Lou e Rainer

Come potrei trattenerla in me,
la mia anima, che la tua non sfiori;
come levarla, oltre te, ad altre cose?
Ah, potessi nasconderla in un angolo
perduto della tenebra, un estraneo
rifugio silenzioso che non seguiti
a vibrare se vibri il tuo profondo.
Ma tutto quello che ci tocca, te
e me, insieme ci prende come un arco
che da due corde un suono solo rende.
Su qual strumento siamo tesi, e quale
violinista ci tiene la mano?
O dolce canto.

Rainer Maria Rilke, Canto d’amore, trad. di G. Cacciapaglia

Caro Rainer,

la tua lettera, che mi è stata appena recapitata, è qui davanti a me e mi sembra faccia parte di questa prima neve d’inverno che si stende a perdita d’occhio davanti alle finestre e sui giardini circostanti, tale è l’intensità con cui mi parla della lontananza da te, la lontananza di cui scrivi, che non dovrebbe esistere. Io l’avverto fortemente, Rainer, è una lontananza puramente spaziale, e vivo come assurdo il fatto che mi risulti insormontabile. Salvo poi ricorrere al treno e a tutti i possibili dispendi di energia per improvvisare un incontro a data da destinare. E invece noi dovremmo essere vicini l’uno all’altra attraverso vie impercettibili, spontaneamente, in profondo silenzio; non dovrebbe trattarsi in alcun modo di un frammento nel mosaico del vissuto destinato a spostare le altre tessere, ma di un’esperienza che si realizza senza dislocare nulla e senza doversi adeguare a quei contorni. Dovrebbe pur essere possibile e forse un giorno lo sarà davvero. Io sto già facendo qualcosa di analogo – qualcosa che si avvicina a quest’esperienza – e te ne ho parlato molte volte. Solo quando leggo la tua lettera, il passo del taccuino e tutte le pagine in cui improvvisamente trova espressione ciò che altrimenti resta inanimato e muto persino nei rapporti umani più intimi e personali, solo allora ti ho accanto a me. Ho l’esperienza più autentica del tuo vissuto, della tua esistenza, e non c’è nulla al mondo che mi convinca che nel frattempo da te si sia staccato un frammento, per quanto minuscolo, perché dentro alla tua scrittura tu ti preservi totalmente, integro e sano, come colui che sperimenta al massimo grado di profondità l’essenza dell’umano. Sì, allora ti ho, ti vedo di nuovo, ed è davvero una consolazione immensa sapere che puoi intraprendere questi viaggi segreti fino a me, fino a tutte le mie più intime percezioni dell’esistenza. Ma come posso comunicarti a mia volta questa indescrivibile vicinanza? In che modo posso dirti che in questa particolare condizione è quasi brutalmente indifferente se la via si delinea dalla beatitudine di vedersi consacrato al tutto o dal terrore di mischiarsi con ciò che non ci appartiene? Come posso trasmetterti la gioia indubitabile che in entrambi i casi l’uomo che si esprime è esattamente lo stesso – così come sempre il medesimo è l’uomo sulla croce e il risorto – quello stesso uomo che, scisso tra un beato possesso assoluto e il martirio di essere a sua volta posseduto, non poté fare altro che rinunciare a ciò che gli altri chiamano il proprio “sviluppo”, il proprio costante e proficuo cammino esistenziale. Sono fermamente convinta che non sia possibile modificare questo stato di cose e ne sono contenta, perché operare dei cambiamenti comporterebbe la più spaventosa delle fratture. Io credo che tu debba soffrire e soffrirai sempre. Non c’è nessuno che possa evitartelo, ma è possibile – sì, questo è possibile – che avere qualcuno accanto che lo sappia e partecipi alla sofferenza a volte faccia bene, a volte male. Sento che oggi sarei molto più dura con te di quanto non lo fossi un tempo (anche se in un modo del tutto diverso rispetto ad allora) e sento anche che in me sono maturi mille sguardi materni e tenerezze per te, per te soltanto, tu che sei l’unico in grado di percepirli e di goderne. Ma anche in questo caso questi due aspetti non sarebbero che un’unica identica cosa: ed è strano quanto mi sia evidente che l’intransigenza ne fa parte e non è disposta a cedere in grandezza. Ti allontana da me che io ti scriva questo? Ne sono certa: arriverà il giorno in cui saremo di nuovo molto felici insieme e lieti allo stesso modo di tutti i pericoli che la vita ha in serbo per ciascuno di noi due, separatamente.

Lou Andreas Salomé a Rainer Maria Rilke, del 13 gennaio 1913

Leggendo la corrispondenza tra Rilke e Lou Andréas-Salomé, con ogni probabilità una delle più belle di tutto il Novecento letterario, se ne ricava la sensazione potente di come fosse lei l’infermiera dell’anima del poeta, unica garanzia di redenzione dal mal de vivre, lei che governa le forze oscure dell’uomo e ne orienta guarigione e creazione. Lou è lì, luminosa, in quel crocevia tra la depressione e l’angoscia che Rainer le confessa, con metodica regolarità, nei suoi giorni di sterilità creativa, ed è perciò tanto l’interprete d’elezione dei suoi demoni quanto il baedeker più efficace per addentrarsi nell’abisso del suo intelletto poetico. Lou aveva il talento per essere amante e confidente già prima di diventare, negli anni cui risale questa lettera, l’allieva di Freud. La psicoanalisi però l’aveva imparata sul campo, avendo avuto una cavia d’eccezione per quasi dieci anni. Le lettere che si scrivono e i canti d’amore che lui le dedica sono una costellazione dentro cui tracciare le traiettorie di una tormentata evoluzione poetica.

Rilke aveva un’ossessione: l’alienazione del proprio corpo. Immaginava un Altro da sé, subdolo e ambiguo, un simulatore dei suoi stati d’animo da cui scappare e, alla fine della corsa e della fiera, è sempre lei il suo rifugio. L’uomo si lascia guidare dai suoi consigli, e non solo nei momenti di disagio artistico, ma anche nella banalità del quotidiano, quando il dilemma può essere rappresentato dal gusto da preferire per la mousse da acquistare al Natur-Werk di Heiligendamm. Banana o mirtillo? La cosa bella è che, lungi dal volerlo psicanalizzare, al contrario, Lou cercò di scongiurare sempre ogni tentazione di trattamento. Qualsiasi intervento terapeutico dall’esterno avrebbe prodotto solo un’alterazione di quella corrente stabile che insieme avevano stabilito. La corrispondenza fu trentennale e mai la abbandonò la convinzione che si guarisce sempre da soli, che la terapia è già dentro ognuno, che il mostro che ci assedia da dentro è paradossalmente lo stesso che ci libererà, ma solo se sapremo familiarizzarci e farlo diventare creatività. Rainer si confessa con spietata e acuta sincerità, e non senza inevitabili accenti di autocommiserazione e vittimismo tipicamente maschili; si fa accanito esploratore degli intricati cunicoli della sua psiche, alla ricerca della propria arca perduta, anche se il physique du rôle è quello di un Indiana Jones dalla gracile costituzione e dal controllo invero precario della propria igiene mentale. È lei? Risponde sempre con un’intelligenza straordinariamente lucida e con una compassione insolitamente amorevole.

