Notte nazionale del Liceo classico

Si ama secondo Natura o secondo Cultura? In occasione della Notte nazionale del Liceo Classico che si è svolta il 5 maggio 2023, una lezione sul tema eterno in cui si prova a far dialogare insieme Lucrezio e Blanco, Cavalcanti e Brel, Petrarca e Flaubert, Francesca da Rimini ed Emma Bovary. Con la partecipazione straordinaria di Andrea Cappellano.

Notte nazionale del Liceo classico

A seguire, la chiacchierata con gli studenti del Liceo Classico “Amari” di Giarre che curano il podcast 4 caffè all’Amari, pensato e creato per i ragazzi degli istituti superiori.

4 caffè all’Amari

I ragazzi che si amano

I ragazzi che si amano si baciano in piedi 

Contro le porte della notte

E i passanti che passano li segnano a dito

Ma i ragazzi che si amano

Non ci sono per nessuno

Ed è soltanto la loro ombra 

Che trema nel buio

Suscitando la rabbia dei passanti

La loro rabbia il loro disprezzo i loro risolini 

la loro invidia

I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno

Loro sono altrove ben più lontano della notte

Ben più in alto del sole

Nell’abbagliante splendore del loro primo amore

Jacques Prevert, Les enfants qui s’aiment, da Spectacle, trad. di F. Bruno

Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout | Contre les portes de la nuit | Et les passants qui passent les désignent du doigt | Mais les enfants qui s’aiment | Ne sont là pour personne | Et c’est seulement leur ombre | Qui tremble dans la nuit | Excitant la rage des passants | Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie | Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne | Il sont ailleurs bien plus loin que la nuit | Bien plus haut que le jour | Dans l’éblouissante clarté de leur premier amour

Per molti – giovani soprattutto – Jacques Prévert è sinonimo stesso di poesia d’amore. Facile talvolta (anche troppo), la si può incontrare in una qualsiasi alluvione di citazioni dai social come nei bigliettini dei baci Perugina. Tanto spontanea e sincera quanto la domanda che si affaccia alla mente del lettore più smaliziato che alla poesia non chiede di comunicare, ma di alludere, di scavare dentro i nostri più ineffabili recessi: fu vera gloria? Sì, tutto sommato sì. Ne sono convinto, se ripenso al ragazzo che ero quando tremavo ai versi della più caramellosa poesia del francese (Cet amour), a quelle parole che miravano dritte e precise al cuore di un quattordicenne ignaro e lo facevano sporgere senza rete sull’abisso dell’amore, nel modo più diretto e immediato, elementare senza essere banale. Un poeta da taschino, insomma, utile come un sottogiacca da indossare in qualsiasi stagione, piacevole come una caramella alla frutta da rigirarsi tra lingua e palato, essenziale come i menu dei fast food che servono per lo più a saziarti. Insomma: uno che non ti fa gonfiare il cuore come Garcia Lorca o commuovere come Lee Masters, ma la cui complessità risiede altrove, nella capacità di attraversarlo per intero il sentimento, in ogni stazione: dal balenìo dell’istante in cui nasce, alla densità del ricordo, allo struggimento della fine. I «ragazzi che si baciano in piedi | Contro le porte della notte» erano i quattordicenni come me che non avevano ancora studiato la grammatica dell’amore e ne cercavano le sillabe nelle canzoni, come fa anche oggi qualsiasi ragazzo. E non ti faceva paura Prévert, come magari te ne faceva Dante quando andavi a scuola, perché la poesia te la avvicinava, te la rendeva familiare, ti metteva in mano una penna e sembrava dirti: «puoi dirlo anche tu, anzi: dillo». Anche tu cominciavi così a scrivere versi, non importa quanto maldestri. Prévert spogliava la letteratura di ogni complicazione, te la metteva in tasca e ti bastava frugarci con una mano per trovare tutte le ebbrezze di una vita che stava iniziando, di una vita in cui avevi appena finito di giocare con le automobiline o le bambole e iniziavi a trastullarti con l’amicizia, coi primi baci rubati in un vicolo, col profumo che ha la pelle quando si è giovani, col sale delle prime lacrime di un cuore infranto. E soprattutto imparavi a fregartene di quegli adulti che ti segnavano a dito e che avresti imparato più tardi a compatire, avendo capito che ciò che li spingeva a farlo era solo l’essersi dimenticati di cosa vuol dire essere ragazzi.

