Una donna, di passaggio

Urlava attorno a me la via, senza pietà.
Alta, snella, in gramaglie, sovranamente triste,
con sontuosa mano sollevando le liste
dell’abito, guarnito di ondosi falbalà,
e con gamba di statua, passò una donna: vidi,
bevvi nell’occhio suo, con spasimi d’insano,
come in un cielo livido, gravido d’uragano,
dolcezze ammalianti e piaceri omicidi.
Fu un lampo… poi la notte. Fuggitiva beltà,
nel cui sguardo, all’istante, l’anima mia risorse,
non ti vedrò più dunque che nell’eternità?
Altrove, e via di qui! Troppo tardi! mai, forse!
Poiché corriamo entrambi a ignoto e opposto sito,
o tu che avrei amato, o tu che l’hai capito!

Charles Baudelaire, Una passante, da I fiori del male (trad. G. Bufalino)

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet;
Agile et noble, aves sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
Un éclair… puis la nuit! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?
Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être!
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!

La passante di Baudelaire, ovvero il moderno mito dell’innamoramento-flash. Si può incontrare una donna per strada, scorgerla in una moltitudine come per epifania, perderla di vista poiché risucchiata dal movimento della folla e vagheggiarla per una vita senza avere più l’occasione di incontrarla di nuovo? Dal XIX secolo in poi accade più frequentemente di quanto non s’immagini. È l’anonimato metropolitano, il ritmo della città-formicaio, il suo frastuono, che sembrano disporre a questo tipo di stordimento; non è un topos inventato dall’autore dei Fiori del male – quello della bellezza fugace – ma è come se, dopo di lui, diventasse un’ossessione, l’inquieta testimonianza dello smarrimento dell’identità e la sinopia delle contemporanee teorizzazioni sulla modernità liquida e sulla provvisorietà delle relazioni. Ingredienti: una sosta – a un crocicchio, alla fermata del bus, sul marciapiedi di una stazione ferroviaria -; uno sguardo come un lampo («Un éclair…», che evoca sia la luce degli occhi sia il suo passaggio fulmineo come una meteora); una distrazione che risucchi quella chiarità nel buio («… puis la nuit!»). Frullare tutto, servire freddo e sorseggiare per un tempo lungo, addirittura eterno («Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?»).

La protagonista del sonetto baudelairiano è una figura longilinea e statuaria che attraversa la strada, solo apparentemente inconsapevole della seduzione che esercita, ma la sua singolarità è la vedovanza. È il suo luttuoso outfit, con gli ondosi falbalà della gramaglia simili alle increspature di un mare in cui annegare, a farla assomigliare a una dark lady da film noir: quel “nero” che Baudelaire definisce, nel Salon del 1846, «tegumento dell’eroe moderno». Lì lo scrittore parla di uomini, in verità, dei loro abiti, per cui quel colore, associato alla donna, proietta un’allure virile che la rende, per ciò stesso, minacciosa, inquietante. In quanto vedove sono libere, indipendenti e non sottomesse a mariti. Quanto basta a turbare una mascolinità che sarà via via più sempre terremotata. Dopo Baudelaire, in letteratura, sarà tutto un andirivieni di passanti, una di loro traghetterà anche in musica, in una canzone di Georges Brassens, prima che il nostro Fabrizio De André dedichi la sua Le passanti «ad ogni donna pensata come amore / in un attimo di libertà / a quella conosciuta appena / non c’era tempo e valeva la pena / di perderci un secolo in più». Del resto, mi convince ancora l’idea che non esista amore più duraturo di quello – vagheggiato e non corrisposto – per un fantasma di donna.

I paradossi dell’amore

Quei giorni perduti a rincorrere il vento
a chiederci un bacio e volerne altri cento
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai

e tu che con gli occhi di un altro colore
mi dici le stesse parole d’amore
fra un mese fra un anno scordate le avrai

amore che vieni da me fuggirai
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai

venuto dal sole o da spiagge gelate
perduto in novembre o col vento d’estate
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai.