Se non avesse avuto Lou, la sua abilità di penetrazione psicologica e sour tout l’obiettività che spesso manca alle relazioni amorose, specie se travolgenti, Rilke si sarebbe potuto attaccare a un tram, fatalmente destinato a farsi arrotare dalle ansie autodistruttive che aveva ereditato dall’infanzia. Invece, Lou lo legge come nessuna avrebbe saputo fare, come si dovrebbe fare in un rapporto d’amore fiduciario, senza eludere, se necessario, anche verità spiacevoli purché non le si faccia virare verso un linguaggio pseudo-scientifico da psicanalisti della domenica – ah, il sacrosanto incomparabile “buon senso”. Da qui discende, a cascata, lo stile di entrambi, la tersa densità di una scrittura con cui, nel momento in cui ci si apre e si comunicano le proprie esperienze per metterle nella condizione di essere comprese, le si affidano a un linguaggio in cui l’eloquenza della conversazione epistolare acquista la stessa dignità d’arte della prosa narrativa.

A fior di labbra

Tacciono i boschi e i fiumi,
e ’l mar senza onda giace,
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna; 

e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose.
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.

Torquato Tasso, Tacciono i boschi e i fiumi, dalle Rime

Sarebbero tanti i motivi che ci farebbero considerare Torquato Tasso il primo poeta ‘moderno’; non ultimo il suo disordine psichico, diverso da quello degli artisti folli che l’hanno preceduto, a partire da Lucrezio. Lui fu un malato ‘moderno’ perché ‘moderna’ era la sua patologia psichica, quella maladie de l’âme non infrequente e non sorprendente dall’Ottocento in giù, se si pensa a quella lunga teoria di nevrotici che forma il Novecento letterario europeo. E non è un certo un caso che uno dei più grandi tra questi – Giacomo Leopardi – dichiarasse nei suoi confronti un sentimento di “fraternità”. Poeta dolce e tormentato, tragico e sublime, umile e geniale, in perenne e intimo conflitto tra croce e mezzaluna, tra ortodossia ed eresia, e con una non comune capacità di penetrazione psicologica (basterebbe pensare anche solo a quelle protofemministe di Clorinda, Armida ed Erminia, per comprendere dell’animo umano, e femminile in particolare, cose che solo i novecenteschi scavi archeologici nella psiche avrebbero rivelato con pari profondità). Tasso più autentico, a mio giudizio, non è però quello del poema sua gloria e condanna e su cui si ruppe la testa per una vita – la Gerusalemme Liberata -, ma quello lirico di favole come Aminta, laddove risulta più sincero proprio per l’abbandono che si concede alla vaghezza e alla musicalità che furono tregua e ristoro al proprio animo tormentato. E quello delle Rime e dei madrigali come quest’impalpabile Tacciono i boschi e i fiumi.

Fu quella la sua vera natura, cui si abbandonò con struggimento e sensualità; il poeta, insomma, rugiadoso e malinconico, notturno e lunare, che lascia parlare per sé i suoni naturali e i sospiri, e che crea pieni e presenze evocando vuoti e silenzi. Tasso ad eccelso tasso di musicalità in versi perfetti come «e ’l mar senza onda giace» o «sien muti i baci e muti i miei sospiri» che da soli valgono tutta la produzione poetica di un qualsiasi autore contemporaneo che s’illuda di far poesia parlando di bavaglini e ammorbidenti. Con altri madrigali ha in comune il suo essere ‘frammento’ dell’animo con cui componeva il poema maggiore: da quell’effusione del sentimento nell’atmosfera notturna e nella pace lunare, da quel farsi della natura correlativo soggettivo che ciascun lettore ammiratore/amante di Erminia ricorda, deriva una sensazione di malinconia cosmica. Non ci sono brividi, tutto è immobile tranne l’emozione di baci «muti», quasi a fior di labbra, di sospiri attenuati per non turbare l’atmosfera di una natura che ha persino sospeso il suo ciclo per permettere a due creature di amarsi: le onde nel mare si fermano, il vento smette di soffiare, tutto tace, e nel tacere si libera, in slow motion – l’ultimo verso, lentissimo fino all’ultima sillaba – lo struggimento tenero dei sospiri d’amore.

Una dichiarazione d’amore

Ed io, se a volte di sí aspra vita
soffro, che i sensi ne son tutti offesi;
credi, non è la gravezza dei pesi,
è l’inutilità della fatica.


E tu questo lo sai, mia bella amica;
sai come in breve a consolarmi appresi.
Lina cui poco detti e molto chiesi
penso, e rinnovo la querela antica.


«Saperti amante e non poterti avere,
star lontano da te quando in cor m’ardi,
aver la lingua e non poter parlare,


udir quest’acqua e non chinarsi a bere,
correre in riga quando a lenti e tardi
passi vorrei pensosamente andare».

Umberto Saba, Durante una marcia 3

Saba conobbe Carolina (Lina) Wölfler, la sua moglie-musa, nel 1905, di passaggio a Trieste, mentre stava svolgendo il servizio militare. A quel tempo era già affetto da quella «nevrosi d’angoscia» che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e costretto a ricorrere alla psicanalisi. Un peso, in questo tipo di disagio, l’ebbero pure le precedenti delusioni sentimentali e la paura di non riuscire a trovare l’amore. Lo dice in una lettera a un amico un paio d’anni prima («…Tre donne io incontrai nel mio cammino degne d’amore. Ma la prima era un fantasma irraggiungibile, la seconda s’innamorò di un mio amico, allora era tale, e la terza ha quasi vent’anni più di me. Sembra impossibile ma è così…»). In effetti, aveva conosciuto una ragazza, fidanzata col suo amico violinista Ugo Chiesa. Si erano scambiati lettere, ma tutto era rimasto su un piano platonico. Fatto è che l’amico se n’era accorto e anziché – come dicono a Roma – corcare Umberto, picchia la ragazza. Il poeta ne rimase tanto scosso da essere angosciato da veri e propri incubi, legati al senso di colpa. Questo fino a quando, nella sua vita, non sarebbe entrata Lina «la più pia rosa d’ogni bontà» – «…Tu hai dato, Lina, uno scopo a quelle poche settimane che mi sono fermato a Trieste», le scriveva da Firenze il 23 dicembre 1905 -. Quattro anni dopo si sarebbero sposati e avrebbero usato, di comune accordo, i soldi messi da parte per il viaggio di nozze per stampare la prima silloge.

