Il bisturi e la penna, il sangue e l’inchiostro

Cui facissi d’iłłu notomia in ogni parti ci truviria a N.
Quandu, tiranna, a casu ti placissi
di fari di mia stissu notomia,
e carni e sangu et ossa mi vidissi
per satisfazioni tua e mia,
iu letu e tu contenti ristirissi
e satisfatta la tua chirurgia,
perchì di parti in parti scopririssi
chi tu sì ngrata e iu moru per tia.

Se qualcuno vivisezionasse il poeta, / troverebbe l’amata in ogni parte. | Tiranna, se per caso ti venisse voglia | di notomizzarmi, | e con mia e tua soddisfazione | vedessi la mia carne, il mio sangue e le mie ossa, | io ne sarei lieto e tu contenta, | e soddisfatta la tua operazione chirurgica, | perché da parte a parte scopriresti | che tu sei ingrata, e io muoio per te.

Antonio Veneziano, dal Libro delle rime siciliane, Libru primu (Celia), 11

Nel secol – il Cinquecento – che più della luce di Petrarca prese, non pochi bagliori s’irradiarono dai versi di Antonello Veneziano (più noto come Antonio). Quello per l’aretino fu un trend virale che in Sicilia conobbe non pochi testimonial: un’ostinata fedeltà garantita da svariati poeti d’accademia impegnati a competere, e in qualche caso a vincere, la sfida con i colleghi delle altre regioni italiane. Ma Veneziano aveva una marcia extra, non fosse altro che per quell’aura d’artista maudit che la sua vita da rebel without a cause gli assicurava, e che lo portava a entrare e uscire di prigione a più riprese, lui, educato dai gesuiti e figlio di un mastro notaro della Curia monrealese.

Tra omicidi e veri e propri ratti (nel 1573 era stato accusato di aver sottratto a una terziaria domenicana una servetta di cui s’era invaghito), il siculo Petrarca conobbe pure Cervantes in una prigione algerina, dopo essere stato catturato dai corsari. E già questi dettagli gli varrebbero almeno un film. Anche perché dall’immortale autore del Chisciotte ricavò sincera stima e amicizia, prima di essere riscattato dalla schiavitù grazie all’intervento della sua ricca e potente famiglia che volle riportarlo a Monreale. Sciarrino (leggi “litigioso”) come pochi, si impegolò ancora in liti e contese a colpi di carta bollata e di libelli contro chiunque – parenti, vescovi e viceré – che gli valsero ancora i ferri, a Palermo, dove morì tragicamente nel ’93 a seguito di un incendio che arse insieme prigioni e detenuti: gioventù bruciata, è il caso di dirlo. A dispetto di tanta vita spericolata, era però anche un uomo molto colto che produsse prose eleganti nonché versi in lingua di apprezzabile nitore; ma le settecentocinquantatre canzuni siciliane scritte per la misteriosa Celia sono, senza tema di smentita, il suo greatest hits. Sullo sfondo c’è sempre il più famoso Canzoniere, ma nell’emulazione di quei famosi stilemi l’aspetto meno convenzionale, e perciò stesso originale, fu il tentativo di pennellare le immagini e le situazioni da repertorio in un modo più espressivo e realistico di quanto non riproducessero le rarefazioni astratte e intellettualistiche di maniera. Insomma, anche quando scriveva veniva fuori la sua indole eslege, con quel gusto per il coup de théâtre d’impatto, per quella ruvidezza da carta vetrata così aliena dalle levigature dei petrarchisti doc.

Lo si può notare anche in questi versi in cui invita l’amata a dissezionarlo chirurgicamente per farle trarre la soddisfazione un po’ sadica di ritrovare in ogni parte del suo organismo tracce di lei. Già il solo dire questo in un registro dialettale “basso” non è poca roba nella storia della poesia cinquecentesca cui si addiceva, all’inverso, l’elevatezza con cui dipanare la tematica amorosa. Se a questo si aggiunge che, pur in questo sdrucciolamento stilistico, Veneziano riesce a essere a un tempo tenero e beffardo, accorato e sprezzante, si capisce come riesca a svisare da virtuoso sulla tastiera linguistica, come uno Scott Joplin ante litteram che alterna ritmi sincopati e contrattempi (come nel dittico finale «perchì di parti in parti scopririssi | chi tu sì ngrata e iu moru per tia»), a riprova di quanto la poesia riesca a essere, talora inconsapevolmente, il correlativo del temperamento di chi la produce. Nel caso di Veneziano, l’espressione di un vitalismo estremo e dannatamente sensuale.

