Eppure c’è stato un tempo – io me lo ricordo! – in cui il cibo lo vedevi solo in due occasioni: a tavola e in tv durante Carosello. Ora ovunque è un trionfo di carboidrati, grassi, proteine che ammiccano da ogni dove e ti ispirano una voluttà di morte che nemmeno i quattro amici della Grande abbuffata di Marco Ferreri quando decidono di ritirarsi in una vecchia villa parigina per suicidarsi in un’orgia di cibo e sesso. Gli odierni officianti del kamasutra gastrico di massa sono loro: gli chef stellati. Ricordo un’edizione di qualche anno fa del Salone del libro di Torino in cui c’era più pubblico per Carlo Cracco o Antonino Cannavacciuolo che per un premio Nobel. Non so se mi spiego. Al Salone del LIBRO, non alla sagra della trippa. Altro che cuochi, perciò, gastrosofi semmai che hanno modificato per sempre il rapporto di qualsiasi comune mortale con la cucina. Uno a caso di loro sta all’ars coquinaria come un archistar quale Renzo Piano sta all’architettura. Si potrebbero definire perciò culistar questi cerusici del filetto, culturisti del villo intestinale, titillatori seriali della papilla gustativa. Imperversano nei cooking show di ogni canale televisivo conquistandosi la stessa bramosa curiosità che nei primi anni della tv commerciale si riservava alle pin-up scosciate di “Drive in” o al parasoubrettismo softcore di “Colpo grosso”.
Gli effetti di questa perversa gastrofilia li registro a tavola, dove gli stessi commensali per i quali fino a qualche anno fa la polpetta era né più né meno che una balla di manzo tritato affogata nel sugo ora ne discutono come se fosse una di quelle sfere di bronzo del noto scultore Arnaldo Pomodoro che si scompongono, si “rompono”, si aprono perché chi le guarda vi scopra un meccanismo interno, un contrasto tra la perfezione della forma esteriore e una qualche recondita complessità interna, ricavabile (nel caso della polpetta) da una sfumatura olfattiva, da un impercettibile accento di spezia esotica, da un imprevisto contrasto salivare.
E siccome siamo quello che mangiamo, l’ormai inevitabile fotografia del piatto da esibire su Instagram, Facebook e Pinterest si trasforma in una nuova e occulta forma di narcisismo al contrario in cui non siamo più noi a specchiarci, ma ciò che compiace il nostro palato e vale a definirci per la fattura che rivela, per la perfezione zen con cui copula col piatto di portata.
Negli anni Cinquanta, il Roland Barthes di Miti d’oggi, aveva già profetizzato l’invasione e la suggestione profonda delle immagini legate al cibo, descrivendo le foto delle pagine di cucina di una rivista francese come “ciò che offre fantasie a coloro che non possono permettersi di cucinare certi pasti”. Ma parlarne, al contrario, è permesso a tutti ed è così sempre ormai, per tutto il pranzo o la cena, in un barocco esercizio di equilibrismo verbale che trascorre dalla dissertazione sul livello di “granatura” alla lezione sul modo più efficace di “croccantare”, che ti vaporizza le appendici riproduttive quanto un dibattito sulla fiducia al governo, e giù giù fino al caffè che se non rilascia almeno una “nota” di legno aromatico o caramello vale quanto la scolatura dei piatti messi a lavare.
Roba che mi fa rimpiangere ogni volta il classico panino vastaso dei carrozzoni ambulanti alle sagre del pomodoro a scocca. Maledette culistar!