CENTO MODI DI DIRE L’AMORE [new]

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O iubelo del core,
che fai cantar d’amore!
Quanno iubel se scalda,
sì fa l’omo cantare,
e la lengua barbaglia
e non sa che parlare:
dentro non pò celare,
tant’è granne ’l dolzore.
Quanno iubel è acceso,
sì fa l’omo clamare;
lo cor d’amor è appreso,
che nol pò comportare:
stridenno el fa gridare,
e non virgogna allore.
Quanno iubelo ha preso
lo core ennamorato,
la gente l’ha ’n deriso,
pensanno el suo parlato,
parlanno esmesurato
de che sente calore.
O iubel, dolce gaudio
ched entri ne la mente,
lo cor deventa savio
celar suo convenente:
non pò esser soffrente
che non faccia clamore.
Chi non ha costumanza
te reputa ’mpazzito,
vedenno esvalïanza
com’om ch’è desvanito;
dentr’ha lo cor ferito,
non se sente de fore.

Iacopone da Todi, O iubelo del core

O gioia del cuore, che fai cantare per amore! Quando la gioia s’infiamma, fa cantare l’essere umano veramente, e la lingua balbetta e non sa quel che dice: non può nascondere dentro di sé la dolcezza, tanto è grande. Quando l’intima gioia raggiunge il massimo fervore, fa davvero gridare; il cuore è infiammato d’amore, al punto che non lo può sopportare: la gioia fa gridare stridendo, ma in quel momento non si prova vergogna. Quando la gioia ha preso interamente il cuore innamorato, la gente lo deride, pensando ai discorsi di costui che parla in modo irrazionale di ciò che lo brucia. O gioia, dolce piacere che entri nella mente, il cuore diventerebbe saggio, se nascondesse il proprio stato: eppure non può evitare di gridare. Chi non ne ha esperienza ti reputa impazzito, vedendo lo strano contegno, come di chi vaneggia; internamente ha il cuore ferito e non percepisce il mondo esterno.

Certo, l’amore di cui si parla è quello per Dio, ma in cosa differisce da quello per un essere umano? Quando amiamo, non proviamo forse lo stesso intenso sentimento di gioia e di ebbrezza che fa toccare il cielo con un dito? Non è, l’amor profano, una forma anch’esso di esmesuranza che può condurre allo spossessamento di sé, che ci fa straparlare con chiunque della persona amata, facendocela idealizzare e magnificare ben oltre ogni connotazione realistica, producendo il vaneggiamento (esvalïanza) finale? Si dirà che iubelo, termine frequente, oltre che nel componimento, nel lessico mistico in genere, non lasci àdito a dubbi sul fatto che di amore per l’Altissimo si stia parlando. Epperò Iacopone – bricconcello – per celebrare l’amor sacro, usa in abbondanza il lessico della poesia profana, disseminando la sua lauda di tanti provenzalismi tipici della lirica dei trovatori: il «cantar d’amore», il «dolzore», per dirne una, vengono da lì per poi fare rotta verso i siciliani. La stessa impossibilità di profferire parola al culmine dell’estasi mistica («e la lengua barbaglia | e non sa che parlare») ricorda l’impaccio che coglie, in Madonna mia, a voi mando, Giacomo da Lentini in presenza della donna amata, e lo fa ammutolire quasi rincoglionito («da poi ch’e’ per dottanza / non vo posso parlare»). Per non dire che il ricorrente concetto del calore («Quanno iubel se scalda»; «Quanno iubel è acceso») come proiezione figurale dell’amore ha un suo corrispettivo in Guinizzelli di Al cor gentil rimpaira sempre amore («e prende amore in gentilezza loco | così propïamente | come calore in clarità di foco. | Foco d’amore in gentil cor s’aprende | come vertute in petra prezïosa»; «Amor per tal ragion sta ’n cor gentile | per qual lo foco in cima del doplero»). Queste spie che ci dicono della sicura conoscenza, da parte dell’autore, di modelli della tradizione, basterebbero a farci ritenere che egli volesse scrivere un testo “letterario”, una poesia d’amore, e non solo una preghiera. Connesso a questi motivi, è poi il motivo della dolcezza («tant’è granne ’l dolzore»; «dolce gaudio»); in siciliano (ma anche in calabrese), l’espressione «aviri u cori ‘nto zuccuru» (avere il cuore nello zucchero), che potrebbe figurare benissimo nel lessico della gentilezza cortese per significare la condizione di chi è infatuato, è pregnante anche per dire di come l’eccesso di dolcezza possa finire col produrre, dopo il picco dell’innamoramento, segnali di altra natura: malinconia, incupimento, tristezza. Esattamente come avviene al corpo e all’umore con l’iperglicemia.

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Cui facissi d’iłłu notomia in ogni parti ci truviria a N.
Quandu, tiranna, a casu ti placissi
di fari di mia stissu notomia,
e carni e sangu et ossa mi vidissi
per satisfazioni tua e mia,
iu letu e tu contenti ristirissi
e satisfatta la tua chirurgia,
perchì di parti in parti scopririssi
chi tu sì ngrata e iu moru per tia.

Se qualcuno vivisezionasse il poeta, / troverebbe l’amata in ogni parte. | Tiranna, se per caso ti venisse voglia | di notomizzarmi, | e con mia e tua soddisfazione | vedessi la mia carne, il mio sangue e le mie ossa, | io ne sarei lieto e tu contenta, | e soddisfatta la tua operazione chirurgica, | perché da parte a parte scopriresti | che tu sei ingrata, e io muoio per te.

Antonio Veneziano, dal Libro delle rime siciliane, Libru primu (Celia), 11

Nel secol – il Cinquecento – che più della luce di Petrarca prese, non pochi bagliori s’irradiarono dai versi di Antonello Veneziano (più noto come Antonio). Quello per l’aretino fu un trend virale che in Sicilia conobbe non pochi testimonial: un’ostinata fedeltà garantita da svariati poeti d’accademia impegnati a competere, e in qualche caso a vincere, la sfida con i colleghi delle altre regioni italiane. Ma Veneziano aveva una marcia extra, non fosse altro che per quell’aura d’artista maudit che la sua vita da rebel without a cause gli assicurava, e che lo portava a entrare e uscire di prigione a più riprese, lui, educato dai gesuiti e figlio di un mastro notaro della Curia monrealese. Tra omicidi e veri e propri ratti (nel 1573 era stato accusato di aver sottratto a una terziaria domenicana una servetta di cui s’era invaghito), il siculo Petrarca conobbe pure Cervantes in una prigione algerina, dopo essere stato catturato dai corsari. E già questi dettagli gli varrebbero almeno un film. Anche perché dall’immortale autore del Chisciotte ricavò sincera stima e amicizia, prima di essere riscattato dalla schiavitù grazie all’intervento della sua ricca e potente famiglia che volle riportarlo a Monreale. Sciarrino (leggi “litigioso”) come pochi, si impegolò ancora in liti e contese a colpi di carta bollata e di libelli contro chiunque – parenti, vescovi e viceré – che gli valsero ancora i ferri, a Palermo, dove morì tragicamente nel ’93 a seguito di un incendio che arse insieme prigioni e detenuti: gioventù bruciata, è il caso di dirlo. A dispetto di tanta vita spericolata, era però anche un uomo molto colto che produsse prose eleganti nonché versi in lingua di apprezzabile nitore; ma le settecentocinquantatre canzuni siciliane scritte per la misteriosa Celia sono, senza tema di smentita, il suo greatest hits. Sullo sfondo c’è sempre il più famoso Canzoniere, ma nell’emulazione di quei famosi stilemi l’aspetto meno convenzionale, e perciò stesso originale, fu il tentativo di pennellare le immagini e le situazioni da repertorio in un modo più espressivo e realistico di quanto non riproducessero le rarefazioni astratte e intellettualistiche di maniera. Insomma, anche quando scriveva veniva fuori la sua indole eslege, con quel gusto per il coup de théâtre d’impatto, per quella ruvidezza da carta vetrata così aliena dalle levigature dei petrarchisti doc. Lo si può notare anche in questi versi in cui invita l’amata a dissezionarlo chirurgicamente per farle trarre la soddisfazione un po’ sadica di ritrovare in ogni parte del suo organismo tracce di lei. Già il solo dire questo in un registro dialettale “basso” non è poca roba nella storia della poesia cinquecentesca cui si addiceva, all’inverso, l’elevatezza con cui dipanare la tematica amorosa. Se a questo si aggiunge che, pur in questo sdrucciolamento stilistico, Veneziano riesce a essere a un tempo tenero e beffardo, accorato e sprezzante, si capisce come riesca a svisare da virtuoso sulla tastiera linguistica, come uno Scott Joplin ante litteram che alterna ritmi sincopati e contrattempi (come nel dittico finale «perchì di parti in parti scopririssi | chi tu sì ngrata e iu moru per tia»), a riprova di quanto la poesia riesca a essere, talora inconsapevolmente, il correlativo del temperamento di chi la produce. Nel caso di Veneziano, l’espressione di un vitalismo estremo e dannatamente sensuale.

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O cuore che non ti prenda dolore di questo mondo consunto:

Tu non sei cosa vana, di vani dolori non prenderti cura.

Poiché ciò ch’è stato è passato, e ciò che non è non è ancora,

Vivi felice, e non ti afferri tristezza di quel che non è, non è stato.

O cuore, fa’ conto d’avere tutte le cose del mondo,

Fa’ conto che tutto ti sia giardino delizioso di verde,

E tu su quell’erba verde fa’ conto d’esser rugiada

Gocciata colà nella notte, e al sorger dell’alba svanita.

È la voce del poeta e matematico persiano Omar Khayyâm, sono le sensuali Quartine (su Dio, sul vino, sull’amore), frammenti sulla caducità e la casualità dell’esistere, sull’importanza del consegnarsi al presente. Versi misteriosi, come il loro autore di cui non sappiamo praticamente nulla. Fu un filosofo scettico e razionalista o un mistico esoterico? Un tragico o un ironico? Versi che potrebbero anche non essere autentici e che si prestano a essere letti in modo realistico o allegorico. E non è forse quest’opacità la bellezza stessa della parola poetica? Il suo dire tutto lasciando sempre qualcosa di inespresso? Il suo giocare a nascondere dandoci l’illusione di rivelare? Il suo parlarci anche col silenzio, con gli abissi dei suoi spazi bianchi? Diceva Benedetto Croce: «chi sente profondamente un’opera d’arte viene a trovarsi più o meno nella stessa posizione di chi l’ha creata». Dopo un millennio, la voce di Khayyâm ci ricorda che la poesia, come la vita, non ammette spiegazioni definitive; della vita e di ognuno si fa piuttosto eco, per tutto ciò che di dolce ma anche struggente sa riservare, e non appartiene a chi la scrive, ma a chiunque la pensi e la senta risuonare dentro di sé come un bisogno. Come il bere. Come il respirare.