Una vera e propria folgorazione, insomma, è l’incontro con la donna cui dedicherà molte poesie, nonostante non la ritenesse proprio una cima, anzi scherzasse pure sulla sua stupidità, giustificandola però con l’affermazione che altre erano le vie attraverso cui lei raggiungeva la poesia. C’è un simpatico aneddoto, a questo proposito, che la riguarda; è il 1945, c’è stata la Liberazione. Saba è a Roma mentre la moglie e la figlia Linuccia (e non è forse amore anche dare alla figlia il nome della moglie?) sono a Firenze. Il poeta conosce un militare inglese di nobili origini, imparentato con la famiglia reale, e sapendo che dovrà andare nel capoluogo toscano, gli affida una lettera per la famiglia. Una cosa alla Maria De Filippi di C’è posta per te, insomma. Preoccupato che Lina possa scambiarlo per un soldato qualsiasi, le spiega nella stessa missiva chi fosse il “postino”, pregandola di comportarsi di conseguenza. «Suffuru!» (zolfo), come si dice dalle mie parti: arriva il nobiluomo e Lina gli offre un bicchiere di vino e gli dà addirittura la mancia. Il duca di Norfolk, a onor del vero, ne rimase molto divertito.

Questo per dire che le vie dell’amore sono piuttosto tortuose e non passano quasi mai dalla ragione. Quella di Saba per la moglie era una vera dipendenza, doveva a lei il fatto stesso di sopravvivere. In una lettera si confessa talmente depresso da lasciare intuire propositi suicidi dai quali l’avrebbe tenuto lontano proprio il pensiero di Lina – «Le tue carezze mi hanno fatto più bene assai di quanto tu possa immaginare e l’uomo e l’artista te ne ringraziano… Non pensare a tristezze ché s’io dovessi abbandonarmi al corso dei miei pensieri, la cintura dei pantaloni avrebbe già servito a qualcosa di diverso del suo uso comune. Invece, vivo e spero che un po’ di sole spunterà anche per me. Non ero forse quasi felice quando ero tra le tue braccia?». Lina, la «meravigliosa» protagonista del Canzoniere: sì, la stessa che nella sua più famosa poesia, quella che suscita tuttora molta ilarità tra gli studenti, Saba paragona a una gallina, a una giovenca gravida, a una cagna, a una rondine e a una formica, similitudini che oggi forse lo lascerebbero appeso e crocifisso sopra l’altare del body shaming. Non simboli di lei, ma forme della tenerezza che suscita la semplicità animalesca: «tu sei come una lunga | cagna…»; «lunga», nel senso di prona, è un verso bellissimo che non ci azzecca niente con l’idea dell’incomunicabilità di creature misteriose zoomorfe (alla maniera del Tozzi di Bestie), ma dice tutto del mistero, del silenzio, dell’equivocità dei sentimenti umani.

La donna è tutto il suo mondo e, in effetti, nella sua poesia non c’è spazio per molto altro. Tutto il resto – la guerra, la Storia – è ridotto alla dimensione del privato. L’amò con una tenerezza unica, con una semplicità dimessa eppure universale, non immaginando i sentimenti, ma vivendoli e comunicandoli, come facevano i lirici greci o come faceva, alle origini della poesia italiana, un mistico come Iacopone da Todi (ma questa è un’altra storia). È lei la destinataria della struggente dichiarazione d’amore consegnata alle due terzine finali: «Saperti amante e non poterti avere, | star lontano da te quando in cor m’ardi, | aver la lingua e non poter parlare, | udir quest’acqua e non chinarsi a bere, | correre in riga quando a lenti e tardi | passi vorrei pensosamente andare». Quell’unione sarebbe durata tutta la vita, tra alti e bassi e fisiologiche crisi coniugali; Saba, dopo la morte della moglie, avrebbe resistito solo nove mesi, prima di seguirla.

Amori, armature e sfilate di moda

«Infelice, la tua forza sarà la tua rovina; non hai pietà del figlio ancora bambino e di me, sventurata, che presto resterò vedova perché gli Achei ti uccideranno tra poco, assalendoti in massa; e se ti perdo, allora è meglio che muoia anch’io; non ci sarà più conforto per me se il tuo destino si compie, solo dolore. […] Tu, Ettore, tu mi sei padre e madre e fratello e sei anche il mio giovane sposo: abbi pietà di me, resta qui sulla torre, non fare del figlio un orfano, di me una vedova; […] Le rispose allora il grande Ettore dall’elmo splendente: «Donna, so anch’io tutto questo; ma terribile è la vergogna che provo davanti ai Troiani, alle Troiane dai lunghi pepli se, come un vile, mi tengo lontano dalla battaglia; me lo impedisce il mio cuore, perché ho imparato ad essere forte, sempre, e a combattere con i Troiani in prima fila, per la gloria di mio padre e per la mia gloria. Io lo so bene nel cuore e nell’animo: verrà il giorno in cui perirà la sacra città di Ilio e con essa Priamo e la gente di Priamo dalla lancia gloriosa. Ma al dolore dei Troiani io non penso, non penso ad Ecuba, al re Priamo, ai miei valorosi fratelli che cadranno nella polvere uccisi dai nemici. Io penso a te, a quando qualcuno degli Achei vestiti di bronzo ti priverà della tua libertà e ti trascinerà via in lacrime; a quando in Argo dovrai tessere stoffe per un’altra donna o porterai acqua dalle fonti di Messeide o di Iperea, contro il tuo volere, costretta dalla dura necessità; e forse qualcuno dirà vedendoti piangere: “È la sposa di Ettore che fra i Troiani domatori di cavalli era il più forte quando si combatteva intorno a Ilio”. Così diranno un giorno: e sarà un nuovo dolore per te, privata di un uomo che avrebbe potuto tenerti lontano il giorno della schiavitù. Ma possa io morire, possa ricoprirmi la terra prima che ti sappia trascinata in schiavitù, prima che debba udire le tue grida».

