Manzoni, Kant e lo “sticazzismo” di Renzo

Il parlare che, in quel paese, s’era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse; il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno piú bello dell’altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciar il naso, e a dire: – eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualcosa di meglio. Cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio, ce n’è per tutto –. Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto.
Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo, queste cose; cosí non c’era gran male fin lí. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliele rapportarono: e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e piú a lungo tra sé. «E cosa v’importa a voi altri? E chi v’ha detto d’aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v’ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V’ho detto mai che v’avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle».

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. 38

Lucia Mondella conquista il proscenio – in fisica evidenza – nel secondo capitolo dei Promessi sposi. A onor del vero, Don Lisander ammette una sua bellezza esteriore alquanto «modesta» che ben si accorda all’intima «modestia un po’ guerriera delle contadine», con un sorriso che ha la malizia di un tubetto del dentifricio. Ma è pur sempre bellezza, ornata com’è di «lunghi e neri sopraccigli», di «neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura» che si ravvolgono «dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce», e persino «esaltata dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso», da «quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare». Legittimo, quindi, per il lettore figurarsela quantomeno graziosa, come nelle illustrazioni di Francesco Gonin o nelle sue tante successive restituzioni cinematografiche. Non fosse altro che, altrimenti, non si spiegherebbe la fregola di quel Don Giovanni mancato di Don Rodrigo che alla propria impotenza seduttiva non può che opporre la classica prepotenza machista, innescando così il tourbillon di peripezie a cui devono andare incontro due sventurati giovani per riuscire a coronare il loro dimesso sogno d’amore. Ma Manzoni è così, gioca continuamente con le aspettative del lettore, puntualmente frustrandole, lanciando la pietra e nascondendo la mano. Lo fa pure con la storia della monaca di Monza che, in potenza, farebbe scatenare le più torbide fantasie erotiche, salvo poi a usare la penna come un estintore anziché come un cerino. Lo stesso accade con Lucia la cui virginale bellezza, dissimulata per tutto il romanzo, viene addirittura smentita nelle pagine conclusive dell’opera, quando la ragazza torna in scena addirittura «brutta affatto» – vox populi – suscitando la piccata reazione di Renzo che, alle maldicenze degli abitanti del piccolo paese del bergamasco dove si sono rifugiati, oppone non solo le sacrosante morali del chissenefrega e dello sticazzismo («E cosa v’importa a voi altri? […] Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle»), la fiera rivendicazione di un classico principio kantiano, e cioè che la bellezza non è qualità oggettiva, ma caratteristica attribuita dagli uomini in modo soggettivo. E che, in sostanza, quando si ama, trasfiguriamo l’oggetto d’amore nella pura essenza del nostro desiderio, dimostrando al contempo che il non detto e il non visto sono infinitamente più attrattivi di ogni sfacciata esibizione di sé.

Lo smisurato pensiero d’amore

Che questa sia passione dentro nata, manifestamente il ti mostro, perciò che, se sì sottilmente volemo guardare lo vero, quella passione non nasce d’alcuna cosa fatta, ma da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta, quella passione procede. L’uomo, quando vede alcuna acconcia ad amare e al suo albitrio formata, di presente comincia a desiderarla nel cuore, e poi, quante volte pensa di quella, tanto maggiormente nel suo amore arde, infino che diviene a pensare le fazioni di quella e distinguere le membra e immaginare gli suoi atti e disegnare per pensieri le segrete cose de’ membri segreti e disiderare d’usare lo uficio di ciascuno membro di quella. Dappoi che per pensieri è divenuto a questa piena congiunzione delle cose segrete, lo amore non sa tenere gli suoi freni, ma incontanente procede all’atto e l’aiutorio cerca di messo mezzano e come e ’l luogo e ’l tempo possa trovare acconcio a parlare, e più, che la brieve ora gli pare più che uno anno, perché all’amante niente gli par fatto sì tosto come vorrebbe: e molte cose l’incontrano in questo modo. Adunque, è quella passione dentro nata per pensamento di cosa veduta. A commuovere ad amore non basta ciascuna pensagione, ma conviene che sanza modo sia, imperciò che pensagione con modo non suole alla mente ritornare, sicché amore non può nascere di quella. 