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È un foco Amor, che ascoso tien l’ardore; | è ferita, che punge, e non si sente; | è un piacer, che tien l’alme discontente; | è acerbo duol, di cui non si ha dolore: || è un non voler, che ciò che vuole Amore; | è un andar solitario tra la gente; | è un godere con voglie non mai spente; | è un credersi felice ove si more: || è un suggettarsi i vincitori a i vinti; | è uno stare in prigion, perché si vuole; | è un esser fidi a chi ci brama estinti. || Come mai de l’Amor si grande amico | è il core uman, che senza lui si duole, | se Amore de gli amanti è si nemico?

Amor he hum fogo que arde sem se ver; | He ferida que doe e não se sente; | He hum contentamento descontente; | He dor que desatina sem doer; || He hum não querer mais que bem querer; | He solitario andar por entre a gente; | He hum não contentarse de contente; | He cuidar que se ganha em se perder; || He hum estar-se preso por vontade; | He servir a quem vence o vencedor; | He hum ter com quem nos mata lealdade. || Mas como causar póde o seu favor | Nos mortaes corações conformidade, | Sendo a si tão contrário o mesmo Amor?

Luís Vaz de Camões, Amor he hum fogo que arde sem se ver

Di Luís de Camões si sa poco e quel che si sa è parente stretto della leggenda. L’autore delle Lusiadi, il poema nazionale portoghese e del suo massimo eroe, Vasco de Gama, vive nel Cinquecento, il secolo in cui l’Europa letteraria è letteralmente attraversata dal richiamo imperioso della poesia petrarchesca. Al richiamo del componimento alla maniera di non resiste nemmeno lui, ma a differenza di tanti sterili emuli banalmente preoccupati di adeguarsi al costume normativo dell’epoca, si libra altissimo e con sincerità d’ispirazione. Basterebbe anche solo questo sonetto a consacrarlo nel Pantheon lirico lusofono, e non solo in quello. La traduzione di questo sonetto è ottocentesca, si deve a Juan Francisco Masdeu, un erudito spagnolo di origini siciliane (era nato a Palermo), un gesuita esiliato in Italia dopo l’espulsione del suo ordine, che la consegnò a un volume il cui titolo (lunghissimo) riporto perché così mi aggrada: Arte poetica italiana di facile intelligenza. Dialoghi familiari diretti ad insegnare la poesia a qualunque persona di mediocre talento, sia uomo, o donna, benché non altro sappia che solo leggere e scrivere. La natura ossimorica dell’amore si traduce, con Camões, in un fuoco di fila di metafore caratterizzato dall’eterogenesi dei fini, per cui l’effetto contraddice puntualmente la causa: è fuoco che avvampa, ma non brucia, ferita di cui non si sente il dolore, morte di cui essere felici, un sottomettersi ai vinti. E così via. Da questo bulimico catasto di paradossi e contraddizioni in cui il secondo termine del verso funziona come complemento del primo, ciò che risalta è il voler mettere in dialogo una realtà sensibile (la ferita che fa male) e una spirituale che trascende la prima (non si sente il dolore). Come si fa perciò ad amare l’Amore (assunto che sarà molti anni dopo di Stendhal) ed essergli amico, al punto che non sappiamo farne a meno, se questo è l’aguzzino di ogni amante che si rispetti? Di quest’irresolubile querelle è forma e figura il ricorso costante ad anafore, metafore, ossimori antitesi ordinati in perfetta simmetria, a comporre la musicalità che era fondamento e ragione stessa di quella sublime e frustrante storia di uno scacco matto esistenziale in trecentosessantasei frammenti che era il Canzoniere petrarchesco. A replicarne la sentenza in modi quantomeno più dubitativi del velleitario tentativo di “guarigione” di messer Francesco dal suo «giovenile errore» è proprio l’interrogativo finale che ci dice, in sostanza, qualcosa di non molto diverso da quanto afferma Dante nel suo approccio alla beatitudine celeste: l’Amore, parafrasando, è un’estasi di cui si può solo godere, senza illudersi di penetrarne la ragione «perché appressando sé al suo disire, | nostro intelletto si profonda tanto, | che dietro la memoria non può ire». E questo perché, con buona pace degli aristotelici sillogismi di Camões, da che mondo è mondo l’unica cosa che sappiamo dell’Amore – come di Dio, e come di Luís de Camões – è proprio il nostro non saperne niente, ciò nonostante ostinandoci nel disperato e commovente tentativo di provarci almeno a capirne qualcosa, fino a volerci rompere la testa.

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Rinnovate ho per te le antiche date
sino da quando l’Ellade gioiosa
si compiaceva d’ogni assurdo, cupo
seno di vergini aggiogate
allo splendido carro apollineo.
E, infuriata com’esse grido all’ara
del tuo amore perfetto
tutta la forza del mio sangue oscura.
Tu, bellissimo Iddio che nella fronte
reggi un gioiello di pazienza duro
e sopporti implacabile le forme
del mio amore vivace, tumultuoso,
guardi alle mie incertezze come a un campo
seminato di indocili bufere
guardi apprensivo l’occhio del Signore.
(Ché cristiana son io ma non ricordo
dove e quando finì dentro il mio cuore
tutto quel paganesimo che vivo).

Alda Merini, Rinnovate ho per te

AM א: le iniziali sovrapposte assomigliano graficamente alla prima lettera dell’alfabeto ebraico: A come áleph, l’inizio connesso all’uomo stesso, M come Merini e come Maria, quella con cui dialoga nel suo Magnificat, cioè la Donna della Parola, che accoglie dentro di sé, nel grembo, il corpo d’amore, il messaggio eterno che dovrà trasfigurare. Forse in questo capriccio critico si può nascondere la chiave che può aiutare a squadernare l’intimo dissidio che regge i versi della più pop tra le poetesse italiane del Novecento (la consacra tale l’acritica alluvione di pagine che le dedica il web), tra la vertigine di una dimensione fortemente spirituale e l’abisso dei sensi, di un «corpo, ludibrio grigio» che imprigiona e però apre le porte dell’anima. La sensualità non è impermeabile alla manifestazione del divino, anzi accade sovente che proprio la carne ne registri la presenza, ne illumini l’enigma. Il corpo è l’orma dell’Invisibile divino e solo nell’amore trova verità e tregua. Spirito e carne in una perenne lotta d’amore, dunque, in un continuo dialogo di senso, fatto di assordanti silenzi e tacite grida, seduzione e abbandono. Non è facile, nel caso della «poetessa dei Navigli» accostarlesi mantenendo il convenzionale distacco critico necessario al giudizio, e forse nel suo caso non è nemmeno necessario adottarlo, o non è comunque più produttivo del lasciarsi empaticamente invadere da una parola anche ritmicamente intrisa di furori pagani e tregue apollinee, sensualità e malessere, santità e dannazione. Troppo ingombranti e fuorvianti risultano la sua biografia, il calvario della malattia e la tortura dell’internamento, perché si possano accantonare, eppure la poesia s’impone sempre, restituendo quasi mutati i dati biografici, quasi che sia la vita stessa a derivare da essa. Scremati tutti i riferimenti alla “naturalità” e spontaneità della sua poesia, nonché la facile e scontata prossimità con la leggenda della sua vita, in perenne lotta col disordine mentale, si farebbe bene a ricordare, con Maria Corti, che «la scrittura poetica è un dato che mette nell’ombra ogni cronaca coi suoi eventi». Certo le tematiche di Merini inducono alla tentazione di accostare la sua scrittura pulsionale alla matrice confessionale, di matrice anglosassone, di autrici come Sylvia Plath o Anne Sexton, testimoni ed eredi di grandi sistemi lirici di natura emozionale ed esperenziale già schizzati, a cavallo fra Ottocento e Novecento, da Emily Dickinson, Emily Brönte o Elisabeth Barret Browning. Ma laddove le due inglesi precipitano nel maelström allucinatorio di una bellezza infinita e irredimibile, Alda accetta invece fino in fondo l’itinerario della Passione. O forse sarebbe più giusto ammettere che, nella vocazione confessionale di molte poetesse “maledette”, c’è qualcosa che le accomuna alla dimensione mistica, la traccia erotica di un dolore segreto che attraversa tutta la vita e la scrittura, come la traccia di un’assenza mai colmata. La confessione sembra essere un metodo per non annichilire e disperdersi, ma conseguire una condizione quasi di invulnerabilità; tutta la poesia di Alda è alla ricerca di questa unità, essendo la quotidiana frantumazione, dualismo e dispersione di sé. Per lei, la reductio ad unum passa attraverso l’Amore, intermediario tra vita sensibile e contemplazione del vero, come affermava la grande filosofa spagnola Marìa Zambrano (La confessione come genere letterario), mentre la natura della nostra vita è «dispersività, passività e passionalità» e la verità non può avere la meglio sulla vita se non innamorandola, rendendola «resa senza rancore».

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Come potrei trattenerla in me,
la mia anima, che la tua non sfiori;
come levarla, oltre te, ad altre cose?
Ah, potessi nasconderla in un angolo
perduto della tenebra, un estraneo
rifugio silenzioso che non seguiti
a vibrare se vibri il tuo profondo.
Ma tutto quello che ci tocca, te
e me, insieme ci prende come un arco
che da due corde un suono solo rende.
Su qual strumento siamo tesi, e quale
violinista ci tiene la mano?
O dolce canto.