Fabrizio De Andrè, Amore che vieni amore che vai

All’amore non si addice la precisione o l’esattezza, non è carne che si possa incidere con un bisturi. Se quando ti innamori, non ti senti franare il terreno sotto i piedi e non barcolli come un ubriaco, sopraffatto dalla vertigine, probabilmente non sei ancora pronto ad amare. Questa condizione d’incertezza e di confusione è uno stereotipo solitamente declinato al femminile, ma quale essere umano può dirsene immune? De André, comunque, è uno di quei rari autori che riesce a confonderti tutte le idee; molte sue canzoni attraversano il tema, ma alla fine ci lasciano più dubbi che rassicurazioni. Del resto, Boccaccio l’aveva già detto nel proemio del Decameron, quando si autodenunciava come uno che, per poco, non era diventato pazzo a causa di una donna, salvo poi a scoprire che persino da questo genere di follie si può guarire, che anche nel più precario degli smottamenti esistenziali si può riuscire a non perdere l’equilibrio. E non servono terapie d’urto, ma il semplice conforto delle parole, la psicoterapia di una saviezza appena appena elementare. Me lo ripeteva, anni fa, il mio falegname – terza media e quarant’anni passati in bottega a piallare e smussare gli spigoli delle più legnose complicazioni: «ntà vita ci voli sempri ‘n pocu ‘i buon sensu». Quando si riesce ad applicarlo, le cose ti appaiono miracolosamente chiare e puoi persino scoprire che l’amore, come tutte le cose della vita, può nascere e morire per naturale causalità. E quando finisce, si placherà da sé il tormento del «non posso vivere senza di lui/lei» per lasciare il posto a domande quali: «ma come ho fatto a innamorarmi di quello/a?», «che c’azzeccava con me?». In amore vige la legge, già enunciata da Boccaccio, della mutevolezza incessante e dell’eterna ciclicità; De André la ribadisce, quasi a voler dire che quella precarietà che asseconda le relazioni è frutto non già dell’Amore, ma del Desiderio e che, paradossalmente, non facciamo che amare sempre, in loop, i nostri stessi desideri. Cosa può significare il suo «io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai», se non che l’innamoramento è la condizione di sanità mentale più vicina alla follia, essendo questa stessa paradosso?

Peana per Sanremo (inteso come festival)

Nonostante la convenzionalità della sua annuale liturgia, mi piace la kermesse (così la chiamano quelli che sanno parlare) sanremese. E mi piacciono le canzonette che, non di rado, non «sono solo canzonette», come cantava Edoardo Bennato. Per uno stigma di leggerezza che accompagna il termine, siamo abituati, infatti, come italiani, ad associare loro l’idea del disimpegno, tanto da definire “leggera” la musica che passa dal palco del teatro Ariston e che in Francia si chiama, invece, musiques de variétes. Non la leggerezza, quindi, che evoca il «cuscino di piume, l’acqua del fiume che passa che va», di carrisiana memoria (nel senso di Carrisi “Al Bano”) o «una sola canzone per far confusione fuori e dentro di te» di stampo “riccopoveristico”, ma la varietas della forma che può dare ospitalità persino a versi struggenti come «laisse-moi devenir | l’ombre de ton ombre | l’ombre de ta main | l’ombre de ton chien» o «Non perderti per niente al mondo | lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te», al cui confronto persino Eugenio Montale si scanserebbe. Già nel 1964, Umberto Eco (Apocalittici e integrati) scriveva che «non è necessario che intrattenimento ed evasione, gioco, ristoro siano perciò stesso sinonimo di irresponsabilità, automatismo, qualunquismo, ghiottoneria sregolata» ed è quindi ormai comune la consapevolezza – almeno da quando l’Accademia di Svezia ha sdoganato definitivamente le canzoni conferendo il Nobel a Bob Dylan – che la strofa di una canzone possa avere pari dignità letteraria di una terzina dantesca.

