Il primo (e l’ultimo) bacio

Ieri ti ho baciato sulle labbra.
Ti ho baciato sulle labbra. Intense,
rosse. Un bacio così corto
durato più di un lampo,
di un miracolo, più ancora.
Il tempo
dopo averti baciato
non valeva più a nulla
ormai, a nulla
era valso prima.
Nel bacio il suo inizio e la sua fine.
Oggi sto baciando un bacio;
sono solo con le mie labbra.
Le poso
non sulla bocca, no, non più
– dov’è fuggita? –
Le poso
sul bacio che ieri ti ho dato,
sulle bocche unite
dal bacio che hanno baciato.
E dura questo bacio
più del silenzio, della luce.
Perché io non bacio ora
né una carne né una bocca,
che scappa, che mi sfugge.
No.
Ti sto baciando più lontano.

Pedro Salinas, La voce a te dovuta, XXXVI

Esiste un’unità di misura del bacio? Qual è la sua giusta durata? Come se ne calcola l’intensità? Si potrebbe dire che esso duri per tutto il tempo nel quale se ne avrà memoria («E dura questo bacio | più del silenzio, della luce»). Così è almeno per il primo che, di solito, non si dimentica mai perché è come quell’istante – canta Fossati, «in cui scocca l’unica freccia | Che arriva alla volta celeste | E trafigge le stelle». La più travolgente delle passioni potrà finire, risucchiata nel gorgo del disincanto, avvelenata dalle tossine della recriminazione e del rancore, ma anche il finale più amaro non basterà a far svanire, nemmeno a distanza di anni, il ricordo di quell’istante destinato a diffondere per sempre la sua essenza, come ineffabile petricore. E questo perché esso si sottrae a qualsiasi altro momento di quella storia, in quanto ‘punto’ in cui due destini possono incontrarsi e riconoscersi, e sopravvivere a loro stessi anche nell’assenza. Non contano la scenografia e l’ora del giorno in cui si colloca – siano esse il ponte di una nave che volge la sua prua verso il tramonto o un capanno degli attrezzi dalla cui finestrella filtra la luce dell’alba, la parigina esplanade del Trocadéro al meriggio o il posteggio di un centro commerciale a mezzogiorno – poiché la funzione del primo bacio è quella di operare una ‘trasfigurazione’. Memorabile, in questo senso, è il modo in cui il foscoliano Jacopo Ortis descrive il suo primo e unico bacio con l’amatissima Teresa: «Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia». Di questo genere è il bacio di cui scrive il poeta spagnolo Pedro Salinas; il suo coup de foudre con l’ispanista Katherine Whitmore, scoccato all’università di Madrid, ha qualche analogia con quello tra Clizia ed Eugenio Montale che, negli stessi anni, scriveva i Mottetti, altro bellissimo canzoniere d’amore orbitante attorno al motivo dell’assenza. È di una storia tramata soprattutto di parole scritte, infatti, orbitante attorno al vuoto di trepidanti attese, tenuta in vita a lungo dalla gioia di fugaci incontri, che si parla. Ogni poesia della luminosa raccolta di Salinas è un teorema amoroso in sedicesimo e dei baci La voce a te dovuta traccia una fenomenologia in cui sono quasi riassunte le fasi stesse dell’amore: dall’allegria del primo, con cui è l’esistenza stessa a rinominarsi – incipit vita nova, direbbe Dante – all’astratta attesa che genera l’affanno e il desiderio di trovare nei baci successivi il perfetto punto di congiunzione tra corporeità e sentimento, fino all’assenza, in cui la fine dei baci si dissolve nella loro pura memoria («Oggi sto baciando un bacio»), per poi svanire in un bacio irripetibile, e ormai impossibile («Ti sto baciando più lontano»), ma in quanto tale ancor più vivo perché bruciante come inappagabile desiderio.