Rainer Maria Rilke, Canto d’amore, trad. di G. Cacciapaglia

Caro Rainer,

la tua lettera, che mi è stata appena recapitata, è qui davanti a me e mi sembra faccia parte di questa prima neve d’inverno che si stende a perdita d’occhio davanti alle finestre e sui giardini circostanti, tale è l’intensità con cui mi parla della lontananza da te, la lontananza di cui scrivi, che non dovrebbe esistere. Io l’avverto fortemente, Rainer, è una lontananza puramente spaziale, e vivo come assurdo il fatto che mi risulti insormontabile. Salvo poi ricorrere al treno e a tutti i possibili dispendi di energia per improvvisare un incontro a data da destinare. E invece noi dovremmo essere vicini l’uno all’altra attraverso vie impercettibili, spontaneamente, in profondo silenzio; non dovrebbe trattarsi in alcun modo di un frammento nel mosaico del vissuto destinato a spostare le altre tessere, ma di un’esperienza che si realizza senza dislocare nulla e senza doversi adeguare a quei contorni. Dovrebbe pur essere possibile e forse un giorno lo sarà davvero. Io sto già facendo qualcosa di analogo – qualcosa che si avvicina a quest’esperienza – e te ne ho parlato molte volte. Solo quando leggo la tua lettera, il passo del taccuino e tutte le pagine in cui improvvisamente trova espressione ciò che altrimenti resta inanimato e muto persino nei rapporti umani più intimi e personali, solo allora ti ho accanto a me. Ho l’esperienza più autentica del tuo vissuto, della tua esistenza, e non c’è nulla al mondo che mi convinca che nel frattempo da te si sia staccato un frammento, per quanto minuscolo, perché dentro alla tua scrittura tu ti preservi totalmente, integro e sano, come colui che sperimenta al massimo grado di profondità l’essenza dell’umano. Sì, allora ti ho, ti vedo di nuovo, ed è davvero una consolazione immensa sapere che puoi intraprendere questi viaggi segreti fino a me, fino a tutte le mie più intime percezioni dell’esistenza. Ma come posso comunicarti a mia volta questa indescrivibile vicinanza? In che modo posso dirti che in questa particolare condizione è quasi brutalmente indifferente se la via si delinea dalla beatitudine di vedersi consacrato al tutto o dal terrore di mischiarsi con ciò che non ci appartiene? Come posso trasmetterti la gioia indubitabile che in entrambi i casi l’uomo che si esprime è esattamente lo stesso – così come sempre il medesimo è l’uomo sulla croce e il risorto – quello stesso uomo che, scisso tra un beato possesso assoluto e il martirio di essere a sua volta posseduto, non poté fare altro che rinunciare a ciò che gli altri chiamano il proprio “sviluppo”, il proprio costante e proficuo cammino esistenziale. Sono fermamente convinta che non sia possibile modificare questo stato di cose e ne sono contenta, perché operare dei cambiamenti comporterebbe la più spaventosa delle fratture. Io credo che tu debba soffrire e soffrirai sempre. Non c’è nessuno che possa evitartelo, ma è possibile – sì, questo è possibile – che avere qualcuno accanto che lo sappia e partecipi alla sofferenza a volte faccia bene, a volte male. Sento che oggi sarei molto più dura con te di quanto non lo fossi un tempo (anche se in un modo del tutto diverso rispetto ad allora) e sento anche che in me sono maturi mille sguardi materni e tenerezze per te, per te soltanto, tu che sei l’unico in grado di percepirli e di goderne. Ma anche in questo caso questi due aspetti non sarebbero che un’unica identica cosa: ed è strano quanto mi sia evidente che l’intransigenza ne fa parte e non è disposta a cedere in grandezza. Ti allontana da me che io ti scriva questo? Ne sono certa: arriverà il giorno in cui saremo di nuovo molto felici insieme e lieti allo stesso modo di tutti i pericoli che la vita ha in serbo per ciascuno di noi due, separatamente.

Lou Andreas Salomé a Rainer Maria Rilke, del 13 gennaio 1913

Leggendo la corrispondenza tra Rilke e Lou Andréas-Salomé, con ogni probabilità una delle più belle di tutto il Novecento letterario, se ne ricava la sensazione potente di come fosse lei l’infermiera dell’anima del poeta, unica garanzia di redenzione dal mal de vivre, lei che governa le forze oscure dell’uomo e ne orienta guarigione e creazione. Lou è lì, luminosa, in quel crocevia tra la depressione e l’angoscia che Rainer le confessa, con metodica regolarità, nei suoi giorni di sterilità creativa, ed è perciò tanto l’interprete d’elezione dei suoi demoni quanto il baedeker più efficace per addentrarsi nell’abisso del suo intelletto poetico. Lou aveva il talento per essere amante e confidente già prima di diventare, negli anni cui risale questa lettera, l’allieva di Freud. La psicoanalisi però l’aveva imparata sul campo, avendo avuto una cavia d’eccezione per quasi dieci anni. Le lettere che si scrivono e i canti d’amore che lui le dedica sono una costellazione dentro cui tracciare le traiettorie di una tormentata evoluzione poetica. Rilke aveva un’ossessione: l’alienazione del proprio corpo. Immaginava un Altro da sé, subdolo e ambiguo, un simulatore dei suoi stati d’animo da cui scappare e, alla fine della corsa e della fiera, è sempre lei il suo rifugio. L’uomo si lascia guidare dai suoi consigli, e non solo nei momenti di disagio artistico, ma anche nella banalità del quotidiano, quando il dilemma può essere rappresentato dal gusto da preferire per la mousse da acquistare al Natur-Werk di Heiligendamm. Banana o mirtillo? La cosa bella è che, lungi dal volerlo psicanalizzare, al contrario, Lou cercò di scongiurare sempre ogni tentazione di trattamento. Qualsiasi intervento terapeutico dall’esterno avrebbe prodotto solo un’alterazione di quella corrente stabile che insieme avevano stabilito. La corrispondenza fu trentennale e mai la abbandonò la convinzione che si guarisce sempre da soli, che la terapia è già dentro ognuno, che il mostro che ci assedia da dentro è paradossalmente lo stesso che ci libererà, ma solo se sapremo familiarizzarci e farlo diventare creatività. Rainer si confessa con spietata e acuta sincerità, e non senza inevitabili accenti di autocommiserazione e vittimismo tipicamente maschili; si fa accanito esploratore degli intricati cunicoli della sua psiche, alla ricerca della propria arca perduta, anche se il physique du rôle è quello di un Indiana Jones dalla gracile costituzione e dal controllo invero precario della propria igiene mentale. È lei? Risponde sempre con un’intelligenza straordinariamente lucida e con una compassione insolitamente amorevole. Se non avesse avuto Lou, la sua abilità di penetrazione psicologica e sour tout l’obiettività che spesso manca alle relazioni amorose, specie se travolgenti, Rilke si sarebbe potuto attaccare a un tram, fatalmente destinato a farsi arrotare dalle ansie autodistruttive che aveva ereditato dall’infanzia. Invece, Lou lo legge come nessuna avrebbe saputo fare, come si dovrebbe fare in un rapporto d’amore fiduciario, senza eludere, se necessario, anche verità spiacevoli purché non le si faccia virare verso un linguaggio pseudo-scientifico da psicanalisti della domenica – ah, il sacrosanto incomparabile “buon senso”. Da qui discende, a cascata, lo stile di entrambi, la tersa densità di una scrittura con cui, nel momento in cui ci si apre e si comunicano le proprie esperienze per metterle nella condizione di essere comprese, le si affidano a un linguaggio in cui l’eloquenza della conversazione epistolare acquista la stessa dignità d’arte della prosa narrativa.

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Tacciono i boschi e i fiumi,
e ’l mar senza onda giace,
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna; 

e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose.
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.

Torquato Tasso, Tacciono i boschi e i fiumi, dalle Rime

Sarebbero tanti i motivi che ci farebbero considerare Torquato Tasso il primo poeta ‘moderno’; non ultimo il suo disordine psichico, diverso da quello degli artisti folli che l’hanno preceduto, a partire da Lucrezio. Lui fu un malato ‘moderno’ perché ‘moderna’ era la sua patologia psichica, quella maladie de l’âme non infrequente e non sorprendente dall’Ottocento in giù, se si pensa a quella lunga teoria di nevrotici che forma il Novecento letterario europeo. E non è un certo un caso che uno dei più grandi tra questi – Giacomo Leopardi – dichiarasse nei suoi confronti un sentimento di “fraternità”. Poeta dolce e tormentato, tragico e sublime, umile e geniale, in perenne e intimo conflitto tra croce e mezzaluna, tra ortodossia ed eresia, e con una non comune capacità di penetrazione psicologica (basterebbe pensare anche solo a quelle protofemministe di Clorinda, Armida ed Erminia, per comprendere dell’animo umano, e femminile in particolare, cose che solo i novecenteschi scavi archeologici nella psiche avrebbero rivelato con pari profondità). Tasso più autentico, a mio giudizio, non è però quello del poema sua gloria e condanna e su cui si ruppe la testa per una vita – la Gerusalemme Liberata -, ma quello lirico di favole come Aminta, laddove risulta più sincero proprio per l’abbandono che si concede alla vaghezza e alla musicalità che furono tregua e ristoro al proprio animo tormentato. E quello delle Rime e dei madrigali come quest’impalpabile Tacciono i boschi e i fiumi. Fu quella la sua vera natura, cui si abbandonò con struggimento e sensualità; il poeta, insomma, rugiadoso e malinconico, notturno e lunare, che lascia parlare per sé i suoni naturali e i sospiri, e che crea pieni e presenze evocando vuoti e silenzi. Tasso ad eccelso tasso di musicalità in versi perfetti come «e ’l mar senza onda giace» o «sien muti i baci e muti i miei sospiri» che da soli valgono tutta la produzione poetica di un qualsiasi autore contemporaneo che s’illuda di far poesia parlando di bavaglini e ammorbidenti. Con altri madrigali ha in comune il suo essere ‘frammento’ dell’animo con cui componeva il poema maggiore: da quell’effusione del sentimento nell’atmosfera notturna e nella pace lunare, da quel farsi della natura correlativo soggettivo che ciascun lettore ammiratore/amante di Erminia ricorda, deriva una sensazione di malinconia cosmica. Non ci sono brividi, tutto è immobile tranne l’emozione di baci «muti», quasi a fior di labbra, di sospiri attenuati per non turbare l’atmosfera di una natura che ha persino sospeso il suo ciclo per permettere a due creature di amarsi: le onde nel mare si fermano, il vento smette di soffiare, tutto tace, e nel tacere si libera, in slow motion – l’ultimo verso, lentissimo fino all’ultima sillaba – lo struggimento tenero dei sospiri d’amore.

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Ed io, se a volte di sí aspra vita
soffro, che i sensi ne son tutti offesi;
credi, non è la gravezza dei pesi,
è l’inutilità della fatica.


E tu questo lo sai, mia bella amica;
sai come in breve a consolarmi appresi.
Lina cui poco detti e molto chiesi
penso, e rinnovo la querela antica.


«Saperti amante e non poterti avere,
star lontano da te quando in cor m’ardi,
aver la lingua e non poter parlare,


udir quest’acqua e non chinarsi a bere,
correre in riga quando a lenti e tardi
passi vorrei pensosamente andare».

