Si ama secondo Natura o secondo Cultura? In occasione della Notte nazionale del Liceo Classico che si è svolta il 5 maggio 2023, una lezione sul tema eterno in cui si prova a far dialogare insieme Lucrezio e Blanco, Cavalcanti e Brel, Petrarca e Flaubert, Francesca da Rimini ed Emma Bovary. Con la partecipazione straordinaria di Andrea Cappellano.
Notte nazionale del Liceo classico
A seguire, la chiacchierata con gli studenti del Liceo Classico “Amari” di Giarre che curano il podcast 4 caffè all’Amari, pensato e creato per i ragazzi degli istituti superiori.
Nonostante la convenzionalità della sua annuale liturgia, mi piace la kermesse (così la chiamano quelli che sanno parlare) sanremese. E mi piacciono le canzonette che, non di rado, non «sono solo canzonette», come cantava Edoardo Bennato. Per uno stigma di leggerezza che accompagna il termine, siamo abituati, infatti, come italiani, ad associare loro l’idea del disimpegno, tanto da definire “leggera” la musica che passa dal palco del teatro Ariston e che in Francia si chiama, invece, musiques de variétes. Non la leggerezza, quindi, che evoca il «cuscino di piume, l’acqua del fiume che passa che va», di carrisiana memoria (nel senso di Carrisi “Al Bano”) o «una sola canzone per far confusione fuori e dentro di te» di stampo “riccopoveristico”, ma la varietas della forma che può dare ospitalità persino a versi struggenti come «laisse-moi devenir | l’ombre de ton ombre | l’ombre de ta main | l’ombre de ton chien» o «Non perderti per niente al mondo | lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te», al cui confronto persino Eugenio Montale si scanserebbe. Già nel 1964, Umberto Eco (Apocalittici e integrati) scriveva che «non è necessario che intrattenimento ed evasione, gioco, ristoro siano perciò stesso sinonimo di irresponsabilità, automatismo, qualunquismo, ghiottoneria sregolata» ed è quindi ormai comune la consapevolezza – almeno da quando l’Accademia di Svezia ha sdoganato definitivamente le canzoni conferendo il Nobel a Bob Dylan – che la strofa di una canzone possa avere pari dignità letteraria di una terzina dantesca.
Amo, ovviamente, le canzoni cosiddette “d’autore”, perché penso che proprio i cantautori (termine ormai onnicomprensivo e probabilmente desueto), in ogni tempo, siano stati tra i pochi che abbiano saputo raccontare la poesia. Mi sorprende sempre il fatto di riuscire a ricordare esattamente tutto il testo dell’Avvelenata di Guccini o 4 marzo ’43 di Dalla e pochissime poesie per intero, anche quelle che mi è capitato di spiegare decine di volte. Non imparo versi a memoria, ma alcuni canti della Divina Commedia mi sono entrati spontaneamente in testa. Non mi entusiasma l’idea di un ragazzo che digerisca e sciorini le terzine di un intero canto del poema dantesco, come mi lasciò affatto indifferente un professore del liceo che si compiaceva nel declamare il trentatreesimo del Paradiso, senza però riuscire a far sentire la potenza delle rime e delle immagini, la sua paura davanti al testo, il convincimento di essere arrivato davvero nell’Empireo.
Ora posso dirlo: ringrazio Petrarca, Leopardi e Saba. Sono stati loro, paradossalmente, a farmi approdare, entusiasta e impudico, alle “canzonette”. E mi dà un grande piacere ascoltarle ogni giorno mentre guido o cammino per strada e chiedermi puntualmente quanto sottile sia il confine tra l’arte e la boiata pazzesca. Le canzoni assomigliano sempre a chi le ascolta, così come i libri assomigliano sempre a chi li legge. Lo spiega bene Truffaut in quella sequenza della Signora della porta accanto in cui fa dire a Mathilde-Fanny Ardant: «Ascolto solo le canzoni d’amore perché dicono la verità, più sono stupide più sono vere… e poi non sono stupide. Che dicono? Dicono “non devi lasciarmi”, “senza di te in me non c’è vita”, “senza di te io sono una casa vuota”, “lascia che io divenga l’ombra della tua ombra” oppure “senza amore non siamo niente”». Il regista francese disse pure, in qualche intervista, non so dove, che quel film assomigliava a una canzone di Edith Piaf, era un po’ come Ne me quitte pas di Jacques Brel.
Vecchia questione quella del rapporto tra poesia e canzone. Mi piacerebbe, un anno, dedicare un intero corso di letteratura italiana ai ‘dintorni’ della letteratura. Chessò: un ciclo di conversazioni sulle voci di Buscaglione e Conte, Tenco e De André, Springsteen e Tom Waits, che sono riusciti a raccontare la loro epoca meglio di quanto facciano quei poeti che – loro sì – per dirla con il poetico (senza virgolette) Ligabue, “hanno perso le parole”. E questo perché la forza della musica “leggera” (sì, persino quella di Sanremo) è nel suo essere anche cultura orale. Come nell’incipit di Moby Dick («Chiamatemi Ismaele»), in cui Melville è come se ci dicesse “guardate che non è solo roba scritta quella che leggerete, ma voce, racconto, respiro, invenzione senza fine”. Sì, la canzone è voce che racconta versi, per questo cattura più della poesia (un mio ex alunno delle medie mi diceva: «prof, Dante non lo capisco, invece Vasco mi prende»). La poesia vuol essere rimasticata dalle parole di tutti e allora forse le inventeremmo o le scopriremmo una funzione. Chi ricorda Travis-De Niro in Taxi Driver? Ripeteva a memoria un intero elenco del telefono in modo autistico. Eroico certo, ma profondamente malato, indurito, a un punto morto e senza speranza.
Io non me ne farò mai niente della letteratura che si perpetua uguale a sé stessa. Io vorrei che la poesia passasse di bocca in bocca, come le strofe di una canzone. Forse è per questo che i moderni vati sono le star della musica. E forse è giusto che sia così. I poeti avrebbero tanto da imparare ascoltando Sanremo, capirebbero che la parola può essere muffa (o «merda», come diceva Rimbaud della poesia), se non diventa corpo, fiato, spirito, sangue, se non si scioglie tra le dita quando cominciamo ad ascoltare le voci che si muovono sotto e dentro di essa. Proprio come succede con alcune canzoni che ci parlano, ci raccontano, ci mentono, ci recitano e, recitando, elaborano sogni, rappresentano il presente.