che incombeva su di lui. Quella cosa terribile, eterna, ignota e lontana di cui aveva sentito la presenza per tutta la vita, gli era ormai vicinissima e, per quella strana sensazione di levità dell’essere, quasi comprensibile e tangibile…»
Con la stessa pace nell’animo se ne andrà pure Sciascia, le cui ultime parole furono: «è l’alba», quasi a voler intendere di essere sopravvissuto, una notte ancora, alla via crucis di quel mieloma multiplo che gli aveva invaso il sangue, condannandolo alla paura, al dolore, alla paura del dolore. E chissà che non gli siano tornati in mente alcuni dei suoi versi giovanili – «Ora, in quest’alba che hanno le case, / il paese è come un vascello che salpa: / nella sua nitida alberatura / per me s’impiglia una vela di morte» – o la disarmante perplessità psicologica e metafisica dei personaggi in cui amò scheggiarsi: il piccolo giudice di Porte aperte che considerava la vita soltanto «caso e assurdità», capace di valere «soltanto in sé, nelle illusioni in cui la si vive»; il Vice del Cavaliere e la morte che si congeda dalla vita quando«era già eterno e ineffabile il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta»; il professor Franzò di Una storia semplice che nutre il suo cupio dissolvi della considerazione per cui «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza».
Quali che siano stati i suoi pensieri, peraltro insondabili, vorremmo credere che le sue ultime parole affidate alla scrittura, nell’explicit di Una storia semplice, siano definitivamente riassuntive dello stato d’animo che ne ha accompagnato la fine: «Uscì dalla città cantando». Vorrei immaginare che la sua mente sia stata attraversata proprio dal ricordo del tolstojano Ivan Il’íč, e come lui, nell’ora fatale, si sia messo in ascolto, acquietato dal conforto della livida e luttuosa luce dell’alba, consegnato infine a una perfetta pace: «E la morte?Dov’è?». Cercò al sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’è? Ma che morte? Non c’era più paura perché non c’era più morte. Invece della morte, la luce. Dunque è così! – disse d’un tratto ad alta voce. – Che gioia!»
«Vorrei raccontare il morire, la morte come esperienza», aveva scritto Sciascia nella Medicalizzazione della vita, ancora ignaro del proprio destino, e assumendo proprio l’«impareggiabile tentativo» dell’Ivan Il’íč di Tolstoj come paradigma di un concetto destinato a segnare il discrimine tra due opposte idee della malattia e del modo di vivere la morte per malattia, limitandosi ad averne per conto suo solo «un’ultima suprema curiosità intellettuale». E a testimoniare la propria ars moriendi, restano le parole con le quali, descrivendo la fine del Vice, nel Cavaliere e la morte, sembra prefigurare la propria: «Cadde pensando: si cade per precauzione e per convenzione. Credeva di potersi rialzare, ma non ce la fece. Si sollevò su un gomito. La vita se ne andava fluida, leggera; il dolore era scomparso. Al diavolo la morfina, pensò. E tutto era chiaro, ora…»
Il rifiuto dell’angoscia di morte ha il suo fondamento in quello che Heidegger chiama l’«essere per la morte», una forma di «disadattamento», spiega Edgar Morin nell’Uomo e la morte, che consente «l’autenticità»: «La vita autentica è quella che in ogni istante sa di essere promessa alla morte e l’accetta coraggiosamente, onestamente. […] Bisogna smettere di eludere l’idea della morte, smettere di fare come se non si dovesse morire mai, come se la morte non ci fosse». Ma per Heidegger non si tratta di pensare all’orrore del cadavere o alla resurrezione. Si tratta invece, grazie alla scelta necessaria dell’autenticità, di diventare «liberi per la morte».
Una forma di ri-significazione, insomma, in cui l’aldilà non viene esorcizzato, ma diventa l’essenza stessa dell’essere, dell’esserci, rappresenta il rigore della spiritualizzazione contro la mutevolezza impura delle cose. Anche in quest’ottica si può leggere l’epitaffio che Sciascia si scelse per la sua tomba, la frase di Villiers de l’Isle-Adam «Ce ne ricorderemo di questo pianeta»: il ricordo da un lato, dunque, l’hicet nunc dall’altro a illuminare una concezione che fa del mondo una necessità e una fatalità, l’approdo di un percorso che ha salde radici nel passato e investe, nel presente, tanto l’autore che i propri contemporanei.