Così disse Ettore glorioso e verso il figlio tese le braccia. Ma si piegò il bambino contro il petto della bella nutrice, gridando impaurito alla vista del padre, atterrito dal bronzo, dal pennacchio dell’elmo che sulla cima vedeva ondeggiare, tremando. Sorrisero entrambi il padre e la madre; ed Ettore glorioso si tolse dal capo l’elmo splendente deponendolo a terra; poi prese tra le braccia il figlio, lo baciò e a Zeus e agli altri dei rivolse questa preghiera: «Zeus, e voi divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, che si distingua fra i Teucri per forza e valore, che regni sovrano su Ilio. E vedendolo tornare dalla battaglia un giorno qualcuno dirà: “È molto più forte del padre”. Lui tornerà portando le spoglie insanguinate dei nemici uccisi e la madre ne sarà lieta in cuore». 

Così disse e mise il figlio tra le braccia della sua sposa che lo accolse sul petto odoroso, e sorrideva, piangendo; ebbe pietà di lei l’eroe che, accarezzandola, disse: «Infelice anche tu, non affliggerti troppo nel cuore; nessuno potrà gettarmi nell’Ade contro il destino; io ti dico che nessun uomo può sfuggire alla sorte, sia valoroso, sia vile, una volta che è nato. Ma ora va a casa e torna alle tue occupazioni, al fuso e al telaio e alle ancelle ordina di badare al lavoro; alla guerra penseranno gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, ed io più di ogni altro». Così disse Ettore glorioso e sollevò l’elmo dalla chioma equina; si avviò verso casa la sposa, andava voltandosi indietro e piangeva a dirotto. Quando giunse alla bella dimora di Ettore uccisore di uomini, trovò dentro le ancelle e in tutte suscitò desiderio di pianto. Piangevano Ettore, vivo, nella sua casa; poiché non pensavano che sarebbe riuscito a sfuggire alle forti mani dei Danai e a ritornare indietro dalla battaglia. 

Omero, Iliade, dal libro VI, trad. di M. G. Ciani

L’Iliade è il poema di Achille. Lo è nel senso che tutto sembra parlare di lui, la sua presenza, la sua furia, la sua forza oscurano tutto il resto. Ma il vero gigante, di umanissima e moderna sensibilità, è Ettore; lo è nel senso che la sua totale mancanza di quella hybris che è la cifra stessa dell’eroe per antonomasia dei poemi epici, vince alla distanza e fa giustizia dell’arroganza e della scriteriata follia del suo rivale («come un folle è costui e nessuno può eguagliare il suo furore», dice di lui l’indovino Eleno), facendone per questo un unicum nella letteratura antica. In una storia che parla inequivocabilmente e solo di guerra, un libro – il sesto – contiene una delle più belle scene d’amore che la mente di un narratore abbia potuto concepire. I Greci stanno dilagando, per i troiani si mette male e nemmeno gli dei, indifferenti per statuto, sono dalla loro parte.

Ettore è un predestinato a morire; in cuor suo sa che, quando si ritufferà nella mischia da cui si è temporaneamente allontanato, dovrà affrontare Achille, e allora non ne uscirà vivo. Prima del momento della verità, però, torna alla reggia di Priamo, per chiedere alle donne di invocare l’aiuto di Atena, ma anche per incontrare per l’ultima volta la moglie Andromaca. Omero apparecchia l’incontro come farebbe il navigato sceneggiatore di una serie tv, procrastinandolo con una serie di stazioni in cui l’eroe «dall’elmo splendente» rivede tra le cinquanta stanze del palazzo le sorelle, poi la dolcissima madre Ecuba che gli offre del vino da donare a Zeus e con cui ristorarsi; quindi quel guerriero da Milano fashion week del fratello Paride, intento a lucidarsi le armi dimentico che la “fuitina” con Elena, conseguente alla sua foia, era stata la causa causans di tutto quell’inutile marasma. Ettore se lo cazzìa per bene – l’appellativo più delicato con cui l’apostrofa è «miserabile» -, con parole affilate come la punta della sua lancia, prima di rivolgersi ad Elena, consapevole anche lei a quel punto di avere abbracciato una causa persa.

Quindi si rimette alla ricerca della moglie, ma non la trova subito, non perché sia al tempio con le altre donne, ma perché ha fatto la cosa più struggente e “normale” che una donna innamorata farebbe. È corsa piangendo, col figlio Astianatte in braccio, in cima alla torre che domina il campo di battaglia (Omero è anche uno straordinario regista ante litteram, con la sua straordinaria capacità di usare tutta la scala dei campi e dei piani, di montare campi e controcampi meglio di Steven Spielberg). Da lassù scruta il campo di battaglia per vedere se riesce a scorgere il marito tra i guerrieri. Ma non lo trova; torna allora indietro, e lo stesso fa il marito, ed entrambi vagano per le vie della città fino a quando s’incontrano alle sue porte. Ettore guarda il figlio. E sorride in silenzio. Cazzo! Sorride! Con una dolcezza disarmante, lui sporco di battaglia, coperto di sangue, trafelato, lui che ha avuto parole per tutti, fino a poco prima incazzato col fratello per le sorti a cui ha condannato la sua patria, sorride. Come farebbe qualsiasi padre davanti all’espressione innocente di un figlio. Lui patriota e padre (etimologicamente, la radice è la stessa) ha perso ora le parole e allora tocca alle moglie leggergli dentro quello che l’uomo non ha la forza di riconoscere. E cioè che madre e figlio cadranno in mano ai nemici.

Cosa può dire una donna innamorata a un uomo che sta andando a suicidarsi, se non supplicarlo di non combattere, dichiarargli che senza di lui la vita non ha senso, che preferirebbe morire anche lei piuttosto che sapere il marito morto? Ma Ettore è un patriota e non c’è niente che possa spiegare il suo bisogno di morire anche per la sua famiglia. A questo punto cerca di prendere in braccio il figlio, ma questi, spaventato dall’armatura che non gli consente di riconoscere il padre, si spaventa. E che fa il padre? Si toglie l’elmo e lo posa a terra. Si è spogliato così della sua virilità d’ufficio ed è rimasto solo un uomo, un padre, un marito, con tutte le fragilità che gli assegna la sua natura e che non gli impone più il suo ruolo di eroe. I padri dovrebbero fare sempre questo con i figli: non spaventarli con la loro autorità, ma far sentire loro che sono capaci di risvegliare l’infanzia dentro di sé, saper essere come loro quando è necessario, e che, se non ci si spoglia delle armature, se non si smette di essere guerrieri, non si potrà essere buoni genitori. Ma Ettore fa di più: solleva il figlio in braccio, sopra di sé e formula l’augurio – udite udite – che possa essere migliore di lui («Zeus, e voi divinità del cielo, fate che […] un giorno qualcuno dirà: “È molto più forte del padre”». Capotta in una sola mossa tutta l’epica classica che non concepiva nemmeno per sbaglio che i figli potessero essere migliori dei loro avi. Ettore, per amore solo per amore, desidera invece proprio il contrario. Quel bambino che non sa ancora parlare, spaventato di fronte a un padre così impreparato di fronte al suo spavento, è riuscito a candeggiare la secolare ideologia dell’epica greca: far scommettere agli adulti che il futuro sarà migliore del passato e unire in un unico sentimento due esseri tanto diversi come una donna innamorata e un guerriero, ignaro quest’ultimo di essere, per questo, il padre di cui avrebbe bisogno ogni bambino.