Di chierichetti, usignoli e scimmie disperate

Mi sono innamorato di Françoise Hardy quando non era più Françoise Hardy. Per meglio dire: lei è ancora viva e lotta insieme a noi (noi sognatori perenni, intendo). Ma ero ancora troppo piccolo quando già spezzava cuori, troppo inconsapevole del mio perché potesse anche solo intaccarlo.

Isabelle Adjani
Nastassja Kinski

Il tempo delle mele che ho vissuto ha conosciuto invece altre malìe – su tutte, quella di Ornella Muti (la cui bellezza senza tempo faceva velo al reale talento, compreso invece, e non per caso, da tanti maestri del cinema) e Isabelle Adjani (eterea nel suo pallore disincarnato per l’Herzog di Nosferatu, almeno quanto lo era stata per Truffaut in Adele H) – e quando le mele cominciavano a diventare al massimo pere bollite, ho tributato culti ad altre icone – da Nastassia Kinski (il suo viso d’angelo in Tess di Polanski avrebbe fatto impallidire persino la Laura di Petrarca) a Wynona Ryder (struggente Mina Murray in quel capolavoro che è il Dracula di Coppola).

Wynona Ryder

Di tutte ho tenuto i ritratti sul comodino, da dare in pasto alle mie illusioni. E a tutte ho scritto lettere appassionate che non hanno mai letto. Altrimenti…

E però Françoise… Françoise è un mistero per me, una corrispondenza tardiva; non l’avevo incontrata mai da ragazzino, nemmeno nei fotoromanzi che leggevo mentre aspettavo che mia madre finisse dalla parrucchiera dove mi portava, quando non aveva a chi lasciarmi. Mi ritorna in mente ancora l’odore di lacca e di pettegolezzi di quella sala dove un magnetofono Geloso (così si chiamava) diffondeva le canzoni di Morandi, di Battisti, di Ornella Vanoni e Peppino Di Capri.

Anche in casa mia ce n’era uno, e io che me n’ero conquistato sul campo la titolarità ne ero “geloso” custode non solo perché avevo mostrato precoci interessi “musicarelli”, ma perché era prodotto da una ditta che portava il mio nome (Magnetofoni Castelli), cosa che bastava già a inorgoglirmi, anche senz’essere nemmeno lontanamente imparentato col suo inventore.

Ad eccezione degli chansonnier consacrati – Brel, Brassens, Moustaki, Aznavour, Bécaud, Piaf, Trenet, Montand – del pop transalpino non arrivava granché, e persino la hit più famosa, a cavallo tra Sessanta e Settanta, si doveva ascoltare clandestinamente, tanto intensi e scandalosi turbamenti provocava. Jane Birkin che sussurra a Serge Gainsbourg Je t’aime moi non plus era una specie di amplesso virtuale. Ma interruptus, almeno per me, considerato che appena partiva la musica mia madre, o chi per lei, premeva il tasto stop, a tutela dell’innocenza di cui si faceva garante insieme alla sua coiffeuse e al prete della parrocchia in cui servivo messa.

Lo stesso che a quella vespertina, successiva all’ora di catechismo, ti metteva in guardia dal commettere atti impuri ammonendoti che “Dio ti vede”. Quello sguardo torvo me lo sono portato appresso per molto tempo, ma a distogliere la sua attenzione sono valse, per fortuna, le tante storie in musica che ascoltavo e che dell’amore mi insegnavano ben altro che il senso di colpa.

È stato così che ho potuto scoprire Françoise, cantrice del disordine d’amore e della fragilità adolescenziale; tous les garçons et les fille a cui dava voce non ragionavano che di questo, a questo pensavano, ed è anche grazie alla sua voce, soffice come la schiuma dello shampoo che la parrucchiera faceva a mia madre, prototipo inarrivabile di tutte le “carlebruni” successive, che ho scoperto che all’amore si è può essere iniziati con leggerezza e discrezione, e che anche gli addii si possono pronunciare gentilmente.