Umberto Saba, Durante una marcia 3

Saba conobbe Carolina (Lina) Wölfler, la sua moglie-musa, nel 1905, di passaggio a Trieste, mentre stava svolgendo il servizio militare. A quel tempo era già affetto da quella «nevrosi d’angoscia» che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e costretto a ricorrere alla psicanalisi. Un peso, in questo tipo di disagio, l’ebbero pure le precedenti delusioni sentimentali e la paura di non riuscire a trovare l’amore. Lo dice in una lettera a un amico un paio d’anni prima («…Tre donne io incontrai nel mio cammino degne d’amore. Ma la prima era un fantasma irraggiungibile, la seconda s’innamorò di un mio amico, allora era tale, e la terza ha quasi vent’anni più di me. Sembra impossibile ma è così…»). In effetti, aveva conosciuto una ragazza, fidanzata col suo amico violinista Ugo Chiesa. Si erano scambiati lettere, ma tutto era rimasto su un piano platonico. Fatto è che l’amico se n’era accorto e anziché – come dicono a Roma – corcare Umberto, picchia la ragazza. Il poeta ne rimase tanto scosso da essere angosciato da veri e propri incubi, legati al senso di colpa. Questo fino a quando, nella sua vita, non sarebbe entrata Lina «la più pia rosa d’ogni bontà» – «…Tu hai dato, Lina, uno scopo a quelle poche settimane che mi sono fermato a Trieste», le scriveva da Firenze il 23 dicembre 1905 -. Quattro anni dopo si sarebbero sposati e avrebbero usato, di comune accordo, i soldi messi da parte per il viaggio di nozze per stampare la prima silloge. Una vera e propria folgorazione, insomma, è l’incontro con la donna cui dedicherà molte poesie, nonostante non la ritenesse proprio una cima, anzi scherzasse pure sulla sua stupidità, giustificandola però con l’affermazione che altre erano le vie attraverso cui lei raggiungeva la poesia. C’è un simpatico aneddoto, a questo proposito, che la riguarda; è il 1945, c’è stata la Liberazione. Saba è a Roma mentre la moglie e la figlia Linuccia (e non è forse amore anche dare alla figlia il nome della moglie?) sono a Firenze. Il poeta conosce un militare inglese di nobili origini, imparentato con la famiglia reale, e sapendo che dovrà andare nel capoluogo toscano, gli affida una lettera per la famiglia. Una cosa alla Maria De Filippi di C’è posta per te, insomma. Preoccupato che Lina possa scambiarlo per un soldato qualsiasi, le spiega nella stessa missiva chi fosse il “postino”, pregandola di comportarsi di conseguenza. «Suffuru!» (zolfo), come si dice dalle mie parti: arriva il nobiluomo e Lina gli offre un bicchiere di vino e gli dà addirittura la mancia. Il duca di Norfolk, a onor del vero, ne rimase molto divertito. Questo per dire che le vie dell’amore sono piuttosto tortuose e non passano quasi mai dalla ragione. Quella di Saba per la moglie era una vera dipendenza, doveva a lei il fatto stesso di sopravvivere. In una lettera si confessa talmente depresso da lasciare intuire propositi suicidi dai quali l’avrebbe tenuto lontano proprio il pensiero di Lina – «Le tue carezze mi hanno fatto più bene assai di quanto tu possa immaginare e l’uomo e l’artista te ne ringraziano… Non pensare a tristezze ché s’io dovessi abbandonarmi al corso dei miei pensieri, la cintura dei pantaloni avrebbe già servito a qualcosa di diverso del suo uso comune. Invece, vivo e spero che un po’ di sole spunterà anche per me. Non ero forse quasi felice quando ero tra le tue braccia?». Lina, la «meravigliosa» protagonista del Canzoniere: sì, la stessa che nella sua più famosa poesia, quella che suscita tuttora molta ilarità tra gli studenti, Saba paragona a una gallina, a una giovenca gravida, a una cagna, a una rondine e a una formica, similitudini che oggi forse lo lascerebbero appeso e crocifisso sopra l’altare del body shaming. Non simboli di lei, ma forme della tenerezza che suscita la semplicità animalesca: «tu sei come una lunga | cagna…»; «lunga», nel senso di prona, è un verso bellissimo che non ci azzecca niente con l’idea dell’incomunicabilità di creature misteriose zoomorfe (alla maniera del Tozzi di Bestie), ma dice tutto del mistero, del silenzio, dell’equivocità dei sentimenti umani. La donna è tutto il suo mondo e, in effetti, nella sua poesia non c’è spazio per molto altro. Tutto il resto – la guerra, la Storia – è ridotto alla dimensione del privato. L’amò con una tenerezza unica, con una semplicità dimessa eppure universale, non immaginando i sentimenti, ma vivendoli e comunicandoli, come facevano i lirici greci o come faceva, alle origini della poesia italiana, un mistico come Iacopone da Todi (ma questa è un’altra storia). È lei la destinataria della struggente dichiarazione d’amore consegnata alle due terzine finali: «Saperti amante e non poterti avere, | star lontano da te quando in cor m’ardi, | aver la lingua e non poter parlare, | udir quest’acqua e non chinarsi a bere, | correre in riga quando a lenti e tardi | passi vorrei pensosamente andare». Quell’unione sarebbe durata tutta la vita, tra alti e bassi e fisiologiche crisi coniugali; Saba, dopo la morte della moglie, avrebbe resistito solo nove mesi, prima di seguirla.

88

«Infelice, la tua forza sarà la tua rovina; non hai pietà del figlio ancora bambino e di me, sventurata, che presto resterò vedova perché gli Achei ti uccideranno tra poco, assalendoti in massa; e se ti perdo, allora è meglio che muoia anch’io; non ci sarà più conforto per me se il tuo destino si compie, solo dolore. […] Tu, Ettore, tu mi sei padre e madre e fratello e sei anche il mio giovane sposo: abbi pietà di me, resta qui sulla torre, non fare del figlio un orfano, di me una vedova; […] Le rispose allora il grande Ettore dall’elmo splendente: «Donna, so anch’io tutto questo; ma terribile è la vergogna che provo davanti ai Troiani, alle Troiane dai lunghi pepli se, come un vile, mi tengo lontano dalla battaglia; me lo impedisce il mio cuore, perché ho imparato ad essere forte, sempre, e a combattere con i Troiani in prima fila, per la gloria di mio padre e per la mia gloria. Io lo so bene nel cuore e nell’animo: verrà il giorno in cui perirà la sacra città di Ilio e con essa Priamo e la gente di Priamo dalla lancia gloriosa. Ma al dolore dei Troiani io non penso, non penso ad Ecuba, al re Priamo, ai miei valorosi fratelli che cadranno nella polvere uccisi dai nemici. Io penso a te, a quando qualcuno degli Achei vestiti di bronzo ti priverà della tua libertà e ti trascinerà via in lacrime; a quando in Argo dovrai tessere stoffe per un’altra donna o porterai acqua dalle fonti di Messeide o di Iperea, contro il tuo volere, costretta dalla dura necessità; e forse qualcuno dirà vedendoti piangere: “È la sposa di Ettore che fra i Troiani domatori di cavalli era il più forte quando si combatteva intorno a Ilio”. Così diranno un giorno: e sarà un nuovo dolore per te, privata di un uomo che avrebbe potuto tenerti lontano il giorno della schiavitù. Ma possa io morire, possa ricoprirmi la terra prima che ti sappia trascinata in schiavitù, prima che debba udire le tue grida».

Così disse Ettore glorioso e verso il figlio tese le braccia. Ma si piegò il bambino contro il petto della bella nutrice, gridando impaurito alla vista del padre, atterrito dal bronzo, dal pennacchio dell’elmo che sulla cima vedeva ondeggiare, tremando. Sorrisero entrambi il padre e la madre; ed Ettore glorioso si tolse dal capo l’elmo splendente deponendolo a terra; poi prese tra le braccia il figlio, lo baciò e a Zeus e agli altri dei rivolse questa preghiera: «Zeus, e voi divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, che si distingua fra i Teucri per forza e valore, che regni sovrano su Ilio. E vedendolo tornare dalla battaglia un giorno qualcuno dirà: “È molto più forte del padre”. Lui tornerà portando le spoglie insanguinate dei nemici uccisi e la madre ne sarà lieta in cuore». 

Così disse e mise il figlio tra le braccia della sua sposa che lo accolse sul petto odoroso, e sorrideva, piangendo; ebbe pietà di lei l’eroe che, accarezzandola, disse: «Infelice anche tu, non affliggerti troppo nel cuore; nessuno potrà gettarmi nell’Ade contro il destino; io ti dico che nessun uomo può sfuggire alla sorte, sia valoroso, sia vile, una volta che è nato. Ma ora va a casa e torna alle tue occupazioni, al fuso e al telaio e alle ancelle ordina di badare al lavoro; alla guerra penseranno gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, ed io più di ogni altro». Così disse Ettore glorioso e sollevò l’elmo dalla chioma equina; si avviò verso casa la sposa, andava voltandosi indietro e piangeva a dirotto. Quando giunse alla bella dimora di Ettore uccisore di uomini, trovò dentro le ancelle e in tutte suscitò desiderio di pianto. Piangevano Ettore, vivo, nella sua casa; poiché non pensavano che sarebbe riuscito a sfuggire alle forti mani dei Danai e a ritornare indietro dalla battaglia. 