L’uomo al punto (esclamativo)

Sul punto esclamativo la penso come Ugo Ojetti, raffinato e colto giornalista che, tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento, raccontò come pochi i costumi degli italiani, e nelle sue Cose viste auspicò il bando, per legge, di questo segno d’interpunzione – «servo scemo dell’interiezione» – confidando così che, non usandolo più, «gli italiani se ne dimenticassero anche nel parlare e nel pensare, e pian piano espellessero dal loro sangue questo microbo aguzzo il quale dove arriva fa imputridire i cervelli e la ragione e rimbambisce gli adulti, accieca i veggenti, instupidisce i savi, indiavola i santi».

Fosse vissuto al giorno d’oggi, avrebbe ricavato una bella nevrosi dal constatare come i punti esclamativi siano diventati ormai come il pistacchio in cucina, polverizzato in ogni piatto, incorporato in ogni impasto, spericolatamente declinato in equilibristici amplessi con panna e pancetta. Sciàmano impazziti come api cui hanno distrutto l’alveare e assordano, col loro ronzio, tanto i post di adolescenti in scalpitante squilibrio ormonale che i ricorsi giudiziari di qualche avvocato – ne ho conosciuti – cui gioverebbe una più salubre ecologia del pensiero da perseguire con pudicizia di prosa.

Ne faccio le spese anch’io, quotidianamente, tra email di studenti che, non sapendo come rivolgersi al loro docente, azzardano un improvvido «Salve prof!» e tesi di laurea in cui càpita di vederli sfilare impettiti, una pagina sì e una no, persino a schiere di tre. Ma io mi rifiuto di vivere in un mondo di tripli punti esclamativi perché se il primo si può rubricare tra le manifestazioni di un giovanile pathos, il secondo come un errore di battitura, dal terzo puoi tranquillamente diagnosticare una pubertà mai superata. La loro vista mi incute più o meno la stessa angoscia che doveva produrre, ai suoi nemici, l’apparizione di Vlad III principe di Valacchia, per intenderci: Dracula, l’impalatore.

«Questo gran pennacchio su una testa tanto piccola» – è ancora Ojetti che parla e dice: «questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo delle bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, questa asta della bestemmia, questo pugnalettaccio dell’enfasi, questa daga dell’iperbole, quest’alabarda della retorica. Quando, come s’usa nei nostri tempi scamiciati, ne vedo due o tre in fila sul finir d’un periodo, che sembrano gli stecchi sul didietro di un’oca spennata, chiudo il libro perché lo sento bugiardo».

Del resto a chi poteva venire in mente il punto esclamativo, se non agli italiani, popolo così poco incline al dubbio; non era ancora il Quattrocento che il più autorevole degli umanisti, Coluccio Salutati, lo usò per primo, insieme alle parentesi (anch’esse non codificate), copiando di suo pugno i testi antichi.

Sarà per via del suo abuso negli sms, da cui tracima insieme alle emoji, come l’acqua dagli argini di un fiume in piena, fatto è che scrivere ormai semplicemente «grazie» o «auguri», senza farli puntualmente seguire da un punto esclamativo, ti sembra quasi una mancanza di riguardo, un anodino convenevole.

E fu così che i punti esclamativi hanno cominciato a sfilare come in una falloforia, e a essere maneggiati come l’attrezzeria di una pratica bondage o come le fruste penitenziali nelle processioni dei flagellanti. Moltiplicandosi, avviliscono l’idea stessa del dubbio, condannano all’oblio segni più discreti come la virgola o il punto e virgola. Il punto esclamativo è più che altro un punto interrogativo in stato di eccitazione; serve a enfatizzare le parole perché esprimano, in genere con irruenza, quel che vogliono significare. Per cui va bene se lo usa un rockettaro nel testo di una sua canzone, ma è irredimibile per uno studioso che lo usi in un saggio (e ne ho letti alcuni che lasciavano propendere più per un tic che per un occasionale malvezzo stilistico). Perché a un critico e a uno studioso non serve urlare quanto convincere, per cui (vado a memoria, citando da un autorevole manuale di stile) «se vuoi attirare la mia attenzione, lo devi saper fare facendo dialogare sapientemente lessico e sintassi», dal momento che alla forza persuasiva dell’argomentazione non si addice mai l’entusiasmo immaturo e con data di scadenza del punto esclamativo. Quello lascialo pure ai segnali stradali che indicano pericolo o alle chat di Whatsapp.

E mi rivolgo infine ai miei amati studenti, e soprattutto ai tesisti: voi che vivete tra parentesi, anche se non ve ne rendete conto fino in fondo; voi che pensate che un testo sia come una ruota di pan di spagna da farcire con una spessa crema di parole, e su cui far piovere una gragnuola disordinata di segni di punteggiatura; voi che considerate le virgole come muffe che crescono negli interstizi del discorso, come le bolle d’aria nel pluriball degli imballaggi; voi che considerate il punto e virgola come un elemento spurio a distribuzione stocastica e pensate di poterne fare pacificamente a meno, salvo poi a farvi mancare l’aria senza i puntini di sospensione o gli ecc. ecc. in cui trova espressione solo il non sapersi esprimere; voi che vi paracadutate senza rete nel flusso di coscienza di pagine da leggere in apnea, ricordate che la scrittura è come una freccia che viaggia verso un bersaglio.

La precisione della sua traiettoria è determinata dal modo in cui prepariamo l’arco: tendendolo (né troppo né troppo poco); mantenendolo in equilibrio; trattenendo la corda per il tempo esatto che serve, oltre il quale si rischia che i muscoli del braccio non sostengano più lo sforzo. E infine immaginatevi i segni di punteggiatura come le parti che compongono l’arco.


