Notte nazionale del Liceo classico

Si ama secondo Natura o secondo Cultura? In occasione della Notte nazionale del Liceo Classico che si è svolta il 5 maggio 2023, una lezione sul tema eterno in cui si prova a far dialogare insieme Lucrezio e Blanco, Cavalcanti e Brel, Petrarca e Flaubert, Francesca da Rimini ed Emma Bovary. Con la partecipazione straordinaria di Andrea Cappellano.

Notte nazionale del Liceo classico

A seguire, la chiacchierata con gli studenti del Liceo Classico “Amari” di Giarre che curano il podcast 4 caffè all’Amari, pensato e creato per i ragazzi degli istituti superiori.

4 caffè all’Amari

Il bisturi e la penna, il sangue e l’inchiostro

Cui facissi d’iłłu notomia in ogni parti ci truviria a N.
Quandu, tiranna, a casu ti placissi
di fari di mia stissu notomia,
e carni e sangu et ossa mi vidissi
per satisfazioni tua e mia,
iu letu e tu contenti ristirissi
e satisfatta la tua chirurgia,
perchì di parti in parti scopririssi
chi tu sì ngrata e iu moru per tia.

Se qualcuno vivisezionasse il poeta, / troverebbe l’amata in ogni parte. | Tiranna, se per caso ti venisse voglia | di notomizzarmi, | e con mia e tua soddisfazione | vedessi la mia carne, il mio sangue e le mie ossa, | io ne sarei lieto e tu contenta, | e soddisfatta la tua operazione chirurgica, | perché da parte a parte scopriresti | che tu sei ingrata, e io muoio per te.

Antonio Veneziano, dal Libro delle rime siciliane, Libru primu (Celia), 11

Nel secol – il Cinquecento – che più della luce di Petrarca prese, non pochi bagliori s’irradiarono dai versi di Antonello Veneziano (più noto come Antonio). Quello per l’aretino fu un trend virale che in Sicilia conobbe non pochi testimonial: un’ostinata fedeltà garantita da svariati poeti d’accademia impegnati a competere, e in qualche caso a vincere, la sfida con i colleghi delle altre regioni italiane. Ma Veneziano aveva una marcia extra, non fosse altro che per quell’aura d’artista maudit che la sua vita da rebel without a cause gli assicurava, e che lo portava a entrare e uscire di prigione a più riprese, lui, educato dai gesuiti e figlio di un mastro notaro della Curia monrealese.

Tra omicidi e veri e propri ratti (nel 1573 era stato accusato di aver sottratto a una terziaria domenicana una servetta di cui s’era invaghito), il siculo Petrarca conobbe pure Cervantes in una prigione algerina, dopo essere stato catturato dai corsari. E già questi dettagli gli varrebbero almeno un film. Anche perché dall’immortale autore del Chisciotte ricavò sincera stima e amicizia, prima di essere riscattato dalla schiavitù grazie all’intervento della sua ricca e potente famiglia che volle riportarlo a Monreale. Sciarrino (leggi “litigioso”) come pochi, si impegolò ancora in liti e contese a colpi di carta bollata e di libelli contro chiunque – parenti, vescovi e viceré – che gli valsero ancora i ferri, a Palermo, dove morì tragicamente nel ’93 a seguito di un incendio che arse insieme prigioni e detenuti: gioventù bruciata, è il caso di dirlo. A dispetto di tanta vita spericolata, era però anche un uomo molto colto che produsse prose eleganti nonché versi in lingua di apprezzabile nitore; ma le settecentocinquantatre canzuni siciliane scritte per la misteriosa Celia sono, senza tema di smentita, il suo greatest hits. Sullo sfondo c’è sempre il più famoso Canzoniere, ma nell’emulazione di quei famosi stilemi l’aspetto meno convenzionale, e perciò stesso originale, fu il tentativo di pennellare le immagini e le situazioni da repertorio in un modo più espressivo e realistico di quanto non riproducessero le rarefazioni astratte e intellettualistiche di maniera. Insomma, anche quando scriveva veniva fuori la sua indole eslege, con quel gusto per il coup de théâtre d’impatto, per quella ruvidezza da carta vetrata così aliena dalle levigature dei petrarchisti doc.

