Come potrei trattenerla in me,
la mia anima, che la tua non sfiori;
come levarla, oltre te, ad altre cose?
Ah, potessi nasconderla in un angolo
perduto della tenebra, un estraneo
rifugio silenzioso che non seguiti
a vibrare se vibri il tuo profondo.
Ma tutto quello che ci tocca, te
e me, insieme ci prende come un arco
che da due corde un suono solo rende.
Su qual strumento siamo tesi, e quale
violinista ci tiene la mano?
O dolce canto.
Rainer Maria Rilke, Canto d’amore, trad. di G. Cacciapaglia
Caro Rainer,
la tua lettera, che mi è stata appena recapitata, è qui davanti a me e mi sembra faccia parte di questa prima neve d’inverno che si stende a perdita d’occhio davanti alle finestre e sui giardini circostanti, tale è l’intensità con cui mi parla della lontananza da te, la lontananza di cui scrivi, che non dovrebbe esistere. Io l’avverto fortemente, Rainer, è una lontananza puramente spaziale, e vivo come assurdo il fatto che mi risulti insormontabile. Salvo poi ricorrere al treno e a tutti i possibili dispendi di energia per improvvisare un incontro a data da destinare. E invece noi dovremmo essere vicini l’uno all’altra attraverso vie impercettibili, spontaneamente, in profondo silenzio; non dovrebbe trattarsi in alcun modo di un frammento nel mosaico del vissuto destinato a spostare le altre tessere, ma di un’esperienza che si realizza senza dislocare nulla e senza doversi adeguare a quei contorni. Dovrebbe pur essere possibile e forse un giorno lo sarà davvero. Io sto già facendo qualcosa di analogo – qualcosa che si avvicina a quest’esperienza – e te ne ho parlato molte volte. Solo quando leggo la tua lettera, il passo del taccuino e tutte le pagine in cui improvvisamente trova espressione ciò che altrimenti resta inanimato e muto persino nei rapporti umani più intimi e personali, solo allora ti ho accanto a me. Ho l’esperienza più autentica del tuo vissuto, della tua esistenza, e non c’è nulla al mondo che mi convinca che nel frattempo da te si sia staccato un frammento, per quanto minuscolo, perché dentro alla tua scrittura tu ti preservi totalmente, integro e sano, come colui che sperimenta al massimo grado di profondità l’essenza dell’umano. Sì, allora ti ho, ti vedo di nuovo, ed è davvero una consolazione immensa sapere che puoi intraprendere questi viaggi segreti fino a me, fino a tutte le mie più intime percezioni dell’esistenza. Ma come posso comunicarti a mia volta questa indescrivibile vicinanza? In che modo posso dirti che in questa particolare condizione è quasi brutalmente indifferente se la via si delinea dalla beatitudine di vedersi consacrato al tutto o dal terrore di mischiarsi con ciò che non ci appartiene? Come posso trasmetterti la gioia indubitabile che in entrambi i casi l’uomo che si esprime è esattamente lo stesso – così come sempre il medesimo è l’uomo sulla croce e il risorto – quello stesso uomo che, scisso tra un beato possesso assoluto e il martirio di essere a sua volta posseduto, non poté fare altro che rinunciare a ciò che gli altri chiamano il proprio “sviluppo”, il proprio costante e proficuo cammino esistenziale. Sono fermamente convinta che non sia possibile modificare questo stato di cose e ne sono contenta, perché operare dei cambiamenti comporterebbe la più spaventosa delle fratture. Io credo che tu debba soffrire e soffrirai sempre. Non c’è nessuno che possa evitartelo, ma è possibile – sì, questo è possibile – che avere qualcuno accanto che lo sappia e partecipi alla sofferenza a volte faccia bene, a volte male. Sento che oggi sarei molto più dura con te di quanto non lo fossi un tempo (anche se in un modo del tutto diverso rispetto ad allora) e sento anche che in me sono maturi mille sguardi materni e tenerezze per te, per te soltanto, tu che sei l’unico in grado di percepirli e di goderne. Ma anche in questo caso questi due aspetti non sarebbero che un’unica identica cosa: ed è strano quanto mi sia evidente che l’intransigenza ne fa parte e non è disposta a cedere in grandezza. Ti allontana da me che io ti scriva questo? Ne sono certa: arriverà il giorno in cui saremo di nuovo molto felici insieme e lieti allo stesso modo di tutti i pericoli che la vita ha in serbo per ciascuno di noi due, separatamente.
Lou Andreas Salomé a Rainer Maria Rilke, del 13 gennaio 1913