Françoise, fascino castano esaltato da una silhouette longilinea, con i suoi capelli lisci sulle spalle e la frangetta che incorniciava occhi che ti scavavano l’anima, un’alchimia di ebbrezza vitalistica e malinconia che era l’essenza stessa della generazione yé-yé che proprio lei aveva inventato: una Princesse de Cléves di lafayettiana memoria, così bella che avresti detto di poterla amare per sempre. Che la sua generazione le abbia devotamente tributato il culto che si addice alle divinità lo testimoniano le decine di citazioni che le hanno riservato cineasti (Lelouch, Ozon, Bertolucci, Anderson tra tanti altri) e scrittori, da Prévert (nella poesia Une plante vert dice che «sous le charme de Françoise Hardy on entend palpiter la vie») a Manuel Vàzquez Montalban («ya estaba / en la misma canción la imposible / penumbra, / el imposible rincón / del noctámbulo»: era già nella stessa canzone l’impossibile crepuscolo, l’angolo impossibile del nottambulo). E ancora i musicisti che la idealizzarono, da Bob Dylan a Mick Jagger e David Bowie .

Che tristezza sapere che non canterà più perché una malattia contro cui lotta da almeno quindici anni le ha colpito anche la gola. Come sentire che un usignolo non possa più emettere il suo verso. L’ho scoperto googlando alla ricerca di notizie che la riguardassero, dopo essermi imbattuto in un suo curioso monologo-confessione (L’amore folle), tradotto e pubblicato qualche anno fa, in Italia, ad opera di una piccola e benemerita casa editrice fiorentina (Edizioni Clichy), e che fa il paio con la sua autobiografia, inedita in Italia, dal titolo Le désespoir des singes, com’è detta l’araucaria – disperazione delle scimmie – per via delle sue foglie a forma di scaglie appuntite che impedisce ai primati di arrampicarvisi. Nel suo romanzo emerge proprio questo contrasto tra la compostezza e l’equilibrio dell’apparenza e il tormento di chi quella forma indossa. E così affiora tutto il travaglio esistenziale di una donna che avresti pacificamente apparentato alle madonne della poesia cortese, all’apollinea bellezza delle veneri rinascimentali, e che invece ti grida inaspettatamente in faccia che l’amore è una bestia indomabile che ti squassa e ti spoglia di ogni pudore, di ogni dignità. Può capitare così che si tramuti in un’ossessione in cui non si capisce più chi è la vittima e chi il carnefice, chi arma la mano che prima o poi ucciderà l’altro. Sia chiaro: Breton non c’entra. L’amore che il titolo evoca è l’amore tout court, quello che rende folle chi ama per il fatto stesso che ama. Ed è una follia quasi inevitabile, da attraversare fino in fondo perché solo lì risiede la sua verità.

Nella sua finzione, Françoise racconta della liaison con un uomo che viene nominato solo come X, non particolarmente attraente, anzi tanto diverso dalla donna che parla (peraltro con una stupefacente sorveglianza stilistica da scrittrice smaliziata) e che però le appare come «uno di quegli esseri davanti ai quali tutte le difese crollano prima che ce ne rendiamo conto, soprattutto perché non hanno consapevolezza del loro potere». Le tappe che scandiscono la loro relazione – devozione, sofferenza, gelosia, assenza – sono quelle tipiche dell’attrazione fatale e trascendono il rapporto fisico. Perché l’amore, come canta Brunori Sas, “è un colpo di pistola”, è un’onda che travolge e devasta, ti disarma, lasciandoti in balìa di un dio che ti possiede e parla al posto tuo. È la socratica katokoché: una forma di possessione vera e propria che disloca la Ragione (atopía, la chiama il filosofo) e fa sì che, quando amiamo, non disponiamo più di noi stessi perché il nostro Io ha già perso il consueto ordine delle proprie connessioni per lasciare che sia qualcos’altro ad agirlo. L’istinto e il godimento dei corpi non c’entrano niente, ciò che accade è l’accamparsi di un’entità che si fa arbitro tra la nostra dimensione razionale e quella folle, e l’innamorato che non fa i conti con la parte irrazionale di sé semplicemente non ha mai conosciuto Amore. Il fatto è che non puoi prevederlo né evitarlo, in seguito, perché ti precipita dentro per caso, a condizione che le sue crepe presentino una sufficiente simmetria con le tue, rendendoti un pazzo la cui follia, lungi dall’essere un handicap, è invece ciò che dà alla tua vita il suo unico e possibile interesse.

Confesso: il fatto che a dirmelo sia la bellezza quintessenziale che avevo associato all’idea di un’educazione sentimentale rassicurante, foriera di quel “discernimento” e di quella “reciprocità” che si addicono alle relazioni “funzionali”, ha dislocato un po’ anche me, ma tutto sommato posso farmi piacere per un po’ l’idea che tutto ciò che si avvicina alla follia, lungi dall’essere tossico, a volte può risultare persino necessario.