Omero, Iliade, dal libro VI, trad. di M. G. Ciani

L’Iliade è il poema di Achille. Lo è nel senso che tutto sembra parlare di lui, la sua presenza, la sua furia, la sua forza oscurano tutto il resto. Ma il vero gigante, di umanissima e moderna sensibilità, è Ettore; lo è nel senso che la sua totale mancanza di quella hybris, che è la cifra stessa dell’eroe per antonomasia dei poemi epici, vince alla distanza e fa giustizia dell’arroganza e della scriteriata follia del suo rivale («come un folle è costui e nessuno può eguagliare il suo furore», dice di lui l’indovino Eleno), facendone per questo un unicum nella letteratura antica. In una storia che parla inequivocabilmente e solo di guerra, un libro – il sesto – contiene una delle più belle scene d’amore che la mente di un narratore abbia potuto concepire. I Greci stanno dilagando, per i troiani si mette male e nemmeno gli dei, indifferenti per statuto, sono dalla loro parte. Ettore è un predestinato a morire; in cuor suo sa che, quando si ritufferà nella mischia da cui si è temporaneamente allontanato, dovrà affrontare Achille, e allora non ne uscirà vivo. Prima del momento della verità, però, torna alla reggia di Priamo, per chiedere alle donne di invocare l’aiuto di Atena, ma anche per incontrare per l’ultima volta la moglie Andromaca. Omero apparecchia l’incontro come farebbe il navigato sceneggiatore di una serie tv, procrastinandolo con una serie di stazioni in cui l’eroe «dall’elmo splendente» rivede tra le cinquanta stanze del palazzo le sorelle, poi la dolcissima madre Ecuba che gli offre del vino da donare a Zeus e con cui ristorarsi; quindi quel guerriero da Milano fashion week del fratello Paride, intento a lucidarsi le armi dimentico che la “fuitina” con Elena, conseguente alla sua foia, era stata la causa causans di tutto quell’inutile marasma. Ettore se lo cazzìa per bene – l’appellativo più delicato con cui l’apostrofa è «miserabile» -, con parole affilate come la punta della sua lancia, prima di rivolgersi ad Elena, consapevole anche lei a quel punto di avere abbracciato una causa persa. Quindi si rimette alla ricerca della moglie, ma non la trova subito, non perché sia al tempio con le altre donne, ma perché ha fatto la cosa più struggente e “normale” che una donna innamorata farebbe. È corsa piangendo, col figlio Astianatte in braccio, in cima alla torre che domina il campo di battaglia (Omero è anche uno straordinario regista ante litteram, con la sua straordinaria capacità di usare tutta la scala dei campi e dei piani, di montare campi e controcampi meglio di Steven Spielberg). Da lassù scruta il campo di battaglia per vedere se riesce a scorgere il marito tra i guerrieri. Ma non lo trova; torna allora indietro, e lo stesso fa il marito, ed entrambi vagano per le vie della città fino a quando s’incontrano alle sue porte. Ettore guarda il figlio. E sorride in silenzio. Cazzo! Sorride! Con una dolcezza disarmante, lui sporco di battaglia, coperto di sangue, trafelato, lui che ha avuto parole per tutti, fino a poco prima incazzato col fratello per le sorti a cui ha condannato la sua patria, sorride. Come farebbe qualsiasi padre davanti all’espressione innocente di un figlio. Lui patriota e padre (etimologicamente, la radice è la stessa) ha perso ora le parole e allora tocca alle moglie leggergli dentro quello che l’uomo non ha la forza di riconoscere. E cioè che madre e figlio cadranno in mano ai nemici. Cosa può dire una donna innamorata a un uomo che sta andando a suicidarsi, se non supplicarlo di non combattere, dichiarargli che senza di lui la vita non ha senso, che preferirebbe morire anche lei piuttosto che sapere il marito morto? Ma Ettore è un patriota e non c’è niente che possa spiegare il suo bisogno di morire anche per la sua famiglia. A questo punto cerca di prendere in braccio il figlio, ma questi, spaventato dall’armatura che non gli consente di riconoscere il padre, si spaventa. E che fa il padre? Si toglie l’elmo e lo posa a terra. Si è spogliato così della sua virilità d’ufficio ed è rimasto solo un uomo, un padre, un marito, con tutte le fragilità che gli assegna la sua natura e che non gli impone più il suo ruolo di eroe. I padri dovrebbero fare sempre questo con i figli: non spaventarli con la loro autorità, ma far sentire loro che sono capaci di risvegliare l’infanzia dentro di sé, saper essere come loro quando è necessario, e che, se non ci si spoglia delle armature, se non si smette di essere guerrieri, non si potrà essere buoni genitori. Ma Ettore fa di più: solleva il figlio in braccio, sopra di sé e formula l’augurio – udite udite – che possa essere migliore di lui («Zeus, e voi divinità del cielo, fate che […] un giorno qualcuno dirà: “È molto più forte del padre”». Capotta in una sola mossa tutta l’epica classica che non concepiva nemmeno per sbaglio che i figli potessero essere migliori dei loro avi. Ettore, per amore solo per amore, desidera invece proprio il contrario. Quel bambino che non sa ancora parlare, spaventato di fronte a un padre così impreparato di fronte al suo spavento, è riuscito a candeggiare la secolare ideologia dell’epica greca: far scommettere agli adulti che il futuro sarà migliore del passato e unire in un unico sentimento due esseri tanto diversi come una donna innamorata e un guerriero, ignaro quest’ultimo di essere, per questo, il padre di cui avrebbe bisogno ogni bambino.

89

I ragazzi che si amano si baciano in piedi 

Contro le porte della notte

E i passanti che passano li segnano a dito

Ma i ragazzi che si amano

Non ci sono per nessuno

Ed è soltanto la loro ombra 

Che trema nel buio

Suscitando la rabbia dei passanti

La loro rabbia il loro disprezzo i loro risolini 

la loro invidia

I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno

Loro sono altrove ben più lontano della notte

Ben più in alto del sole

Nell’abbagliante splendore del loro primo amore

Jacques Prevert, Les enfants qui s’aiment, da Spectacle, trad. di F. Bruno

Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout | Contre les portes de la nuit | Et les passants qui passent les désignent du doigt | Mais les enfants qui s’aiment | Ne sont là pour personne | Et c’est seulement leur ombre | Qui tremble dans la nuit | Excitant la rage des passants | Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie | Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne | Il sont ailleurs bien plus loin que la nuit | Bien plus haut que le jour | Dans l’éblouissante clarté de leur premier amour

Per molti – giovani soprattutto – Jacques Prévert è sinonimo stesso di poesia d’amore. Facile talvolta (anche troppo), la si può incontrare in una qualsiasi alluvione di citazioni dai social come nei bigliettini dei baci Perugina. Tanto spontanea e sincera quanto la domanda che si affaccia alla mente del lettore più smaliziato che alla poesia non chiede di comunicare, ma di alludere, di scavare dentro i nostri più ineffabili recessi: fu vera gloria? Sì, tutto sommato sì. Ne sono convinto, se ripenso al ragazzo che ero quando tremavo ai versi della più caramellosa poesia del francese (Cet amour), a quelle parole che miravano dritte e precise al cuore di un quattordicenne ignaro e lo facevano sporgere senza rete sull’abisso dell’amore, nel modo più diretto e immediato, elementare senza essere banale. Un poeta da taschino, insomma, utile come un sottogiacca da indossare in qualsiasi stagione, piacevole come una caramella alla frutta da rigirarsi tra lingua e palato, essenziale come i menu dei fast food che servono per lo più a saziarti. Insomma: uno che non ti fa gonfiare il cuore come Garcia Lorca o commuovere come Lee Masters, ma la cui complessità risiede altrove, nella capacità di attraversarlo per intero il sentimento, in ogni stazione: dal balenìo dell’istante in cui nasce, alla densità del ricordo, allo struggimento della fine. I «ragazzi che si baciano in piedi | Contro le porte della notte» erano i quattordicenni come me che non avevano ancora studiato la grammatica dell’amore e ne cercavano le sillabe nelle canzoni, come fa anche oggi qualsiasi ragazzo. E non ti faceva paura Prévert, come magari te ne faceva Dante quando andavi a scuola, perché la poesia te la avvicinava, te la rendeva familiare, ti metteva in mano una penna e sembrava dirti: «puoi dirlo anche tu, anzi: dillo». Anche tu cominciavi così a scrivere versi, non importa quanto maldestri. Prévert spogliava la letteratura di ogni complicazione, te la metteva in tasca e ti bastava frugarci con una mano per trovare tutte le ebbrezze di una vita che stava iniziando, di una vita in cui avevi appena finito di giocare con le automobiline o le bambole e iniziavi a trastullarti con l’amicizia, coi primi baci rubati in un vicolo, col profumo che ha la pelle quando si è giovani, col sale delle prime lacrime di un cuore infranto. E soprattutto imparavi a fregartene di quegli adulti che ti segnavano a dito e che avresti imparato più tardi a compatire, avendo capito che ciò che li spingeva a farlo era solo l’essersi dimenticati di cosa vuol dire essere ragazzi.

90

Un giorno incontriamo la persona giusta. Restiamo indifferenti, perché non l’abbiamo riconosciuta: passeggiamo con la persona giusta per le strade di periferia, prendiamo a poco a poco l’abitudine di passeggiare insieme ogni giorno. Di tanto in tanto, distratti, ci chiediamo se non stiamo forse passeggiando con la persona giusta: ma crediamo piuttosto di no. Siamo troppo tranquilli; la terra, il cielo non sono mutati; i minuti e le ore fluiscono quietamente, senza rintocchi profondi nel nostro cuore. Noi ci siamo sbagliati già tante volte: ci siamo creduti in presenza della persona giusta, e non era. E in presenza di quelle false persone giuste, cadevamo travolti da un tale impetuoso tumulto che quasi non ci restava più la forza di pensare: ci trovavamo a vivere come al centro d’un paese incendiato: alberi, case e oggetti divampavano intorno a noi. E poi di colpo si spegneva il fuoco, non restava che un po’ di brace tiepida: alle nostre spalle i paesi incendiati sono tanti che non possiamo più nemmeno contarli. Adesso niente brucia intorno a noi. Per settimane e mesi, passiamo i giorni con la persona giusta, senza sapere: solo a volte, quando rimasti soli ripensiamo a questa persona, la curva delle sue labbra, certi suoi gesti e inflessioni di voce, nel ripensarli, ci danno un piccolo sussulto al cuore: ma non teniamo conto d’un così piccolo, sordo sussulto. La cosa strana, con questa persona, è che ci sentiamo sempre così bene e in pace, con un largo respiro, con la fronte che era stata così aggrottata e torva per tanti anni, d’un tratto distesa; e non siamo mai stanchi di parlare e ascoltare. Ci rendiamo conto che mai abbiamo avuto un rapporto simile a questo con nessun essere umano; tutti gli esseri umani ci apparivano dopo un poco così inoffensivi, così semplici e piccoli; questa persona, mentre cammina accanto a noi col suo passo diverso dal nostro, col suo severo profilo, possiede una infinita facoltà di farci tutto il bene e tutto il male. Eppure noi siamo infinitamente tranquilli. E lasciamo la nostra casa, e andiamo a vivere con questa persona per sempre: non perché ci siamo convinti che è la persona giusta: anzi non ne siamo affatto convinti, e abbiamo sempre il sospetto che la vera persona giusta per noi si nasconda chissà dove nella città. Ma non abbiamo voglia di sapere dove si nasconde: sentiamo che ormai avremmo ben poco da dirle, perché diciamo tutto a questa persona forse non giusta con cui adesso viviamo: e il bene e il male della nostra vita noi vogliamo riceverlo da questa persona e con lei. Scoppiano fra noi e questa persona, ogni tanto, violenti contrasti: eppure non riescono a rompere quella pace infinita che è in noi. Dopo molti anni, solo dopo molti anni, dopo che fra noi e questa persona si è intessuta una fitta rete di abitudini, di ricordi e di violenti contrasti, sapremo infine che era davvero la persona giusta per noi, che un’altra non l’avremmo sopportata, che solo a lei possiamo chiedere tutto quello che è necessario al nostro cuore.