Lo si può notare anche in questi versi in cui invita l’amata a dissezionarlo chirurgicamente per farle trarre la soddisfazione un po’ sadica di ritrovare in ogni parte del suo organismo tracce di lei. Già il solo dire questo in un registro dialettale “basso” non è poca roba nella storia della poesia cinquecentesca cui si addiceva, all’inverso, l’elevatezza con cui dipanare la tematica amorosa. Se a questo si aggiunge che, pur in questo sdrucciolamento stilistico, Veneziano riesce a essere a un tempo tenero e beffardo, accorato e sprezzante, si capisce come riesca a svisare da virtuoso sulla tastiera linguistica, come uno Scott Joplin ante litteram che alterna ritmi sincopati e contrattempi (come nel dittico finale «perchì di parti in parti scopririssi | chi tu sì ngrata e iu moru per tia»), a riprova di quanto la poesia riesca a essere, talora inconsapevolmente, il correlativo del temperamento di chi la produce. Nel caso di Veneziano, l’espressione di un vitalismo estremo e dannatamente sensuale.

Fuoco d’amore e sospiri estremi

È un foco Amor, che ascoso tien l’ardore; | è ferita, che punge, e non si sente; | è un piacer, che tien l’alme discontente; | è acerbo duol, di cui non si ha dolore: || è un non voler, che ciò che vuole Amore; | è un andar solitario tra la gente; | è un godere con voglie non mai spente; | è un credersi felice ove si more: || è un suggettarsi i vincitori a i vinti; | è uno stare in prigion, perché si vuole; | è un esser fidi a chi ci brama estinti. || Come mai de l’Amor si grande amico | è il core uman, che senza lui si duole, | se Amore de gli amanti è si nemico?

Amor he hum fogo que arde sem se ver; | He ferida que doe e não se sente; | He hum contentamento descontente; | He dor que desatina sem doer; || He hum não querer mais que bem querer; | He solitario andar por entre a gente; | He hum não contentarse de contente; | He cuidar que se ganha em se perder; || He hum estar-se preso por vontade; | He servir a quem vence o vencedor; | He hum ter com quem nos mata lealdade. || Mas como causar póde o seu favor | Nos mortaes corações conformidade, | Sendo a si tão contrário o mesmo Amor?

Luís Vaz de Camões, Amor he hum fogo que arde sem se ver

Di Luís de Camões si sa poco e quel che si sa è parente stretto della leggenda. L’autore delle Lusiadi, il poema nazionale portoghese e del suo massimo eroe, Vasco de Gama, vive nel Cinquecento, il secolo in cui l’Europa letteraria è letteralmente attraversata dal richiamo imperioso della poesia petrarchesca. Al richiamo del componimento alla maniera di non resiste nemmeno lui, ma a differenza di tanti sterili emuli banalmente preoccupati di adeguarsi al costume normativo dell’epoca, si libra altissimo e con sincerità d’ispirazione. Basterebbe anche solo questo sonetto a consacrarlo nel Pantheon lirico lusofono, e non solo in quello. La traduzione di questo sonetto è ottocentesca, si deve a Juan Francisco Masdeu, un erudito spagnolo di origini siciliane (era nato a Palermo), un gesuita esiliato in Italia dopo l’espulsione del suo ordine, che la consegnò a un volume il cui titolo (lunghissimo) riporto perché così mi aggrada: Arte poetica italiana di facile intelligenza. Dialoghi familiari diretti ad insegnare la poesia a qualunque persona di mediocre talento, sia uomo, o donna, benché non altro sappia che solo leggere e scrivere.

La natura ossimorica dell’amore si traduce, con Camões, in un fuoco di fila di metafore caratterizzato dall’eterogenesi dei fini, per cui l’effetto contraddice puntualmente la causa: è fuoco che avvampa, ma non brucia, ferita di cui non si sente il dolore, morte di cui essere felici, un sottomettersi ai vinti. E così via. Da questo bulimico catasto di paradossi e contraddizioni in cui il secondo termine del verso funziona come complemento del primo, ciò che risalta è il voler mettere in dialogo una realtà sensibile (la ferita che fa male) e una spirituale che trascende la prima (non si sente il dolore). Come si fa perciò ad amare l’Amore (assunto che sarà molti anni dopo di Stendhal) ed essergli amico, al punto che non sappiamo farne a meno, se questo è l’aguzzino di ogni amante che si rispetti? Di quest’irresolubile querelle è forma e figura il ricorso costante ad anafore, metafore, ossimori antitesi ordinati in perfetta simmetria, a comporre la musicalità che era fondamento e ragione stessa di quella sublime e frustrante storia di uno scacco matto esistenziale in trecentosessantasei frammenti che era il Canzoniere petrarchesco. A replicarne la sentenza in modi quantomeno più dubitativi del velleitario tentativo di “guarigione” di messer Francesco dal suo «giovenile errore» è proprio l’interrogativo finale che ci dice, in sostanza, qualcosa di non molto diverso da quanto afferma Dante nel suo approccio alla beatitudine celeste: l’Amore, parafrasando, è un’estasi di cui si può solo godere, senza illudersi di penetrarne la ragione «perché appressando sé al suo disire, | nostro intelletto si profonda tanto, | che dietro la memoria non può ire». E questo perché, con buona pace degli aristotelici sillogismi di Camões, da che mondo è mondo l’unica cosa che sappiamo dell’Amore – come di Dio, e come di Luís de Camões – è proprio il nostro non saperne niente, ciò nonostante ostinandoci nel disperato e commovente tentativo di provarci almeno a capirne qualcosa, fino a volerci rompere la testa.

