Quei giorni perduti a rincorrere il vento
a chiederci un bacio e volerne altri cento
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai
e tu che con gli occhi di un altro colore
mi dici le stesse parole d’amore
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai
venuto dal sole o da spiagge gelate
perduto in novembre o col vento d’estate
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai
io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai
amore che vieni, amore che vai.
Fabrizio De Andrè, Amore che vieni amore che vai
All’amore non si addice la precisione o l’esattezza, non è carne che si possa incidere con un bisturi. Se quando ti innamori, non ti senti franare il terreno sotto i piedi e non barcolli come un ubriaco, sopraffatto dalla vertigine, probabilmente non sei ancora pronto ad amare. Questa condizione d’incertezza e di confusione è uno stereotipo solitamente declinato al femminile, ma quale essere umano può dirsene immune? De André, comunque, è uno di quei rari autori che riesce a confonderti tutte le idee; molte sue canzoni attraversano il tema, ma alla fine ci lasciano più dubbi che rassicurazioni. Del resto, Boccaccio l’aveva già detto nel proemio del Decameron, quando si autodenunciava come uno che, per poco, non era diventato pazzo a causa di una donna, salvo poi a scoprire che persino da questo genere di follie si può guarire, che anche nel più precario degli smottamenti esistenziali si può riuscire a non perdere l’equilibrio. E non servono terapie d’urto, ma il semplice conforto delle parole, la psicoterapia di una saviezza appena appena elementare. Me lo ripeteva, anni fa, il mio falegname – terza media e quarant’anni passati in bottega a piallare e smussare gli spigoli delle più legnose complicazioni: «ntà vita ci voli sempri ‘n pocu ‘i buon sensu». Quando si riesce ad applicarlo, le cose ti appaiono miracolosamente chiare e puoi persino scoprire che l’amore, come tutte le cose della vita, può nascere e morire per naturale causalità. E quando finisce, si placherà da sé il tormento del «non posso vivere senza di lui/lei» per lasciare il posto a domande quali: «ma come ho fatto a innamorarmi di quello/a?», «che c’azzeccava con me?». In amore vige la legge, già enunciata da Boccaccio, della mutevolezza incessante e dell’eterna ciclicità; De André la ribadisce, quasi a voler dire che quella precarietà che asseconda le relazioni è frutto non già dell’Amore, ma del Desiderio e che, paradossalmente, non facciamo che amare sempre, in loop, i nostri stessi desideri. Cosa può significare il suo «io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai», se non che l’innamoramento è la condizione di sanità mentale più vicina alla follia, essendo questa stessa paradosso?
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