Natalia Ginzburg, I rapporti umani, da Le piccole virtù

Dovrebbe essere ormai pacifico, dopo decenni di rivendicazioni, che la femminilità non si possa misurare volgarmente sullo stereotipo dell’attitudine al temperamento emotivo e passionale, o dell’inclinazione all’abbandono e all’intenerimento sognante. L’essere donna di Natalia Ginzburg è tutto l’opposto, senza per questo difettare di femminilità profonda, se s’intende quest’ultima come l’espressione di un garbo timido, di una delicatezza che non esonda mai nel patetismo vischioso. I sentimenti che esprime sono sempre contenuti dal pudore e dalla discrezione e il modo in cui sono detti – lo stile – riflette questo tipo di connotazione psicologica. Rapida, essenziale, senza svolazzi lessicali e arabeschi sintattici, apparentemente scabra e disadorna, la scrittura di Ginzburg è concreta, ubbidisce a un senso quasi fisico dell’esperienza morale, e perciò stesso risulta più vera. L’opposizione tra Lei e Lui fa percepire immediatamente la reciproca irriducibilità; donne e uomini sono inevitabilmente differenti, due universi paralleli e non comunicanti tra i quali può ergersi, occasionalmente, un ponte che rende comunque possibile un incontro, sia pure a lungo termine. Il segreto della felicità è nell’accettazione consapevole di ciò che ci distingue più che in quello che accomuna, nel lungo e paziente talento di un’attesa che ci rivela come l’amore possa banalmente trovarsi persino al centro di una fitta ragnatela di abitudini.

91

Urlava attorno a me la via, senza pietà.
Alta, snella, in gramaglie, sovranamente triste,
con sontuosa mano sollevando le liste
dell’abito, guarnito di ondosi falbalà,
e con gamba di statua, passò una donna: vidi,
bevvi nell’occhio suo, con spasimi d’insano,
come in un cielo livido, gravido d’uragano,
dolcezze ammalianti e piaceri omicidi.
Fu un lampo… poi la notte. Fuggitiva beltà,
nel cui sguardo, all’istante, l’anima mia risorse,
non ti vedrò più dunque che nell’eternità?
Altrove, e via di qui! Troppo tardi! mai, forse!
Poiché corriamo entrambi a ignoto e opposto sito,
o tu che avrei amato, o tu che l’hai capito!

Charles Baudelaire, Una passante, da I fiori del male (trad. G. Bufalino)

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet;
Agile et noble, aves sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
Un éclair… puis la nuit! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?
Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être!
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!

La passante di Baudelaire, ovvero il moderno mito dell’innamoramento-flash. Si può incontrare una donna per strada, scorgerla in una moltitudine come per epifania, perderla di vista poiché risucchiata dal movimento della folla e vagheggiarla per una vita senza avere più l’occasione di incontrarla di nuovo? Dal XIX secolo in poi accade più frequentemente di quanto non s’immagini. È l’anonimato metropolitano, il ritmo della città-formicaio, il suo frastuono, che sembrano disporre a questo tipo di stordimento; non è un topos inventato dall’autore dei Fiori del male – quello della bellezza fugace – ma è come se, dopo di lui, diventasse un’ossessione, l’inquieta testimonianza dello smarrimento dell’identità e la sinopia delle contemporanee teorizzazioni sulla modernità liquida e sulla provvisorietà delle relazioni. Ingredienti: una sosta – a un crocicchio, alla fermata del bus, sul marciapiedi di una stazione ferroviaria -; uno sguardo come un lampo («Un éclair…», che evoca sia la luce degli occhi sia il suo passaggio fulmineo come una meteora); una distrazione che risucchi quella chiarità nel buio («… puis la nuit!»). Frullare tutto, servire freddo e sorseggiare per un tempo lungo, addirittura eterno («Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?»). La protagonista del sonetto baudelairiano è una figura longilinea e statuaria che attraversa la strada, solo apparentemente inconsapevole della seduzione che esercita, ma la sua singolarità è la vedovanza. È il suo luttuoso outfit, con gli ondosi falbalà della gramaglia simili alle increspature di un mare in cui annegare, a farla assomigliare a una dark lady da film noir: quel “nero” che Baudelaire definisce, nel Salon del 1846, «tegumento dell’eroe moderno». Lì lo scrittore parla di uomini, in verità, dei loro abiti, per cui quel colore, associato alla donna, proietta un’allure virile che la rende, per ciò stesso, minacciosa, inquietante. In quanto vedove sono libere, indipendenti e non sottomesse a mariti. Quanto basta a turbare una mascolinità che sarà via via più sempre terremotata. Dopo Baudelaire, in letteratura, sarà tutto un andirivieni di passanti, una di loro traghetterà anche in musica, in una canzone di Georges Brassens, prima che il nostro Fabrizio De André dedichi la sua Le passanti «ad ogni donna pensata come amore / in un attimo di libertà / a quella conosciuta appena / non c’era tempo e valeva la pena / di perderci un secolo in più». Del resto, mi convince ancora l’idea che non esista amore più duraturo di quello – vagheggiato e non corrisposto – per un fantasma di donna.

92

Il parlare che, in quel paese, s’era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse; il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno piú bello dell’altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: – eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualcosa di meglio. Cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n’è per tutto –. Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto.
Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo, queste cose; cosí non c’era gran male fin lí. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e piú a lungo tra sé. «E cosa v’importa a voi altri? E chi v’ha detto d’aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v’ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V’ho detto mai che v’avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle».

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. 38

Lucia Mondella conquista il proscenio – in fisica evidenza – nel secondo capitolo dei Promessi sposi. A onor del vero, Don Lisander ammette una sua bellezza esteriore alquanto «modesta» che ben si accorda all’intima «modestia un po’ guerriera delle contadine», con un sorriso che ha la malizia di un tubetto del dentifricio. Ma è pur sempre bellezza, ornata com’è di «lunghi e neri sopraccigli», di «neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura» che si ravvolgono «dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce», e persino «esaltata dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso», da «quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare». Legittimo, quindi, per il lettore figurarsela quantomeno graziosa, come nelle illustrazioni di Francesco Gonin o nelle sue tante successive restituzioni cinematografiche. Non fosse altro che, altrimenti, non si spiegherebbe la fregola di quel Don Giovanni mancato di Don Rodrigo che alla propria impotenza seduttiva non può che opporre la classica prepotenza machista, innescando così il tourbillon di peripezie a cui devono andare incontro due sventurati giovani per riuscire a coronare il loro dimesso sogno d’amore. Ma Manzoni è così, gioca continuamente con le aspettative del lettore, puntualmente frustrandole, lanciando la pietra e nascondendo la mano. Lo fa pure con la storia della monaca di Monza che, in potenza, farebbe scatenare le più torbide fantasie erotiche, salvo poi a usare la penna come un estintore anziché come un cerino. Lo stesso accade con Lucia la cui virginale bellezza, dissimulata per tutto il romanzo, viene addirittura smentita nelle pagine conclusive dell’opera, quando la ragazza torna in scena addirittura «brutta affatto» – vox populi – suscitando la piccata reazione di Renzo che, alle maldicenze degli abitanti del piccolo paese del bergamasco dove si sono rifugiati, oppone non solo le sacrosante morali del chissenefrega e dello sticazzismo («E cosa v’importa a voi altri? […] Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle»), la fiera rivendicazione di un classico principio kantiano, e cioè che la bellezza non è qualità oggettiva, ma caratteristica attribuita dagli uomini in modo soggettivo. E che, in sostanza, quando si ama, trasfiguriamo l’oggetto d’amore nella pura essenza del nostro desiderio, dimostrando al contempo che il non detto e il non visto sono infinitamente più attrattivi di ogni sfacciata esibizione di sé.

93

Quei giorni perduti a rincorrere il vento
a chiederci un bacio e volerne altri cento
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai

e tu che con gli occhi di un altro colore
mi dici le stesse parole d’amore
fra un mese fra un anno scordate le avrai

amore che vieni da me fuggirai
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai

venuto dal sole o da spiagge gelate
perduto in novembre o col vento d’estate
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai.

Fabrizio De Andrè, Amore che vieni amore che vai

All’amore non si addice la precisione o l’esattezza, non è carne che si possa incidere con un bisturi. Se quando ti innamori, non ti senti franare il terreno sotto i piedi e non barcolli come un ubriaco, sopraffatto dalla vertigine, probabilmente non sei ancora pronto ad amare. Questa condizione d’incertezza e di confusione è uno stereotipo solitamente declinato al femminile, ma quale essere umano può dirsene immune? De André, comunque, è uno di quei rari autori che riesce a confonderti tutte le idee; molte sue canzoni attraversano il tema, ma alla fine ci lasciano più dubbi che rassicurazioni. Del resto, Boccaccio l’aveva già detto nel proemio del Decameron, quando si autodenunciava come uno che, per poco, non era diventato pazzo a causa di una donna, salvo poi a scoprire che persino da questo genere di follie si può guarire, che anche nel più precario degli smottamenti esistenziali si può riuscire a non perdere l’equilibrio. E non servono terapie d’urto, ma il semplice conforto delle parole, la psicoterapia di una saviezza appena appena elementare. Me lo ripeteva, anni fa, il mio falegname – terza media e quarant’anni passati in bottega a piallare e smussare gli spigoli delle più legnose complicazioni: «ntà vita ci voli sempri ‘n pocu ‘i buon sensu». Quando si riesce ad applicarlo, le cose ti appaiono miracolosamente chiare e puoi persino scoprire che l’amore, come tutte le cose della vita, può nascere e morire per naturale causalità. E quando finisce, si placherà da sé il tormento del «non posso vivere senza di lui/lei» per lasciare il posto a domande quali: «ma come ho fatto a innamorarmi di quello/a?», «che c’azzeccava con me?». In amore vige la legge, già enunciata da Boccaccio, della mutevolezza incessante e dell’eterna ciclicità; De André la ribadisce, quasi a voler dire che quella precarietà che asseconda le relazioni è frutto non già dell’Amore, ma del Desiderio e che, paradossalmente, non facciamo che amare sempre, in loop, i nostri stessi desideri. Cosa può significare il suo «io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai», se non che l’innamoramento è la condizione di sanità mentale più vicina alla follia, essendo questa stessa paradosso?

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Ieri ti ho baciato sulle labbra.
Ti ho baciato sulle labbra. Intense,
rosse. Un bacio così corto
durato più di un lampo,
di un miracolo, più ancora.
Il tempo
dopo averti baciato
non valeva più a nulla
ormai, a nulla
era valso prima.
Nel bacio il suo inizio e la sua fine.
Oggi sto baciando un bacio;
sono solo con le mie labbra.
Le poso
non sulla bocca, no, non più
– dov’è fuggita? –
Le poso
sul bacio che ieri ti ho dato,
sulle bocche unite
dal bacio che hanno baciato.
E dura questo bacio
più del silenzio, della luce.
Perché io non bacio ora
né una carne né una bocca,
che scappa, che mi sfugge.
No.
Ti sto baciando più lontano.