Un cuore (beatamente) prigioniero

Aventuroso carcere soave,
dove né per furor né per dispetto,
ma per amor e per pietà distretto
la bella e dolce mia nemica m’ave;

gli altri prigioni al volger de la chiave
s’attristano, io m’allegro: ché diletto
e non martìr, vita e non morte aspetto,
né giudice sever né legge grave,

ma benigne accoglienze, ma complessi
licenzïosi, ma parole sciolte 
da ogni fren, ma risi, vezzi e giochi; 

ma dolci baci, dolcemente impressi
ben mille e mille e mille e mille volte;
e, se potran contarsi, anche fien pochi.

Ludovico Ariosto, Rime, XIX (ed. Bianchi)

Fortunata prigione di dolcezze dove mi ha chiuso la bella e dolce mia nemica, non per furia vendicatrice o per dispetto, ma per amore e per pietà; gli altri prigionieri, al chiudere della mandata, s’intristiscono, io mi rallegro: perché aspetto il diletto e non il martirio, la vita e non la morte, e non un giudice severo o una legge grave, ma benevole accoglienze, abbracci voluttuosi, parole liberate da freni inibitori, risa, carezze e giochi; e dolci baci, dolcemente impressi ben mille e mille e mille volte; e se ancora potranno contarsi, sarebbero pochi.

Alessandra Benucci, la magnifica ossessione di Ariosto, va e viene continuamente dai suoi versi, come il carceriere che, con metodica regolarità, porta il pasto al sequestrato. Il “carcere soave” è un luogo fisico – la camera dei convegni erotici semiclandestini, nella casetta ferrarese di via Borgo Vado – in cui l’amata lo ha probabilmente posto al riparo da sguardi indiscreti (la “cameretta” del sonetto che, nelle Rime per il Canzoniere, precede questo non lascia àdito a dubbi), e la stessa situazione immaginata è da “sindrome di Stoccolma”: l’ostaggio aspetta con ansia di sentire il rumore che farà la serratura della cella in cui è rinchiuso, ma anziché farsi prendere dall’ansia, prova sollievo fino a trepidare all’idea di incontrare chi lo ha rinserrato. Chi l’ha detto che soffrire per amore sia un male? Massimo Troisi – di Pensavo fosse amore e invece era un calesse – direbbe: «lasciatemi soffrire tranquillo, voglio solo soffrire bene». La luminosa e calda schiavitù di cui canta Ariosto, come quella che fingeva per i suoi eroi nelle isole incantate dell’Oceano, è piuttosto una condizione elettiva che fa vivere come un privilegio ciò che agli altri appare come un tormento (ma qui il poeta demolisce quella concezione penitenziale dell’amore che da Petrarca smotta fino al Cinquecento). E a riprova della sua tesi, Ariosto convoca, nell’ultima terzina – insopprimibile vezzo classicheggiante tipico dell’epoca – due autori (Catullo a Properzio) che cita in filigrana, con abile e liberatoria crasi intertestuale: i «dolci baci, dolcemente impressi | ben mille e mille e mille e mille volte» traducono i catulliani «basia mille, deinde centum / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum» del quinto carme, mentre il «se potran contarsi, anche fien pochi» del verso finale evoca l’«omnia si dederis oscula, pauca dabis» di un famoso carme properziano (II 15). Il “carcere”, perciò, allude anche a una condizione esistenziale ‘resiliente’ (mi si perdoni l’abusato aggettivo da élite del supermercato) che, anche nel più bruciante dei tormenti, fa volgere lo sguardo piuttosto alle gioie dell’amore: ai baci, agli abbracci, al linguaggio senza freni inibitori (leggasi: dirty talking), alle risa, alle carezze, ai giochi.