Leggendo la corrispondenza tra Rilke e Lou Andréas-Salomé, con ogni probabilità una delle più belle di tutto il Novecento letterario, se ne ricava la sensazione potente di come fosse lei l’infermiera dell’anima del poeta, unica garanzia di redenzione dal mal de vivre, lei che governa le forze oscure dell’uomo e ne orienta guarigione e creazione. Lou è lì, luminosa, in quel crocevia tra la depressione e l’angoscia che Rainer le confessa, con metodica regolarità, nei suoi giorni di sterilità creativa, ed è perciò tanto l’interprete d’elezione dei suoi demoni quanto il baedeker più efficace per addentrarsi nell’abisso del suo intelletto poetico. Lou aveva il talento per essere amante e confidente già prima di diventare, negli anni cui risale questa lettera, l’allieva di Freud. La psicoanalisi però l’aveva imparata sul campo, avendo avuto una cavia d’eccezione per quasi dieci anni. Le lettere che si scrivono e i canti d’amore che lui le dedica sono una costellazione dentro cui tracciare le traiettorie di una tormentata evoluzione poetica.

Rilke aveva un’ossessione: l’alienazione del proprio corpo. Immaginava un Altro da sé, subdolo e ambiguo, un simulatore dei suoi stati d’animo da cui scappare e, alla fine della corsa e della fiera, è sempre lei il suo rifugio. L’uomo si lascia guidare dai suoi consigli, e non solo nei momenti di disagio artistico, ma anche nella banalità del quotidiano, quando il dilemma può essere rappresentato dal gusto da preferire per la mousse da acquistare al Natur-Werk di Heiligendamm. Banana o mirtillo? La cosa bella è che, lungi dal volerlo psicanalizzare, al contrario, Lou cercò di scongiurare sempre ogni tentazione di trattamento. Qualsiasi intervento terapeutico dall’esterno avrebbe prodotto solo un’alterazione di quella corrente stabile che insieme avevano stabilito. La corrispondenza fu trentennale e mai la abbandonò la convinzione che si guarisce sempre da soli, che la terapia è già dentro ognuno, che il mostro che ci assedia da dentro è paradossalmente lo stesso che ci libererà, ma solo se sapremo familiarizzarci e farlo diventare creatività. Rainer si confessa con spietata e acuta sincerità, e non senza inevitabili accenti di autocommiserazione e vittimismo tipicamente maschili; si fa accanito esploratore degli intricati cunicoli della sua psiche, alla ricerca della propria arca perduta, anche se il physique du rôle è quello di un Indiana Jones dalla gracile costituzione e dal controllo invero precario della propria igiene mentale. È lei? Risponde sempre con un’intelligenza straordinariamente lucida e con una compassione insolitamente amorevole.

Se non avesse avuto Lou, la sua abilità di penetrazione psicologica e sour tout l’obiettività che spesso manca alle relazioni amorose, specie se travolgenti, Rilke si sarebbe potuto attaccare a un tram, fatalmente destinato a farsi arrotare dalle ansie autodistruttive che aveva ereditato dall’infanzia. Invece, Lou lo legge come nessuna avrebbe saputo fare, come si dovrebbe fare in un rapporto d’amore fiduciario, senza eludere, se necessario, anche verità spiacevoli purché non le si faccia virare verso un linguaggio pseudo-scientifico da psicanalisti della domenica – ah, il sacrosanto incomparabile “buon senso”. Da qui discende, a cascata, lo stile di entrambi, la tersa densità di una scrittura con cui, nel momento in cui ci si apre e si comunicano le proprie esperienze per metterle nella condizione di essere comprese, le si affidano a un linguaggio in cui l’eloquenza della conversazione epistolare acquista la stessa dignità d’arte della prosa narrativa.