Pedro Salinas, La voce a te dovuta, XXXVI

Esiste un’unità di misura del bacio? Qual è la sua giusta durata? Come se ne calcola l’intensità? Si potrebbe dire che esso duri per tutto il tempo nel quale se ne avrà memoria («E dura questo bacio | più del silenzio, della luce»). Così è almeno per il primo che, di solito, non si dimentica mai perché è come quell’istante – canta Fossati, «in cui scocca l’unica freccia | Che arriva alla volta celeste | E trafigge le stelle». La più travolgente delle passioni potrà finire, risucchiata nel gorgo del disincanto, avvelenata dalle tossine della recriminazione e del rancore, ma anche il finale più amaro non basterà a far svanire, nemmeno a distanza di anni, il ricordo di quell’istante destinato a diffondere per sempre la sua essenza, come ineffabile petricore. E questo perché esso si sottrae a qualsiasi altro momento di quella storia, in quanto ‘punto’ in cui due destini possono incontrarsi e riconoscersi, e sopravvivere a loro stessi anche nell’assenza. Non contano la scenografia e l’ora del giorno in cui si colloca – siano esse il ponte di una nave che volge la sua prua verso il tramonto o un capanno degli attrezzi dalla cui finestrella filtra la luce dell’alba, la parigina esplanade del Trocadéro al meriggio o il posteggio di un centro commerciale a mezzogiorno – poiché la funzione del primo bacio è quella di operare una ‘trasfigurazione’. Memorabile, in questo senso, è il modo in cui il foscoliano Jacopo Ortis descrive il suo primo e unico bacio con l’amatissima Teresa: «Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia». Di questo genere è il bacio di cui scrive il poeta spagnolo Pedro Salinas; il suo coup de foudre con l’ispanista Katherine Whitmore, scoccato all’università di Madrid, ha qualche analogia con quello tra Clizia ed Eugenio Montale che, negli stessi anni, scriveva i Mottetti, altro bellissimo canzoniere d’amore orbitante attorno al motivo dell’assenza. È di una storia tramata soprattutto di parole scritte, infatti, orbitante attorno al vuoto di trepidanti attese, tenuta in vita a lungo dalla gioia di fugaci incontri, che si parla. Ogni poesia della luminosa raccolta di Salinas è un teorema amoroso in sedicesimo e dei baci La voce a te dovuta traccia una fenomenologia in cui sono quasi riassunte le fasi stesse dell’amore: dall’allegria del primo, con cui è l’esistenza stessa a rinominarsi – incipit vita nova, direbbe Dante – all’astratta attesa che genera l’affanno e il desiderio di trovare nei baci successivi il perfetto punto di congiunzione tra corporeità e sentimento, fino all’assenza, in cui la fine dei baci si dissolve nella loro pura memoria («Oggi sto baciando un bacio»), per poi svanire in un bacio irripetibile, e ormai impossibile («Ti sto baciando più lontano»), ma in quanto tale ancor più vivo perché bruciante come inappagabile desiderio.

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Aventuroso carcere soave,
dove né per furor né per dispetto,
ma per amor e per pietà distretto
la bella e dolce mia nemica m’ave;

gli altri prigioni al volger de la chiave
s’attristano, io m’allegro: ché diletto
e non martìr, vita e non morte aspetto,
né giudice sever né legge grave,

ma benigne accoglienze, ma complessi
licenzïosi, ma parole sciolte 
da ogni fren, ma risi, vezzi e giochi; 

ma dolci baci, dolcemente impressi
ben mille e mille e mille e mille volte;
e, se potran contarsi, anche fien pochi.

Ludovico Ariosto, Rime, XIX (ed. Bianchi)

Fortunata prigione di dolcezze dove mi ha chiuso la bella e dolce mia nemica, non per furia vendicatrice o per dispetto, ma per amore e per pietà; gli altri prigionieri, al chiudere della mandata, s’intristiscono, io mi rallegro: perché aspetto il diletto e non il martirio, la vita e non la morte, e non un giudice severo o una legge grave, ma benevole accoglienze, abbracci voluttuosi, parole liberate da freni inibitori, risa, carezze e giochi; e dolci baci, dolcemente impressi ben mille e mille e mille volte; e se ancora potranno contarsi, sarebbero pochi.

Alessandra Benucci, la magnifica ossessione di Ariosto, va e viene continuamente dai suoi versi, come il carceriere che, con metodica regolarità, porta il pasto al sequestrato. Il “carcere soave” è un luogo fisico – la camera dei convegni erotici semiclandestini, nella casetta ferrarese di via Borgo Vado – in cui l’amata lo ha, probabilmente, posto al riparo da sguardi indiscreti (la “cameretta” del sonetto che, nelle Rime per il Canzoniere, precede questo non lascia àdito a dubbi), e la stessa situazione immaginata è da “sindrome di Stoccolma”: l’ostaggio aspetta con ansia di sentire il rumore che farà la serratura della cella in cui è rinchiuso, ma anziché farsi prendere dall’ansia, prova sollievo fino a trepidare all’idea di incontrare chi lo ha rinserrato. Chi l’ha detto che soffrire per amore sia un male? Massimo Troisi – di Pensavo fosse amore e invece era un calesse – direbbe: «lasciatemi soffrire tranquillo, voglio solo soffrire bene». La luminosa e calda schiavitù di cui canta Ariosto, come quella che fingeva per i suoi eroi nelle isole incantate dell’Oceano, è piuttosto, una condizione elettiva che fa vivere come un privilegio ciò che agli altri appare come un tormento (ma qui il poeta demolisce la concezione penitenziale dell’amore che, da Petrarca, smotta fino al Cinquecento). E a riprova della sua tesi, l’autore delle Rime per il Canzoniere convoca, nell’ultima terzina – insopprimibile vezzo classicheggiante tipico dell’epoca – due autori (Catullo a Properzio) che cita in filigrana, con abile e liberatoria crasi intertestuale: i «dolci baci, dolcemente impressi | ben mille e mille e mille e mille volte» traducono i catulliani «basia mille, deinde centum / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum» del quinto carme, mentre il «se potran contarsi, anche fien pochi» del verso finale evoca l’«omnia si dederis oscula, pauca dabis» di un famoso carme properziano (II 15). Il “carcere”, perciò, allude anche a una condizione esistenziale ‘resiliente’ (mi si perdoni l’abusato aggettivo da élite del supermercato) che, anche nel più bruciante dei tormenti, fa volgere lo sguardo piuttosto alle gioie dell’amore: ai baci, agli abbracci, al linguaggio senza freni inibitori (leggasi: dirty talking), alle risa, alle carezze, ai giochi.

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A l’aire claro ò vista ploggia dare,
ed a lo scuro rendere clarore;
e foco arzente ghiaccia diventare,
e freda neve rendere calore;

e dolze cose molto amareare,
e de l’amare rendere dolzore;
e dui guerreri in fina pace stare,
e ’ntra dui amici nascereci errore.

Ed ho vista d’Amor cosa più forte:
ch’era feruto, e sanòmi ferendo;
lo foco donde ardea stutò con foco;

la vita che mi dè fue la mia morte,
lo foco che mi stinse ora ne ’ncendo:
d’amor mi trasse e misemi in su’ loco.
Dal cielo sereno ho visto cadere pioggia,
ed emettere bagliore di lampi;
e la folgore trasformarsi in grandine
e dai cristalli nivei prodursi calore;

e dolci cose diventare amare,
e dell’amare rendere dolcezza;
e due nemici restare in una pace perfetta,
e tra due amici generarsi discordia.

E dell’Amore ho visto una cosa grandiosa:
che io ero ferito e, ferendomi, mi guarì;
spense col fuoco il fuoco di cui bruciavo;

la vita che mi diede fu la mia rovina,
ora brucio dello stesso fuoco che già mi uccise:
mi ha tolto dalle pene d’amore per mettermi di nuovo in esso.

Giacomo da Lentini, A l’aire claro ò vista ploggia dare

La figura dell’Amore si direbbe essere l’ossimoro: mentre ci dà la vita ci consuma, ci innalza per poi abbatterci. È cura e malattia, vita che ci strappa alla morte e che ad essa ci riconsegna. Insomma, l’Amore si cura con l’amare, come suggerisce la leggenda – saccheggiata dalla poesia provenzale – della lancia di Peleo che guariva, con un secondo colpo, le ferite inferte dal primo. Ne è convinto anche il notaro Giacomo da Lentini che paragona l’esperienza a eccezionali fenomeni fisici ed atmosferici, in cui gli effetti sembrano contraddire le cause. Certo, può capitare tal fiate di vedere piovere col sole e riempirsi di luce la notte, ma come può un fulmine trasformarsi in ghiaccio o darsi calore dalla neve? Non era certo stolido il poeta; quel che a noi sembra incongruo era comune credenza nel Medioevo: il processo di congelamento fa sì che si produca calore dalla neve per mezzo della riflessione della luce solare. Quest’attenzione ai principi scientifici che governano i sentimenti era, altresì, usata prassi (vi ricorreranno ampiamente, tra l’altro, Guido Cavalcanti e Dante) e, almeno fino a Galilei, i poeti faranno largo uso di metafore scientifiche per spiegare qualcosa di ontologicamente non riducibile a teoria, qual è l’Amore. Lo stesso notar Giacomo, in un altro sonetto (Sì come il sol manda che la sua spera), paragona la freccia d’amore che passa attraverso gli occhi dell’amante alla luce che attraversa il vetro senza romperlo fisicamente. Ma il poeta di Lentini alzerà sempre più l’asticella, intensificando la tensione tra desideri sacri e profani, in uno dei suoi sonetti più famosi (Io m’aggio posto in core a Dio servire) in cui dirà qualcosa del tipo: io, Giacomo, voglio sì servire Dio per guadagnarmi un posto in Paradiso, ma sotto sotto non sono poi tanto sicuro di volerci andare, se questo vorrà dire allontanarmi dalla persona che amo.

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È stato detto che il silenzio è una forza; in un senso affatto diverso lo è, e terribile, nelle mani di coloro che amiamo. Il silenzio accresce l’ansia di chi aspetta. Niente ci attira verso una persona come ciò che ci separa da lei, e quale barriera è più insormontabile del silenzio? È stato detto, anche, che il silenzio è un supplizio, e capace di spingere alla follia chi, in una prigione, vi sia sottomesso. Ma che supplizio spaventoso – ben più che il doverlo serbare – è il doverlo subire da parte di chi si ama! «Cosa starà facendo, si chiedeva Robert, per tacere così? Non c’è dubbio, mi sta tradendo con un altro!» E si chiedeva anche: «Che cosa le ho fatto perché ora taccia così? Forse mi odia, e per sempre». E accusava se stesso. Il silenzio lo faceva impazzire, in effetti, di gelosia e di rimorso. Del resto, più crudele di quello delle prigioni, un silenzio siffatto è esso stesso una prigione. Una paratia immateriale, certo, ma impenetrabile, questo strato d’atmosfera vuota che i raggi visivi dell’abbandonato non possono attraversare. C’è forse una luce più terribile del silenzio, che ci fa vedere non un’assente, ma mille, ciascuna nell’atto di consumare un diverso tradimento? Quel silenzio, a volte, in un brusco soprassalto, Robert credeva che fosse lì lì per interrompersi, che la lettera attesa stesse per arrivare. La vedeva, eccola, spiava ogni rumore, e, già placato, mormorava: «La lettera! la lettera!». Dopo aver intravisto, così, un’immaginaria oasi di tenerezza, si ritrovava a trascinarsi nel deserto reale del silenzio senza fine.