I ragazzi che si amano

I ragazzi che si amano si baciano in piedi 

Contro le porte della notte

E i passanti che passano li segnano a dito

Ma i ragazzi che si amano

Non ci sono per nessuno

Ed è soltanto la loro ombra 

Che trema nel buio

Suscitando la rabbia dei passanti

La loro rabbia il loro disprezzo i loro risolini 

la loro invidia

I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno

Loro sono altrove ben più lontano della notte

Ben più in alto del sole

Nell’abbagliante splendore del loro primo amore

Jacques Prevert, Les enfants qui s’aiment, da Spectacle, trad. di F. Bruno

Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout | Contre les portes de la nuit | Et les passants qui passent les désignent du doigt | Mais les enfants qui s’aiment | Ne sont là pour personne | Et c’est seulement leur ombre | Qui tremble dans la nuit | Excitant la rage des passants | Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie | Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne | Il sont ailleurs bien plus loin que la nuit | Bien plus haut que le jour | Dans l’éblouissante clarté de leur premier amour

Per molti – giovani soprattutto – Jacques Prévert è sinonimo stesso di poesia d’amore. Facile talvolta (anche troppo), la si può incontrare in una qualsiasi alluvione di citazioni dai social come nei bigliettini dei baci Perugina. Tanto spontanea e sincera quanto la domanda che si affaccia alla mente del lettore più smaliziato che alla poesia non chiede di comunicare, ma di alludere, di scavare dentro i nostri più ineffabili recessi: fu vera gloria? Sì, tutto sommato sì. Ne sono convinto, se ripenso al ragazzo che ero quando tremavo ai versi della più caramellosa poesia del francese (Cet amour), a quelle parole che miravano dritte e precise al cuore di un quattordicenne ignaro e lo facevano sporgere senza rete sull’abisso dell’amore, nel modo più diretto e immediato, elementare senza essere banale. Un poeta da taschino, insomma, utile come un sottogiacca da indossare in qualsiasi stagione, piacevole come una caramella alla frutta da rigirarsi tra lingua e palato, essenziale come i menu dei fast food che servono per lo più a saziarti. Insomma: uno che non ti fa gonfiare il cuore come Garcia Lorca o commuovere come Lee Masters, ma la cui complessità risiede altrove, nella capacità di attraversarlo per intero il sentimento, in ogni stazione: dal balenìo dell’istante in cui nasce, alla densità del ricordo, allo struggimento della fine. I «ragazzi che si baciano in piedi | Contro le porte della notte» erano i quattordicenni come me che non avevano ancora studiato la grammatica dell’amore e ne cercavano le sillabe nelle canzoni, come fa anche oggi qualsiasi ragazzo. E non ti faceva paura Prévert, come magari te ne faceva Dante quando andavi a scuola, perché la poesia te la avvicinava, te la rendeva familiare, ti metteva in mano una penna e sembrava dirti: «puoi dirlo anche tu, anzi: dillo». Anche tu cominciavi così a scrivere versi, non importa quanto maldestri. Prévert spogliava la letteratura di ogni complicazione, te la metteva in tasca e ti bastava frugarci con una mano per trovare tutte le ebbrezze di una vita che stava iniziando, di una vita in cui avevi appena finito di giocare con le automobiline o le bambole e iniziavi a trastullarti con l’amicizia, coi primi baci rubati in un vicolo, col profumo che ha la pelle quando si è giovani, col sale delle prime lacrime di un cuore infranto. E soprattutto imparavi a fregartene di quegli adulti che ti segnavano a dito e che avresti imparato più tardi a compatire, avendo capito che ciò che li spingeva a farlo era solo l’essersi dimenticati di cosa vuol dire essere ragazzi.

Vivere insieme

Un giorno incontriamo la persona giusta. Restiamo indifferenti, perché non l’abbiamo riconosciuta: passeggiamo con la persona giusta per le strade di periferia, prendiamo a poco a poco l’abitudine di passeggiare insieme ogni giorno. Di tanto in tanto, distratti, ci chiediamo se non stiamo forse passeggiando con la persona giusta: ma crediamo piuttosto di no. Siamo troppo tranquilli; la terra, il cielo non sono mutati; i minuti e le ore fluiscono quietamente, senza rintocchi profondi nel nostro cuore. Noi ci siamo sbagliati già tante volte: ci siamo creduti in presenza della persona giusta, e non era. E in presenza di quelle false persone giuste, cadevamo travolti da un tale impetuoso tumulto che quasi non ci restava più la forza di pensare: ci trovavamo a vivere come al centro d’un paese incendiato: alberi, case e oggetti divampavano intorno a noi. E poi di colpo si spegneva il fuoco, non restava che un po’ di brace tiepida: alle nostre spalle i paesi incendiati sono tanti che non possiamo più nemmeno contarli. Adesso niente brucia intorno a noi. Per settimane e mesi, passiamo i giorni con la persona giusta, senza sapere: solo a volte, quando rimasti soli ripensiamo a questa persona, la curva delle sue labbra, certi suoi gesti e inflessioni di voce, nel ripensarli, ci danno un piccolo sussulto al cuore: ma non teniamo conto d’un così piccolo, sordo sussulto. La cosa strana, con questa persona, è che ci sentiamo sempre così bene e in pace, con un largo respiro, con la fronte che era stata così aggrottata e torva per tanti anni, d’un tratto distesa; e non siamo mai stanchi di parlare e ascoltare. Ci rendiamo conto che mai abbiamo avuto un rapporto simile a questo con nessun essere umano; tutti gli esseri umani ci apparivano dopo un poco così inoffensivi, così semplici e piccoli; questa persona, mentre cammina accanto a noi col suo passo diverso dal nostro, col suo severo profilo, possiede una infinita facoltà di farci tutto il bene e tutto il male. Eppure noi siamo infinitamente tranquilli. E lasciamo la nostra casa, e andiamo a vivere con questa persona per sempre: non perché ci siamo convinti che è la persona giusta: anzi non ne siamo affatto convinti, e abbiamo sempre il sospetto che la vera persona giusta per noi si nasconda chissà dove nella città. Ma non abbiamo voglia di sapere dove si nasconde: sentiamo che ormai avremmo ben poco da dirle, perché diciamo tutto a questa persona forse non giusta con cui adesso viviamo: e il bene e il male della nostra vita noi vogliamo riceverlo da questa persona e con lei. Scoppiano fra noi e questa persona, ogni tanto, violenti contrasti: eppure non riescono a rompere quella pace infinita che è in noi. Dopo molti anni, solo dopo molti anni, dopo che fra noi e questa persona si è intessuta una fitta rete di abitudini, di ricordi e di violenti contrasti, sapremo infine che era davvero la persona giusta per noi, che un’altra non l’avremmo sopportata, che solo a lei possiamo chiedere tutto quello che è necessario al nostro cuore.

