Una dichiarazione d’amore

Ed io, se a volte di sí aspra vita
soffro, che i sensi ne son tutti offesi;
credi, non è la gravezza dei pesi,
è l’inutilità della fatica.


E tu questo lo sai, mia bella amica;
sai come in breve a consolarmi appresi.
Lina cui poco detti e molto chiesi
penso, e rinnovo la querela antica.


«Saperti amante e non poterti avere,
star lontano da te quando in cor m’ardi,
aver la lingua e non poter parlare,


udir quest’acqua e non chinarsi a bere,
correre in riga quando a lenti e tardi
passi vorrei pensosamente andare».

Umberto Saba, Durante una marcia 3

Saba conobbe Carolina (Lina) Wölfler, la sua moglie-musa, nel 1905, di passaggio a Trieste, mentre stava svolgendo il servizio militare. A quel tempo era già affetto da quella «nevrosi d’angoscia» che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e costretto a ricorrere alla psicanalisi. Un peso, in questo tipo di disagio, l’ebbero pure le precedenti delusioni sentimentali e la paura di non riuscire a trovare l’amore. Lo dice in una lettera a un amico un paio d’anni prima («…Tre donne io incontrai nel mio cammino degne d’amore. Ma la prima era un fantasma irraggiungibile, la seconda s’innamorò di un mio amico, allora era tale, e la terza ha quasi vent’anni più di me. Sembra impossibile ma è così…»). In effetti, aveva conosciuto una ragazza, fidanzata col suo amico violinista Ugo Chiesa. Si erano scambiati lettere, ma tutto era rimasto su un piano platonico. Fatto è che l’amico se n’era accorto e anziché – come dicono a Roma – corcare Umberto, picchia la ragazza. Il poeta ne rimase tanto scosso da essere angosciato da veri e propri incubi, legati al senso di colpa. Questo fino a quando, nella sua vita, non sarebbe entrata Lina «la più pia rosa d’ogni bontà» – «…Tu hai dato, Lina, uno scopo a quelle poche settimane che mi sono fermato a Trieste», le scriveva da Firenze il 23 dicembre 1905 -. Quattro anni dopo si sarebbero sposati e avrebbero usato, di comune accordo, i soldi messi da parte per il viaggio di nozze per stampare la prima silloge.

Una vera e propria folgorazione, insomma, è l’incontro con la donna cui dedicherà molte poesie, nonostante non la ritenesse proprio una cima, anzi scherzasse pure sulla sua stupidità, giustificandola però con l’affermazione che altre erano le vie attraverso cui lei raggiungeva la poesia. C’è un simpatico aneddoto, a questo proposito, che la riguarda; è il 1945, c’è stata la Liberazione. Saba è a Roma mentre la moglie e la figlia Linuccia (e non è forse amore anche dare alla figlia il nome della moglie?) sono a Firenze. Il poeta conosce un militare inglese di nobili origini, imparentato con la famiglia reale, e sapendo che dovrà andare nel capoluogo toscano, gli affida una lettera per la famiglia. Una cosa alla Maria De Filippi di C’è posta per te, insomma. Preoccupato che Lina possa scambiarlo per un soldato qualsiasi, le spiega nella stessa missiva chi fosse il “postino”, pregandola di comportarsi di conseguenza. «Suffuru!» (zolfo), come si dice dalle mie parti: arriva il nobiluomo e Lina gli offre un bicchiere di vino e gli dà addirittura la mancia. Il duca di Norfolk, a onor del vero, ne rimase molto divertito.

Questo per dire che le vie dell’amore sono piuttosto tortuose e non passano quasi mai dalla ragione. Quella di Saba per la moglie era una vera dipendenza, doveva a lei il fatto stesso di sopravvivere. In una lettera si confessa talmente depresso da lasciare intuire propositi suicidi dai quali l’avrebbe tenuto lontano proprio il pensiero di Lina – «Le tue carezze mi hanno fatto più bene assai di quanto tu possa immaginare e l’uomo e l’artista te ne ringraziano… Non pensare a tristezze ché s’io dovessi abbandonarmi al corso dei miei pensieri, la cintura dei pantaloni avrebbe già servito a qualcosa di diverso del suo uso comune. Invece, vivo e spero che un po’ di sole spunterà anche per me. Non ero forse quasi felice quando ero tra le tue braccia?». Lina, la «meravigliosa» protagonista del Canzoniere: sì, la stessa che nella sua più famosa poesia, quella che suscita tuttora molta ilarità tra gli studenti, Saba paragona a una gallina, a una giovenca gravida, a una cagna, a una rondine e a una formica, similitudini che oggi forse lo lascerebbero appeso e crocifisso sopra l’altare del body shaming. Non simboli di lei, ma forme della tenerezza che suscita la semplicità animalesca: «tu sei come una lunga | cagna…»; «lunga», nel senso di prona, è un verso bellissimo che non ci azzecca niente con l’idea dell’incomunicabilità di creature misteriose zoomorfe (alla maniera del Tozzi di Bestie), ma dice tutto del mistero, del silenzio, dell’equivocità dei sentimenti umani.