Amare è un po’ pregare

Parlando di Dante, Beatrice e Francesca durante una lezione, ho chiesto ai miei studenti se credessero al “colpo di fulmine” e li ho visti fare timidi cenni di assenso, quasi avessero il sospetto che volessi sentirmi dire che non esiste o che tra questo e il clamoroso abbaglio corre un discrimine sottile. Non ne sono rimasto né sorpreso né deluso, non mi aspettavo niente di diverso perché sono convinto che la loro età, a differenza della mia, non possa tollerare ancora alcun tipo di disincanto. E quindi m’intenerisce la fiduciosa disposizione all’attesa di quel momento, di quell’istante – direbbe Ivano Fossati – «in cui scocca l’unica freccia / che arriva alla volta celeste / e trafigge le stelle». Nella canzone in cui lo dice – C’è tempo – pochi versi dopo aggiunge: «È il medesimo istante per tutti / che sarà benedetto, io credo / da molto lontano».

Un momento benedetto. Da chi, se non da Dio stesso? E mi viene in mente uno dei miei livres de chevet, il Canzoniere di Petrarca, in cui c’è un sonetto che amo particolarmente, che dell’amore è la benedizione e la preghiera.

Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno, / et la stagione, e ’l tempo, et l’ora, e ’l punto, / e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto / da’ duo begli occhi che legato m’ànno;

Petrarca dedicò una vita, quasi quarant’anni anni, a perenne gloria e memoria non di un giorno (il 6 aprile 1327), ma addirittura di un unico istante, un punto: quello in cui, per la prima volta, i suoi occhi incontrarono lo sguardo di Laura. Per tutto il Canzoniere il suo unico intento si direbbe essere proprio questa bizzarra pretesa: quella di fare storia proprio di ciò che non è intrinsecamente storicizzabile, di dare durata a ciò che durata non ha. Un istante. Anzi, benedice quel momento, e la sua è una preghiera profana intonata con una formula, il benedicite del biblico Canto di Daniele, che nella liturgia evoca il cantico dei tre fanciulli babilonesi, recitato nelle laudi dei giorni domenicali e festivi come invito rivolto a tutti i fedeli e a tutte le creature a elevare lodi di gratitudine a Dio («Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri… Benedetto il tuo nome glorioso e santo… Benedetto sei tu nel tuo tempio santo… Benedetto sei tu nel trono del tuo regno… Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo gli abissi e siedi sui cherubini… Benedetto sei tu nel firmamento del cielo…»).

Solo che nel sonetto LVI il Dio di cui si parla è Amore e i fedeli sono tutti quelli di stilnovistica memoria. Non è l’unica benedizione che Petrarca pronuncia a quell’indirizzo, se ne contano più di una decina nel Canzoniere che testimoniano del fatto che non siamo di fronte solo alla strizzata d’occhio nei confronti di un modello coevo – quello boccacciano del Filostrato («E benedico il tempo, l’anno e ‘l mese, / il giorno, l’ora e ‘l punto che costei / onesta, bella, leggiadra e cortese, / primieramente apparve agli occhi miei», così il certaldese), ma a una vera e propria professione di fede. Non una confessione, dunque, ma la dichiarazione personale e pubblica di un credo. “Professione” viene dal supino professus del verbo latino profiteor a sua volta composto di pro (“avanti”) e fateor (“dichiarare”). È cioè qualcosa di individuale, a differenza della confessione di fede che ha il prefisso cum (= con, insieme).

L’Amore esige, perciò, prima di tutto devozione, e sin dal primo istante. Ma il punto è proprio… quel punto che me ne richiama alla mente un altro, ancor più celebre, che vinse e avvinse i più famosi amanti della Storia: Francesca e Paolo:

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Dante avrebbe potuto usare il termine “passo”, riferendosi alla pagina del Lancillotto di Chrétien de Troyes; Francesca invece richiama dolorosamente alla memoria la sua storia terrena, soffermandosi esattamente sul “punto”, sull’istante temporale nel quale la sua resistenza e quella del suo amante cedettero al desiderio. Tutto il racconto del momento fatale è condensato, così, in un verso e in un attimo che è sineddoche di una storia. Accade così nel colpo di fulmine, che è tale perché siamo disposti a vederci concentrato tutto il destino. Il punto in cui un solo sguardo, come quello di Francesco che in una chiesa di Avignone incrocia gli occhi di Laura, vale come conoscenza dell’Amore e riconoscimento, almeno parziale, di sé stesso.