Amo, ovviamente, le canzoni cosiddette “d’autore”, perché penso che proprio i cantautori (termine ormai onnicomprensivo e probabilmente desueto), in ogni tempo, siano stati tra i pochi che abbiano saputo raccontare la poesia. Mi sorprende sempre il fatto di riuscire a ricordare esattamente tutto il testo dell’Avvelenata di Guccini o 4 marzo ’43 di Dalla e pochissime poesie per intero, anche quelle che mi è capitato di spiegare decine di volte. Non imparo versi a memoria, ma alcuni canti della Divina Commedia mi sono entrati spontaneamente in testa. Non mi entusiasma l’idea di un ragazzo che digerisca e sciorini le terzine di un intero canto del poema dantesco, come mi lasciò affatto indifferente un professore del liceo che si compiaceva nel declamare il trentatreesimo del Paradiso, senza però riuscire a far sentire la potenza delle rime e delle immagini, la sua paura davanti al testo, il convincimento di essere arrivato davvero nell’Empireo.

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Ora posso dirlo: ringrazio Petrarca, Leopardi e Saba. Sono stati loro, paradossalmente, a farmi approdare, entusiasta e impudico, alle  “canzonette”. E mi dà un grande piacere ascoltarle ogni giorno mentre guido o cammino per strada e chiedermi puntualmente quanto sottile sia il confine tra l’arte e la boiata pazzesca. Le canzoni assomigliano sempre a chi le ascolta, così come i libri assomigliano sempre a chi li legge. Lo spiega bene Truffaut in quella sequenza della Signora della porta accanto in cui fa dire a Mathilde-Fanny Ardant: «Ascolto solo le canzoni d’a­more perché dicono la verità, più sono stupide più sono vere… e poi non sono stupide. Che dicono? Dicono “non devi lasciarmi”, “senza di te in me non c’è vita”, “senza di te io sono una casa vuo­ta”, “lascia che io divenga l’ombra della tua ombra” oppure “senza amore non siamo niente”». Il regista francese disse pure, in qualche intervista, non so dove, che quel film assomigliava a una canzone di Edith Piaf, era un po’ come Ne me quitte pas di Jacques Brel.

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Vecchia questione quella del rapporto tra poesia e canzone. Mi piacerebbe, un anno, dedicare un intero corso di letteratura italiana ai ‘dintorni’ della letteratura. Chessò: un ciclo di conversazioni sulle voci di Buscaglione e Conte, Tenco e De André, Springsteen e Tom Waits, che sono riusciti a raccontare la loro epoca meglio di quanto facciano quei poeti che – loro sì – per dirla con il poetico (senza virgolette) Ligabue, “hanno perso le parole”. E questo perché la forza della musica “leggera” (sì, persino quella di Sanremo) è nel suo essere anche cultura orale. Come nell’incipit di Moby Dick («Chiamatemi Ismaele»), in cui Melville è come se ci dicesse “guardate che non è solo roba scritta quella che leggerete, ma voce, racconto, respiro, invenzione senza fine”. Sì, la canzone è voce che racconta versi, per questo cattura più della poesia (un mio ex alunno delle medie mi diceva: «prof, Dante non lo capisco, invece Vasco mi prende»). La poesia vuol essere rimasticata dalle parole di tutti e allora forse le inventeremmo o le scopriremmo una funzione. Chi ricorda Travis-De Niro in Taxi Driver? Ripeteva a memoria un intero elenco del telefono in modo autistico. Eroico certo, ma profondamente malato, indurito, a un punto morto e senza speranza.

Io non me ne farò mai niente della letteratura che si perpetua uguale a sé stessa. Io vorrei che la poesia passasse di bocca in bocca, come le strofe di una canzone. Forse è per questo che i moderni vati sono le star della musica. E forse è giusto che sia così. I poeti avrebbero tanto da imparare ascoltando Sanremo, capirebbero che la parola può essere muffa (o «merda», come diceva Rimbaud della poesia), se non diventa corpo, fiato, spirito, sangue, se non si scioglie tra le dita quando cominciamo ad ascoltare le voci che si muovono sotto e dentro di essa. Proprio come succede con alcune canzoni che ci parlano, ci raccontano, ci mentono, ci recitano e, recitando, elaborano sogni, rappresentano il presente.