Natalia Ginzburg, I rapporti umani, da Le piccole virtù

Dovrebbe essere ormai pacifico, dopo decenni di rivendicazioni, che la femminilità non si possa misurare volgarmente sullo stereotipo dell’attitudine al temperamento emotivo e passionale, o dell’inclinazione all’abbandono e all’intenerimento sognante. L’essere donna di Natalia Ginzburg è tutto l’opposto, senza per questo difettare di femminilità profonda, se s’intende quest’ultima come l’espressione di un garbo timido, di una delicatezza che non esonda mai nel patetismo vischioso. I sentimenti che esprime sono sempre contenuti dal pudore e dalla discrezione e il modo in cui sono detti – lo stile – riflette questo tipo di connotazione psicologica. Rapida, essenziale, senza svolazzi lessicali e arabeschi sintattici, apparentemente scabra e disadorna, la scrittura di Ginzburg è concreta, ubbidisce a un senso quasi fisico dell’esperienza morale, e perciò stesso risulta più vera. L’opposizione tra Lei e Lui fa percepire immediatamente la reciproca irriducibilità; donne e uomini sono inevitabilmente differenti, due universi paralleli e non comunicanti tra i quali può ergersi, occasionalmente, un ponte che rende comunque possibile un incontro, sia pure a lungo termine. Il segreto della felicità è nell’accettazione consapevole di ciò che ci distingue più che in quello che accomuna, nel lungo e paziente talento di un’attesa che ci rivela come l’amore possa banalmente trovarsi persino al centro di una fitta ragnatela di abitudini.

Una donna, di passaggio

Urlava attorno a me la via, senza pietà.
Alta, snella, in gramaglie, sovranamente triste,
con sontuosa mano sollevando le liste
dell’abito, guarnito di ondosi falbalà,
e con gamba di statua, passò una donna: vidi,
bevvi nell’occhio suo, con spasimi d’insano,
come in un cielo livido, gravido d’uragano,
dolcezze ammalianti e piaceri omicidi.
Fu un lampo… poi la notte. Fuggitiva beltà,
nel cui sguardo, all’istante, l’anima mia risorse,
non ti vedrò più dunque che nell’eternità?
Altrove, e via di qui! Troppo tardi! mai, forse!
Poiché corriamo entrambi a ignoto e opposto sito,
o tu che avrei amato, o tu che l’hai capito!

Charles Baudelaire, Una passante, da I fiori del male (trad. G. Bufalino)

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet;
Agile et noble, aves sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
Un éclair… puis la nuit! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?
Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être!
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!

La passante di Baudelaire, ovvero il moderno mito dell’innamoramento-flash. Si può incontrare una donna per strada, scorgerla in una moltitudine come per epifania, perderla di vista poiché risucchiata dal movimento della folla e vagheggiarla per una vita senza avere più l’occasione di incontrarla di nuovo? Dal XIX secolo in poi accade più frequentemente di quanto non s’immagini. È l’anonimato metropolitano, il ritmo della città-formicaio, il suo frastuono, che sembrano disporre a questo tipo di stordimento; non è un topos inventato dall’autore dei Fiori del male – quello della bellezza fugace – ma è come se, dopo di lui, diventasse un’ossessione, l’inquieta testimonianza dello smarrimento dell’identità e la sinopia delle contemporanee teorizzazioni sulla modernità liquida e sulla provvisorietà delle relazioni. Ingredienti: una sosta – a un crocicchio, alla fermata del bus, sul marciapiedi di una stazione ferroviaria -; uno sguardo come un lampo («Un éclair…», che evoca sia la luce degli occhi sia il suo passaggio fulmineo come una meteora); una distrazione che risucchi quella chiarità nel buio («… puis la nuit!»). Frullare tutto, servire freddo e sorseggiare per un tempo lungo, addirittura eterno («Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?»).

La protagonista del sonetto baudelairiano è una figura longilinea e statuaria che attraversa la strada, solo apparentemente inconsapevole della seduzione che esercita, ma la sua singolarità è la vedovanza. È il suo luttuoso outfit, con gli ondosi falbalà della gramaglia simili alle increspature di un mare in cui annegare, a farla assomigliare a una dark lady da film noir: quel “nero” che Baudelaire definisce, nel Salon del 1846, «tegumento dell’eroe moderno». Lì lo scrittore parla di uomini, in verità, dei loro abiti, per cui quel colore, associato alla donna, proietta un’allure virile che la rende, per ciò stesso, minacciosa, inquietante. In quanto vedove sono libere, indipendenti e non sottomesse a mariti. Quanto basta a turbare una mascolinità che sarà via via più sempre terremotata. Dopo Baudelaire, in letteratura, sarà tutto un andirivieni di passanti, una di loro traghetterà anche in musica, in una canzone di Georges Brassens, prima che il nostro Fabrizio De André dedichi la sua Le passanti «ad ogni donna pensata come amore / in un attimo di libertà / a quella conosciuta appena / non c’era tempo e valeva la pena / di perderci un secolo in più». Del resto, mi convince ancora l’idea che non esista amore più duraturo di quello – vagheggiato e non corrisposto – per un fantasma di donna.

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Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del punto e virgola. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: ministri e deputati; scrittori e professori; allenatori e calciatori; studenti e influencer. Il più negletto tra i segni di punteggiatura è tollerato, al più, come incongrua pecetta infralinguistica, disancorata da un suo uso effettivamente funzionale, un po’ come le fugaci apparizioni di Hitchcock nei suoi film o i messaggi subliminali e satanici che si potevano udire nei vinili delle rock band, suonati al contrario. Insomma, per dirla con un neologismo pescato dal Pasticciaccio di Gadda, quando proprio va bene il suo uso è cinobalanico («l’orgasmo cinobalanico dell’antecipato giudizio»), dal greco κύων, κυνός (kyon, kynòs «cane») e βάλανος (balanos=glande). Se non fosse che serve, nei messaggini, a fare l’emoji che fa l’occhiolino – 😉 – non se lo filerebbe nessuno e lo si potrebbe anche togliere dalle tastiere.