Nella Divina Commedia, nel XXX del Paradiso, Dante userà anche di nuovo quella parola pronunciata da Francesca – “punto” – per riferirla però stavolta a sé stesso:

Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,

a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.

Nell’uno e nell’altro luogo è di un istante che si parla, il punto di una sconfitta al cospetto di Amore, il quale trionfa sulla volontà dell’individuo. Anche se nel secondo caso si tratta di un mutamento più sostanziale: il punto che “vince” la vista di Dante è l’amore di Dio che retrospettivamente illumina la natura fallace del primo.

Per Petrarca però non è così, lui vorrebbe convincersi che l’amor profano debba essere vinto da quello divino, ma proprio non ce la fa, sotto sotto non ci crede e intimamente sa che la sua è una forma di autoinganno perché dell’amore non è disposto a buttare niente. Nemmeno il dolore che può procurare, nemmeno l’illusione, nemmeno il desiderio non corrisposto. Chi ama è un privilegiato che partecipa di una condizione eccezionale, e poco importa la sofferenza perché l’amore perdona tutto ed è comunque il risarcimento di ogni pena. Un riscatto che impone un solo sentimento: la gratitudine che solo la preghiera sa esprimere. Si prega per ringraziare, non certo per chiedere, come insegna un altro Francesco, il poverello d’Assisi, col suo Cantico che tutto loda per il solo fatto che esiste. Che è quanto dovrebbe fare anche la Poesia, come diceva Auden: «la poesia può fare cento e una cosa, rallegrare, rattristare, turbare, divertire, istruire – può esprimere ogni possibile sfumatura di sentimento, e descrivere ogni immaginabile tipo di evento, ma c’è una cosa che tutta la poesia deve fare: lodare tutto quel che può per il fatto che è ed esiste». La poesia è perciò come la preghiera e la forma di quest’ultima è quella che si addice perciò meglio alla lode dell’amore e alla sua benedizione.

Ecco, qui finalmente Petrarca si affranca dall’ambigua dialettica che governa quell’imponente TAC del sentimento che è tutta l’opera, perennemente oscillante tra innamoramento e pentimento, e proclama fiduciosamente la celebrazione persino della voluttà del dolore:

et benedetto il primo dolce affanno / ch’i’ ebbi ad esser con Amor congiunto, / et l’arco, et le saette ond’i’ fui punto, / et le piaghe che ’nfin al cor mi vanno.

Non sono le parole di un uomo che è amato, ma quelle di chi ama e non è corrisposto e tuttavia benedice anche le lacrime che ha versato per amore, come intende con l’ossimorico “dolce affanno”. Dice anche un’altra cosa interessante: non vanno rimpiante le parole spese per chi si ama, anche se ci fa soffrire. Siano cioè benedette le tante parole che si dicono e si scrivono quando si vuol farne eco dei sentimenti, e con loro tutti i pensieri indirizzati verso chi tiranneggia la mente dell’amante:

Benedette le voci tante ch’io / chiamando il nome de mia donna ò sparte, / e i sospiri, et le lagrime, e ’l desio; / e benedette sian tutte le carte / ov’io fama l’acquisto, e ’l pensier mio, / ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’ha parte.

Nel professare la sua fede in Amore, Petrarca fa qualcosa di rivoluzionario che Dante trovava inconcepibile: proclama cioè la propria fede nelle «carte», vale a dire nella Letteratura. Il V canto dell’Inferno non parlava solo della passione tra Francesca e Paolo, ma soprattutto della scoperta dei rischi insiti in un certo tipo di lettura che induce lo straniamento, la confusione tra finzione e realtà: «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse» è l’invito a diffidare delle seduzioni della parola scritta, di quella che René Girard definirà come “menzogna romantica”. Il Galeotto in questione è il siniscalco Galehaut che nel romanzo di Chrétien istiga spudoratamente il leale Lancillotto a dichiarare il suo amore a Ginevra e assiste al lungo bacio che la dama gli concede. «Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse» significa, nel linguaggio cortese ed elusivo di Francesca, che la Letteratura era stata la mezzana della rovina sua e di quella di Paolo. Che è agli antipodi di quanto pensa Petrarca quando ci fa intendere che il dono e la benedizione delle parole con cui si dice l’amore è esso stesso Amore.