Andrea Cappellano, De Amore, cap. I

Ti dimostro chiaramente che la passione è naturale poiché, a ben guardare la verità, non nasce da nessuna azione; ma procede dal solo pensiero che l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, un uomo vede una donna che corrisponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore, fino a che non giunge a più pieno pensiero. E comincia a pensare alle fattezze della donna, a riconoscere le sue membra, a immaginare i propri gesti, e a frugare i segreti di quel corpo che desidera possedere tutto per il proprio piacere. Ma poi che giunge al pensiero pieno, l’amore non sa tenere il freno, e passa subito ai fatti; subito s’affanna a cercare complici e messaggeri. E comincia a pensare come incontrare la sua grazia, a chiedere luogo e tempo giusto per parlare, e un’ora gli pare un anno, perché non c’è nulla che possa subito saziare l’animo desideroso; e si sa che spesso succede così. Dunque la passione naturale procede da visione e da pensiero. Al sorgere dell’amore non basta il semplice pensiero, ma occorre che esso sia smisurato, perché il pensiero misurato non torna insistentemente alla mente, e da lì dunque non può sbocciare amore.

Come si amava nel XII secolo? Come oggi e come in tutti i secoli della storia dell’uomo. Ma è in quel torno di tempo che viene concepito un trattato fondamentale per capire che la disciplina dell’amore sopravvive immutata nella storia dell’uomo e, soprattutto, genera poesia. Lo si deve a tale Andrea “Cappellano”, secondo alcuni ciambellano del re di Francia Filippo II Augusto, secondo i più attivo alla corte di Maria di Champagne, figlia di quell’Eleonora d’Aquitania alla cui famiglia si deve – scusa, se è poco – la nascita e il diffondersi in tutta Europa della lirica trobadorica. Insomma, non si capirebbe un bel po’ della poesia della scuola poetica siciliana, di Guido Cavalcanti, come pure di Paolo e Francesca nel V dell’Inferno dantesco, senza aver letto il De Amore. Non si capirebbe, cioè, quanto assoluta e totalizzante sia la passione d’amore e come sovente sia destinata a restare per lo più insoddisfatta, poiché il desiderio eccede sempre la possibilità di essere pienamente soddisfatto. Perché l’amore nasce da un’ossessione del pensiero («da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta»): in principio è la “vista” dell’oggetto del desiderio a innescare il congegno esplosivo, ma perché questo diventi passione è necessaria quella che gli uomini del medioevo chiamavano vis cogitativa, cioè l’immaginazione interiore, quella che ci fa ripassare a memoria, ossessivamente, le fattezze, i gesti, le azioni quotidiane della persona amata, la sua presenza in situazione. Da qui, a cascata, tutte le sensazioni cui il discorso amoroso si associa, dall’attesa al timore, dalla speranza alla disillusione. Questo precipitato di fenomenologia sentimentale ha un’unica controindicazione, sinceramente antidemocratica: il suo autore non la riteneva proprio prerogativa di tutti tutti. Non dei ricchi e potenti né dei “rustici” (contadini e operai); vuoi perché i primi sono troppo presi da altre occupazioni per sopportare la lunga devozione che si deve a questo processo di affinamento dell’animo, mentre i secondi possono tutt’al più amare come «cavallo o mulo» (cioè «naturalmente») perché, se smettessero di lavorare, ne risentirebbe l’intera struttura economica. A fare il lavoro sporco dell’amore non restano, perciò, che gli sfaccendati professionisti dell’intelletto (poeti e professori, filosofi e artisti). Cappellano dixit.

Acrostico traverso

Si tratta di una variante più articolata, di mia invenzione, del tradizionale acrostico. In questa forma, non sono le lettere iniziali di ogni verso a formare un nome ma, nell’ordine: la prima lettera della prima parola del primo verso, la prima lettera della seconda parola del secondo verso, la prima lettera della terza parola del terzo verso, e così via. Quello che segue è un esempio, dedicato a uno dei miei personaggi letterari preferiti.

 

1200px-Armide«Argo non mai, non vide Cipro o Delo»

tanti ricci capelli promettere

lusinghe di magie e disincanti.

Se alla felicità ingannare serva,

sa l’astuta e dilettosa giovane

che nel fuoco ti svelerà Amore.