Rinnovate ho per te le antiche date
sino da quando l’Ellade gioiosa
si compiaceva d’ogni assurdo, cupo
seno di vergini aggiogate
allo splendido carro apollineo.
E, infuriata com’esse grido all’ara
del tuo amore perfetto
tutta la forza del mio sangue oscura.
Tu, bellissimo Iddio che nella fronte
reggi un gioiello di pazienza duro
e sopporti implacabile le forme
del mio amore vivace, tumultuoso,
guardi alle mie incertezze come a un campo
seminato di indocili bufere
guardi apprensivo l’occhio del Signore.
(Ché cristiana son io ma non ricordo
dove e quando finì dentro il mio cuore
tutto quel paganesimo che vivo).
Alda Merini, Rinnovate ho per te

AM א: le iniziali sovrapposte assomigliano graficamente alla prima lettera dell’alfabeto ebraico: A come áleph, l’inizio connesso all’uomo stesso, M come Merini e come Maria, quella con cui dialoga nel suo Magnificat, cioè la Donna della Parola, che accoglie dentro di sé, nel grembo, il corpo d’amore, il messaggio eterno che dovrà trasfigurare. Forse in questo capriccio critico si può nascondere la chiave che può aiutare a squadernare l’intimo dissidio che regge i versi della più pop tra le poetesse italiane del Novecento (la consacra tale l’acritica alluvione di pagine che le dedica il web), tra la vertigine di una dimensione fortemente spirituale e l’abisso dei sensi, di un «corpo, ludibrio grigio» che imprigiona e però apre le porte dell’anima. La sensualità non è impermeabile alla manifestazione del divino, anzi accade sovente che proprio la carne ne registri la presenza, ne illumini l’enigma. Il corpo è l’orma dell’Invisibile divino e solo nell’amore trova verità e tregua. Spirito e carne in una perenne lotta d’amore, dunque, in un continuo dialogo di senso, fatto di assordanti silenzi e tacite grida, seduzione e abbandono.

Non è facile, nel caso della «poetessa dei Navigli» accostarlesi mantenendo il convenzionale distacco critico necessario al giudizio, e forse nel suo caso non è nemmeno necessario adottarlo, o non è comunque più produttivo del lasciarsi empaticamente invadere da una parola anche ritmicamente intrisa di furori pagani e tregue apollinee, sensualità e malessere, santità e dannazione. Troppo ingombranti e fuorvianti risultano la sua biografia, il calvario della malattia e la tortura dell’internamento, perché si possano accantonare, eppure la poesia s’impone sempre, restituendo quasi mutati i dati biografici, quasi che sia la vita stessa a derivare da essa. Scremati tutti i riferimenti alla “naturalità” e spontaneità della sua poesia, nonché la facile e scontata prossimità con la leggenda della sua vita, in perenne lotta col disordine mentale, si farebbe bene a ricordare, con Maria Corti, che «la scrittura poetica è un dato che mette nell’ombra ogni cronaca coi suoi eventi».

Certo le tematiche di Merini inducono alla tentazione di accostare la sua scrittura pulsionale alla matrice confessionale, di matrice anglosassone, di autrici come Sylvia Plath o Anne Sexton, testimoni ed eredi di grandi sistemi lirici di natura emozionale ed esperenziale già schizzati, a cavallo fra Ottocento e Novecento, da Emily Dickinson, Emily Brönte o Elisabeth Barret Browning. Ma laddove le due inglesi precipitano nel maelström allucinatorio di una bellezza infinita e irredimibile, Alda accetta invece fino in fondo l’itinerario della Passione. O forse sarebbe più giusto ammettere che, nella vocazione confessionale di molte poetesse “maledette”, c’è qualcosa che le accomuna alla dimensione mistica, la traccia erotica di un dolore segreto che attraversa tutta la vita e la scrittura, come la traccia di un’assenza mai colmata. La confessione sembra essere un metodo per non annichilire e disperdersi, ma conseguire una condizione quasi di invulnerabilità; tutta la poesia di Alda è alla ricerca di questa unità, essendo la quotidiana frantumazione, dualismo e dispersione di sé. Per lei, la reductio ad unum passa attraverso l’Amore, intermediario tra vita sensibile e contemplazione del vero, come affermava la grande filosofa spagnola Marìa Zambrano (La confessione come genere letterario), mentre la natura della nostra vita è «dispersività, passività e passionalità» e la verità non può avere la meglio sulla vita se non innamorandola, rendendola «resa senza rancore».