La donna è tutto il suo mondo e, in effetti, nella sua poesia non c’è spazio per molto altro. Tutto il resto – la guerra, la Storia – è ridotto alla dimensione del privato. L’amò con una tenerezza unica, con una semplicità dimessa eppure universale, non immaginando i sentimenti, ma vivendoli e comunicandoli, come facevano i lirici greci o come faceva, alle origini della poesia italiana, un mistico come Iacopone da Todi (ma questa è un’altra storia). È lei la destinataria della struggente dichiarazione d’amore consegnata alle due terzine finali: «Saperti amante e non poterti avere, | star lontano da te quando in cor m’ardi, | aver la lingua e non poter parlare, | udir quest’acqua e non chinarsi a bere, | correre in riga quando a lenti e tardi | passi vorrei pensosamente andare». Quell’unione sarebbe durata tutta la vita, tra alti e bassi e fisiologiche crisi coniugali; Saba, dopo la morte della moglie, avrebbe resistito solo nove mesi, prima di seguirla.

Pacchioni e pachidermi: body shaming on stage

Nell’isola in cui la rivendicazione di un primato tra la parte occidentale e quella orientale sta tutto dentro la desinenza che determina il nome da assegnare a una palla di riso variamente farcita (arancin-a o arancin-o) ben altre risonanze e conseguenze ha la declinazione del termine pacchione. Il palermitano che lo usa evoca generalmente, e in un senso inequivocabilmente dispregiativo, un individuo di sesso maschile in condizioni di sovrappeso. In greco esisteva l’aggettivo maschile pachýs che significa “grosso”, “pesante”, da cui “pachiderma”, ma l’origine potrebbe anche essere da “chiappa”, cioè la natica, che è la parte più voluminosa del corpo, che per metàtesi diventa “pacchia”: “fare la pacchia” vuol dire condurre una vita sedentaria e quindi ingrassare. Di più: la densità semantica può variare in ragione della maggiore o minore apertura della vocale interna per cui si può rappresentare un diverso grado di obesità anche solo allargandola e allungandola (“talé cche pacchiuuuni” è già diverso da “talé cche pacchiuni”). Per il catanese, lo stesso termine si riferisce di solito a una donna oltremodo avvenente, ma la sua gradazione dipende dall’intensità con cui si pronuncia il suo prefisso e, in particolare, la consonante esplosiva iniziale (“talìa cchi pppacchiuni”). L’etimologia è da riferire a “pacchio” che in catanese indica l’organo genitale femminile; i linguisti potrebbero aiutarmi a stabilire se l’origine sia dalla velarizzazione dell’aggettivo latino “patulus” che si riferisce a un’apertura. E però, nell’uso comune, è invalsa in entrambi i capoluoghi l’abitudine a riferire il termine anche al sesso opposto per cui è sempre più frequente a Palermo l’uso di “pacchiona” per una donna di taglia forte e a Catania di “pacchione” per riferirsi anche a un bel ragazzo. C’è però un comune denominatore, in entrambi i casi, e cioè il giudizio di valore assegnato al soggetto cui si riferisce l’epiteto, in ragione esclusiva del suo aspetto fisico. Nel primo caso, “pacchione” ha un valore dispregiativo della persona, nel secondo vorrebbe essere un apprezzamento lusinghiero che però insiste troppo su una valenza quasi esclusivamente sessuale e concupiscente. Trattasi, in entrambi i casi, di quel che si definisce body shaming, ossia la peste etica del nuovo millennio, che non risparmia nessuno, anche se sono le donne a esserne più frequentemente vittime, l’abitudine cioè a giudicare gli altri sulla base del loro aspetto fisico e della corrispondenza a parametri estetici più o meno imposti dalla società e dai media.

Foto di Antonio Parrinello

La pacchiona è anche un’opera in scena in questi giorni a Catania, quel che si dice un dramedy, l’ibridazione cioè di elementi tipici della commedia (battute argute, vivaci diatribe) con quelli del dramma (contenuti importanti, temi e personaggi complessi). Prodotto dal Teatro Stabile della città, è la versione italiana di un opera del 2004 del regista, sceneggiatore e drammaturgo americano Neil LaBute, dal titolo Fat pig, segmento di un progetto più ampio che prende il nome di Trilogia della bellezza. Nell’allestimento nostrano la traduzione e l’adattamento sono di Marcello Cotugno (che ne firma anche la regia) e di Gianluca Ficca, gli attori sono Paolo Mazzarelli, Federica Carruba Toscano, Chiara Gambino e Alessandro Lui (tutti molto bravi ed efficaci), mentre la vicenda è trasposta in Sicilia.