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto. I Guermantes

Nella Recherche di Proust, Robert de Saint-Loup ha interrotto bruscamente la relazione con l’amante; la fine di una storia può essere un balsamo che allevia i patimenti e le angosce che solitamente accompagnano i naufragi sentimentali. Quella stazione esistenziale in cui il personaggio sperimenta finalmente la tregua dall’ansia («è una cosa così dolce che la rottura, una volta che gli si rivelò come definitiva, assunse per lui un po’ dello stesso fascino che avrebbe avuto una riconciliazione») si rivela, però, solo una sosta provvisoria, il preludio a un’esperienza più terribile di qualsiasi turbolenta crisi di coppia: quella del “silenzio d’amore”. Vale a dire quella zona grigia, quell’occhio opaco in cui l’assenza dell’amata genera ogni genere di dubbio, mette in moto la giostra delle supposizioni («una complicazione di carattere secondario, i cui flussi era lui stesso a produrre incessantemente»), dà la stura a una ridda di ipotesi tra le più svariate: vorrà riavvicinarsi? starà aspettando un segno? e se, nell’attesa, volesse vendicarsi concedendosi ad altri? un messaggio potrebbe bastare a scongiurare questa fatalità? quanto tempo passerà prima che qualcun altro la faccia propria, ostinandosi a indugiare nell’attesa? Di questo genere sono le domande, inevitabilmente senza risposta, di Robert che, in silenziosa attesa, finisce «col rendere folle il suo dolore». Anche in absentia si può perpetuare un dialogo con l’immagine che si vuole preservare, si mantiene una personale forma di prossimità ideale in cui la preoccupazione principale è di mantenere integra la forma che si è data all’amore, fin quando questo ha resistito. Ma la distanza, anche fisica, determina un’angoscia che è il terreno di coltura dell’immaginazione, tirannica Gorgone in agguato, pronta a tessere l’intricato e torvo arabesco della gelosia.

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Che questa sia passione dentro nata, manifestamente il ti mostro, perciò che, se sì sottilmente volemo guardare lo vero, quella passione non nasce d’alcuna cosa fatta, ma da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta, quella passione procede. L’uomo, quando vede alcuna acconcia ad amare e al suo albitrio formata, di presente comincia a desiderarla nel cuore, e poi, quante volte pensa di quella, tanto maggiormente nel suo amore arde, infino che diviene a pensare le fazioni di quella e distinguere le membra e immaginare gli suoi atti e disegnare per pensieri le segrete cose de’ membri segreti e disiderare d’usare lo uficio di ciascuno membro di quella. Dappoi che per pensieri è divenuto a questa piena congiunzione delle cose segrete, lo amore non sa tenere gli suoi freni, ma incontanente procede all’atto e l’aiutorio cerca di messo mezzano e come e ’l luogo e ’l tempo possa trovare acconcio a parlare, e più, che la brieve ora gli pare più che uno anno, perché all’amante niente gli par fatto sì tosto come vorrebbe: e molte cose l’incontrano in questo modo. Adunque, è quella passione dentro nata per pensamento di cosa veduta. A commuovere ad amore non basta ciascuna pensagione, ma conviene che sanza modo sia, imperciò che pensagione con modo non suole alla mente ritornare, sicché amore non può nascere di quella. 

Andrea Cappellano, De Amore, cap. I

Come si amava nel XII secolo? Come oggi e come in tutti i secoli della storia dell’uomo. Ma è in quel torno di tempo che viene concepito un trattato fondamentale per capire che la disciplina dell’amore sopravvive immutata nella storia dell’uomo e, soprattutto, genera poesia. Lo si deve a tale Andrea “Cappellano”, secondo alcuni ciambellano del re di Francia Filippo II Augusto, secondo i più attivo alla corte di Maria di Champagne, figlia di quell’Eleonora d’Aquitania alla cui famiglia si deve – scusa, se è poco – la nascita e il diffondersi in tutta Europa della lirica trobadorica. Insomma, non si capirebbe un bel po’ della poesia dei siciliani, di Guido Cavalcanti, come pure di Paolo e Francesca nel V dell’Inferno dantesco, senza aver letto il De Amore. Non si capirebbe, cioè, quanto assoluta e totalizzante sia la passione d’amore e come sovente sia destinata a restare per lo più insoddisfatta, poiché il desiderio eccede sempre la possibilità di essere pienamente soddisfatto. Perché l’amore nasce da un’ossessione del pensiero («da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta»): in principio è la “vista” dell’oggetto del desiderio a innescare il congegno esplosivo, ma perché questo diventi passione è necessaria quella che gli uomini del medioevo chiamavano vis cogitativa, cioè l’immaginazione interiore, quella che ci fa ripassare a memoria, ossessivamente, le fattezze, i gesti, le azioni quotidiane della persona amata, la sua presenza in situazione. Da qui, a cascata, tutte le sensazioni cui il discorso amoroso si associa, dall’attesa al timore, dalla speranza alla disillusione. Questo precipitato di fenomenologia sentimentale ha un’unica controindicazione, sinceramente antidemocratica: il suo autore non la riteneva proprio prerogativa di tutti tutti. Non dei ricchi e potenti né dei “rustici” (contadini e operai); vuoi perché i primi sono troppo presi da altre occupazioni per sopportare la lunga devozione che si deve a questo processo di affinamento dell’animo, mentre i secondi possono tutt’al più amare come «cavallo o mulo» (cioè «naturalmente») perché, se smettessero di lavorare, ne risentirebbe l’intera struttura economica. A fare il lavoro sporco dell’amore non restano, perciò, che gli sfaccendati professionisti dell’intelletto (poeti e professori, filosofi e artisti). Cappellano dixit.

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«Tògli quella maschera d’oro ardente

Con gli occhi di smeraldo».

«Oh no, mio caro, tu vuoi permetterti

Di scoprire se i cuori sian selvaggi o saggi,

Benché non freddi».

«Volevo solo scoprire quel che c’è da scoprire,

Amore o inganno».

«Fu la maschera ad attrarre la tua mente

E poi a farti battere il cuore,

Non quel che c’è dietro».

«Ma io debbo indagare per sapere

Se tu mi sia nemica».

«Oh no, mio caro, lascia andar tutto questo;

Che importa, purché ci sia fuoco

In te, in me?»

William B. Yeats, La maschera 

La poesia dell’irlandese William Butler Yeats, la cui cifra è quella dell’oscillazione tra simbolismo e occultismo, misteri iniziatici e criptiche epifanie, è qui insolitamente evidente. L’amore è tutto un inganno o piuttosto gli è intimamente connaturata la finzione, necessario compromesso per conferirgli quella patina d’ideale che è ciò da cui ci sentiamo fatalmente attratti? Recitare una parte non significa necessariamente mentire; in qualsiasi relazione c’è, almeno all’inizio della storia, una componente d’artificiosa ritualità che si esprime in più o meno elaborate strategie di seduzione. Quel grande laboratorio globale di chirurgia plastica dell’Ego che è Facebook, così come quel  salone di social make-up che è Instagram, non hanno fatto altro che pantografare questa componente istrionica – fatta di ammiccamenti e schermaglie, di abboccamenti e dissimulazioni, di gioco a nascondere e plateali coup de théâtre – che è il nutrimento stesso dell’amore 2.0. Siamo abbastanza smaliziati, ormai, da non aver nemmeno bisogno di fare la tara ai copioni di corteggiamento – tutti canzoni a manetta e citazioni da Coelho o D’Avenia, esplorazioni fotografiche ed emoji di cuori, soli e fiori – perché, come in teatro o al cinema, accettiamo di buon grado quel patto finzionale che, senza bisogno di antiacidi, ci fa digerire come vera una realtà che sappiamo non essere sempre tale. L’amore implica una certa dose di finzione che non dev’essere per forza menzogna. Si può amare veramente anche indossando una maschera perché ciò che copre il volto non è meno vero di ciò che ci sta sotto purché, alla prova del nove, «ci sia fuoco | In te, in me». 

100

S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?

Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?

Se bona, onde l’effecto aspro mortale?

Se ria, onde sí dolce ogni tormento?

S’a mia voglia ardo, onde ‘l pianto e lamento?

S’a mal mio grado, il lamentar che vale?

O viva morte, o dilectoso male,

come puoi tanto in me, s’io nol consento?

Et s’io ‘l consento, a gran torto mi doglio.

Fra sí contrari vènti in frale barca

mi trovo in alto mar senza governo,

sí lieve di saver, d’error sí carca

ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio,

e tremo a mezza state, ardendo il verno.

Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, CXXXII

Quel che ci affascina dell’Amore è il suo essere ontologicamente contraddittorio. Annosa questione: «di cosa parliamo quando parliamo d’amore»? Prima di Raymond Carver – e da che esiste memoria della poesia stessa – se lo sono chiesti tutti. Al tempo di Petrarca, la faccenda generava sovente delle “tenzoni” – me ne viene in mente una tra Jacopo Mostacci, Pier della Vigna e Giacomo da Lentini – ma qui è l’autore del Canzoniere a ingaggiare un’assillante disputa con sé stesso attraverso un fuoco di fila di interrogativi destinati a rimanere, inevitabilmente, senza risposta. Più facile è procedere per negazione: an sit, quid sit («S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?»). Il movente l’aveva spiegato Andrea Cappellano: l’Amore muove ex visione et immoderata cogitatione, come prodotto di un cortocircuito tra vista e memoria attivata da una lontananza, e si esprime in forma di patologia che causa brividi di freddo quando c’è caldo e vampate nei mesi rigidi (è l’efficace ossimoro fisiologico del verso finale: «e tremo a mezza state, ardendo il verno»). La volontà di non amare serve a poco («come puoi tanto in me, s’io nol consento?») perché l’innamorato è, convenzionalmente, un navigante che deve governare una nave tra marosi in tempesta. Per cui la quidditas non può che essere la resa, il lieve e lieto naufragio nell’oceano della rassegnazione.