Sarà per quella sua posa leziosa che si fa beffe dell’austera assertività del punto o della minacciosa perentorietà dei due punti, fatto è che lo amo; è come lo sbuffo di profumo da vaporizzare sul collo prima di uscire per andare a un appuntamento galante. Non c’entra niente con la sostanza, ma dice tutto delle sfumature; serve, infatti, a mettere in relazione due segmenti di frasi tra i quali c’è nesso logico, ma non sintattico. Quindi, si direbbe che è come un lubrificante del pensiero, serve a vivacizzare il periodare pallido e assorto. Lode, perciò, al grande editore Aldo Manuzio che lo inventò nella seconda metà del Quattrocento. Manzoni, insuperato lavandaio in Arno, ne fa usi notevoli, come quando mette di fronte un untuoso Don Rodrigo che si autocandida “protettore” di Lucia a un titanico fra Cristoforo che gli taglia le gambe proprio con un punto e virgola, adoperato a mo’ di sprangata sui denti del signorotto: «… la vostra protezione! Bene sta che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colma la misura; e non vi temo più». Il punto sarebbe stato troppo e la virgola troppo poco; ecco allora che quell’esatta e studiata pausa amplifica perfettamente il tono fermo della perentoria frase finale: «non vi temo più». E Don Rodrigo se la prende così in saccoccia.

Una nota teoria evoluzionistica affermava che «la funzione crea l’organo», ma perché questo si sviluppi occorre l’uso. Che fine ha fatto, oggi, il punto e virgola? Qual è il suo stato di salute? Se non è morto, poco ci manca, compagno di sventura del congiuntivo, vuoi per sporadico utilizzo vuoi per il suo definirsi più per “sottrazione” – non è un punto e nemmeno una virgola – pur potendosi riconoscergli, rispetto ai suoi parenti prossimi, anche delle non trascurabili peculiarità ritmico-prosodiche. Assuefatti all’idea della semplificazione argomentativa, aborriamo tutto ciò che è dubbio; tra l’evidenza indicativa e la sfumatura possibilistica ci facciamo attrarre dalla prima e così il congiuntivo e il punto virgola finiscono per stare alla lingua come l’ombretto alla matita per gli occhi. Uno sfuma, l’altro marca. Eppure l’italica genìa che ha ereditato il gusto per la guicciardiniana discrezione, così poco avvezza alle decisioni chiare e propensa piuttosto alle causidiche distinzioni, dovrebbe adorare il punto e virgola. E invece lo snobba. Come una cosa inutile

Ricordo una mia compagna di classe che, al liceo, aveva evidenti problemi con la punteggiatura. Non ne azzeccava uno che fosse uno. I suoi temi erano flussi di coscienza che Virginia Woolf si sarebbe scansata; ricordo che, una volta, consegnò alla professoressa d’italiano un compito in cui non c’era nemmeno una virgola per sbaglio. Roba che nemmeno il monologo di Molly Bloom nel più sopravvalutato dei romanzi moderni – l’Ulysses di Joyce, ça va sans dire. Ebbe, però, l’accortezza di aggiungervi un riquadro, alla fine del foglio, un recinto a matita in cui erano accatastati, alla rinfusa, tutti i segni di punteggiatura, con una didascalia per l’insegnante: “li metta lei dove servono”. Geniale. Perché coglieva, così, una verità ancor oggi drammatica, e cioè che non si dedica abbastanza attenzione, a scuola, all’uso corretto dei segni d’interpunzione. Se solo si cogliesse come il punto e virgola possa diventare il piede di porco che scardina un’arrugginita serratura argomentativa, non riusciremmo più a farne a meno. Quindi, dissento affatto dallo scrittore americano Kurt Vonnegut che, in una sua lezione di scrittura creativa, ne scoraggiava l’uso definendolo «un ermafrodita travestito che non rappresenta assolutamente niente, se non che si è stati al college». Sto più dalla parte di Pietro Citati che reputava il suo assassinio «molto più grave dell’assassinio di padri, madri, figli, figlie, mariti, mogli, nonne, cognati di cui parlano con infinita voluttà i nostri giornali». Perché è la ricchezza stessa del pensiero complesso ed elegante, un po’ come l’accordo diminuito in uno standard del jazz, come la tinta pastello in una tavolozza di colori primari, come la nebbiolina sul mare che sfuma la vista dell’orizzonte. Qualcosa da preservare con ossuta determinazione, da custodire con materna sollecitudine. Dio salvi il punto e virgola.

Manzoni, Kant e lo “sticazzismo” di Renzo

Il parlare che, in quel paese, s’era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse; il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno piú bello dell’altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: – eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualcosa di meglio. Cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n’è per tutto –. Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto.
Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo, queste cose; cosí non c’era gran male fin lí. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e piú a lungo tra sé. «E cosa v’importa a voi altri? E chi v’ha detto d’aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v’ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V’ho detto mai che v’avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle».

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. 38

Lucia Mondella conquista il proscenio – in fisica evidenza – nel secondo capitolo dei Promessi sposi. A onor del vero, Don Lisander ammette una sua bellezza esteriore alquanto «modesta» che ben si accorda all’intima «modestia un po’ guerriera delle contadine», con un sorriso che ha la malizia di un tubetto del dentifricio. Ma è pur sempre bellezza, ornata com’è di «lunghi e neri sopraccigli», di «neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura» che si ravvolgono «dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce», e persino «esaltata dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso», da «quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare». Legittimo, quindi, per il lettore figurarsela quantomeno graziosa, come nelle illustrazioni di Francesco Gonin o nelle sue tante successive restituzioni cinematografiche. Non fosse altro che, altrimenti, non si spiegherebbe la fregola di quel Don Giovanni mancato di Don Rodrigo che alla propria impotenza seduttiva non può che opporre la classica prepotenza machista, innescando così il tourbillon di peripezie a cui devono andare incontro due sventurati giovani per riuscire a coronare il loro dimesso sogno d’amore. Ma Manzoni è così, gioca continuamente con le aspettative del lettore, puntualmente frustrandole, lanciando la pietra e nascondendo la mano. Lo fa pure con la storia della monaca di Monza che, in potenza, farebbe scatenare le più torbide fantasie erotiche, salvo poi a usare la penna come un estintore anziché come un cerino. Lo stesso accade con Lucia la cui virginale bellezza, dissimulata per tutto il romanzo, viene addirittura smentita nelle pagine conclusive dell’opera, quando la ragazza torna in scena addirittura «brutta affatto» – vox populi – suscitando la piccata reazione di Renzo che, alle maldicenze degli abitanti del piccolo paese del bergamasco dove si sono rifugiati, oppone non solo le sacrosante morali del chissenefrega e dello sticazzismo («E cosa v’importa a voi altri? […] Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle»), la fiera rivendicazione di un classico principio kantiano, e cioè che la bellezza non è qualità oggettiva, ma caratteristica attribuita dagli uomini in modo soggettivo. E che, in sostanza, quando si ama, trasfiguriamo l’oggetto d’amore nella pura essenza del nostro desiderio, dimostrando al contempo che il non detto e il non visto sono infinitamente più attrattivi di ogni sfacciata esibizione di sé.