Fuoco d’amore e sospiri estremi

È un foco Amor, che ascoso tien l’ardore; | è ferita, che punge, e non si sente; | è un piacer, che tien l’alme discontente; | è acerbo duol, di cui non si ha dolore: || è un non voler, che ciò che vuole Amore; | è un andar solitario tra la gente; | è un godere con voglie non mai spente; | è un credersi felice ove si more: || è un suggettarsi i vincitori a i vinti; | è uno stare in prigion, perché si vuole; | è un esser fidi a chi ci brama estinti. || Come mai de l’Amor si grande amico | è il core uman, che senza lui si duole, | se Amore de gli amanti è si nemico?

Amor he hum fogo que arde sem se ver; | He ferida que doe e não se sente; | He hum contentamento descontente; | He dor que desatina sem doer; || He hum não querer mais que bem querer; | He solitario andar por entre a gente; | He hum não contentarse de contente; | He cuidar que se ganha em se perder; || He hum estar-se preso por vontade; | He servir a quem vence o vencedor; | He hum ter com quem nos mata lealdade. || Mas como causar póde o seu favor | Nos mortaes corações conformidade, | Sendo a si tão contrário o mesmo Amor?

Luís Vaz de Camões, Amor he hum fogo que arde sem se ver

Di Luís de Camões si sa poco e quel che si sa è parente stretto della leggenda. L’autore delle Lusiadi, il poema nazionale portoghese e del suo massimo eroe, Vasco de Gama, vive nel Cinquecento, il secolo in cui l’Europa letteraria è letteralmente attraversata dal richiamo imperioso della poesia petrarchesca. Al richiamo del componimento alla maniera di non resiste nemmeno lui, ma a differenza di tanti sterili emuli banalmente preoccupati di adeguarsi al costume normativo dell’epoca, si libra altissimo e con sincerità d’ispirazione. Basterebbe anche solo questo sonetto a consacrarlo nel Pantheon lirico lusofono, e non solo in quello. La traduzione di questo sonetto è ottocentesca, si deve a Juan Francisco Masdeu, un erudito spagnolo di origini siciliane (era nato a Palermo), un gesuita esiliato in Italia dopo l’espulsione del suo ordine, che la consegnò a un volume il cui titolo (lunghissimo) riporto perché così mi aggrada: Arte poetica italiana di facile intelligenza. Dialoghi familiari diretti ad insegnare la poesia a qualunque persona di mediocre talento, sia uomo, o donna, benché non altro sappia che solo leggere e scrivere.

La natura ossimorica dell’amore si traduce, con Camões, in un fuoco di fila di metafore caratterizzato dall’eterogenesi dei fini, per cui l’effetto contraddice puntualmente la causa: è fuoco che avvampa, ma non brucia, ferita di cui non si sente il dolore, morte di cui essere felici, un sottomettersi ai vinti. E così via. Da questo bulimico catasto di paradossi e contraddizioni in cui il secondo termine del verso funziona come complemento del primo, ciò che risalta è il voler mettere in dialogo una realtà sensibile (la ferita che fa male) e una spirituale che trascende la prima (non si sente il dolore). Come si fa perciò ad amare l’Amore (assunto che sarà molti anni dopo di Stendhal) ed essergli amico, al punto che non sappiamo farne a meno, se questo è l’aguzzino di ogni amante che si rispetti? Di quest’irresolubile querelle è forma e figura il ricorso costante ad anafore, metafore, ossimori antitesi ordinati in perfetta simmetria, a comporre la musicalità che era fondamento e ragione stessa di quella sublime e frustrante storia di uno scacco matto esistenziale in trecentosessantasei frammenti che era il Canzoniere petrarchesco. A replicarne la sentenza in modi quantomeno più dubitativi del velleitario tentativo di “guarigione” di messer Francesco dal suo «giovenile errore» è proprio l’interrogativo finale che ci dice, in sostanza, qualcosa di non molto diverso da quanto afferma Dante nel suo approccio alla beatitudine celeste: l’Amore, parafrasando, è un’estasi di cui si può solo godere, senza illudersi di penetrarne la ragione «perché appressando sé al suo disire, | nostro intelletto si profonda tanto, | che dietro la memoria non può ire». E questo perché, con buona pace degli aristotelici sillogismi di Camões, da che mondo è mondo l’unica cosa che sappiamo dell’Amore – come di Dio, e come di Luís de Camões – è proprio il nostro non saperne niente, ciò nonostante ostinandoci nel disperato e commovente tentativo di provarci almeno a capirne qualcosa, fino a volerci rompere la testa.