Poco male, non è solo l’America la patria di tutte le possibili contraddizioni che generano conflitti – e quindi storie – dal momento che le opere di LaBute non hanno una vincolante e precisa topografia di riferimento. Quel che contano sono i concetti e in questo caso il tema dell’ossessione dell’apparenza, della sopravvalutazione dell’aspetto fisico in una società – che è anche quella siciliana – che esalta soprattutto gli individui che corrispondono esteriormente a paradigmi di desiderabilità imposti dal sistema dei consumi. A primo acchito mi ha ricordato certe situazioni di un film – Hairspray – del provocatorio e dissacrante John Waters, uscito in Italia col pessimo titolo Grasso è bello, ma lì in modo decisamente scanzonato si parlava anche di altre discriminazioni, come quelle razziali.

Qui invece tutto ruota attorno ad Elena e Tommaso, la prima è una bibliotecaria palermitana il cui essere oversize non fa velo a un’indiscutibile simpatia, frutto di modi diretti e sfacciatamente onesti, pur se gentili, l’uomo è invece un professionista milanese che lavora in Sicilia per conto di una società in cui sono impiegati anche il suo migliore amico e una contabile con cui ha già avuto una relazione alquanto tossica. S’incontrano in un ristorante affollato all’ora di pranzo e iniziano a parlarsi e piacersi per passare di lì a poco a poco a frequentarsi. Fin qui niente di straordinario, fino a quando la loro non diventa una relazione stabile. È a quel punto che dovranno fare i conti con gli ammiccamenti, le battute, la diffidenza e la cattiveria di tutti coloro – e sono i più – che considerano la sessualità la riserva esclusiva di chi ha corpi tonici, e che dalla modellizzazione del proprio corpo ricavano il proprio simulacro di felicità e di benessere.

Ragazza inequivocabilmente buona, ironica ed autoironica, vulnerabile e vittima delle mistificazioni culturali, ma sincera e onesta, Elena ha imparato faticosamente ad accettarsi e a vivere come desidera, anche se costretta a subire le pressioni di chi la vorrebbe diversa e non la accetta perché non conforme ai propri standard di bellezza. Il fascino della rappresentazione deriva proprio dal livello in cui lo spettatore vedrà come imbarazzante la relazione col bel Tommaso, nell’instabilità dello sguardo costretto a confrontarsi con i propri impulsi e pregiudizi, gli stessi con cui deve confrontarsi l’uomo per affrontare il crescente disagio di una relazione che lo espone al timore di apparire ridicolo benché innamorato. In questo senso, la scena che mi è sembrata più potente è quella in cui i due si accingono a fare l’amore mentre guardano uno dei tanti spaghetti-western a cui l’ha fatta appassionare da bambina il padre. Al di là dell’imbarazzo di fronte a cui è messo il pubblico nel vedere una donna sovrappeso svestita che cerca di provocare e sedurre un uomo molto attraente, nell’intimità di quella situazione e con quelle immagini che scorrono e che avevano costituito la colonna sonora dell’età in cui aveva negato la propria sessualità proprio a causa della sua costituzione, Elena ha un blocco che le impedisce il rapporto fisico con Tommaso e che comincia a far incrinare la relazione con l’uomo.

Foto di Antonio Parrinello

Quel che colpisce e traumatizza lo spettatore non è tanto il linguaggio utilizzato dai ripugnanti personaggi di supporto che rappresentano la crudeltà di una società alienata, quanto lo shock del riconoscersi in individui orribili che dicono cose spregevoli e misogine. Per cui all’inizio riusciamo anche a ridere, ma via via ci rendiamo conto che l’effetto disturbante di certe situazioni discriminatorie è dato dal nostro rispecchiamento in caratteri narcisisti che sono sì odiosi, ma non più di quanto non potremmo esserlo noi in circostanze analoghe. La visione di LaBute è scettica riguardo alla possibilità che al giorno d’oggi si possa essere davvero in grado di costruire relazioni positive di qualsiasi tipo. Semplicemente i nostri tempi non offrono le condizioni per poter evitare i conflitti e le angosce che derivano dal sentirsi sempre nel raggio di osservazione di un radar sociale che illumina solo chi persegue la dittatura del successo. Ed è proprio ai personaggi più odiosi che l’autore affida la chiave di lettura dell’opera, sono loro a dirci che siamo tutti incapaci di sopportare la diversità e che saremmo disposti a morire pur di non rischiare la disapprovazione. La pacchiona perciò ci riguarda e ci colpisce non tanto perché intercetta la nostra facile riprovazione verso il body shaming quanto perché smaschera le piccole e grandi viltà da cui nessuno può ritenersi immune e su cui non si può fare a meno di riflettere anche il giorno dopo aver visto lo spettacolo. Che è quanto il teatro dovrebbe sempre riuscire a fare.