A fior di labbra

Tacciono i boschi e i fiumi,
e ’l mar senza onda giace,
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna; 

e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose.
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.

Torquato Tasso, Tacciono i boschi e i fiumi, dalle Rime

Sarebbero tanti i motivi che ci farebbero considerare Torquato Tasso il primo poeta ‘moderno’; non ultimo il suo disordine psichico, diverso da quello degli artisti folli che l’hanno preceduto, a partire da Lucrezio. Lui fu un malato ‘moderno’ perché ‘moderna’ era la sua patologia psichica, quella maladie de l’âme non infrequente e non sorprendente dall’Ottocento in giù, se si pensa a quella lunga teoria di nevrotici che forma il Novecento letterario europeo. E non è un certo un caso che uno dei più grandi tra questi – Giacomo Leopardi – dichiarasse nei suoi confronti un sentimento di “fraternità”. Poeta dolce e tormentato, tragico e sublime, umile e geniale, in perenne e intimo conflitto tra croce e mezzaluna, tra ortodossia ed eresia, e con una non comune capacità di penetrazione psicologica (basterebbe pensare anche solo a quelle protofemministe di Clorinda, Armida ed Erminia, per comprendere dell’animo umano, e femminile in particolare, cose che solo i novecenteschi scavi archeologici nella psiche avrebbero rivelato con pari profondità). Tasso più autentico, a mio giudizio, non è però quello del poema sua gloria e condanna e su cui si ruppe la testa per una vita – la Gerusalemme Liberata -, ma quello lirico di favole come Aminta, laddove risulta più sincero proprio per l’abbandono che si concede alla vaghezza e alla musicalità che furono tregua e ristoro al proprio animo tormentato. E quello delle Rime e dei madrigali come quest’impalpabile Tacciono i boschi e i fiumi.

Fu quella la sua vera natura, cui si abbandonò con struggimento e sensualità; il poeta, insomma, rugiadoso e malinconico, notturno e lunare, che lascia parlare per sé i suoni naturali e i sospiri, e che crea pieni e presenze evocando vuoti e silenzi. Tasso ad eccelso tasso di musicalità in versi perfetti come «e ’l mar senza onda giace» o «sien muti i baci e muti i miei sospiri» che da soli valgono tutta la produzione poetica di un qualsiasi autore contemporaneo che s’illuda di far poesia parlando di bavaglini e ammorbidenti. Con altri madrigali ha in comune il suo essere ‘frammento’ dell’animo con cui componeva il poema maggiore: da quell’effusione del sentimento nell’atmosfera notturna e nella pace lunare, da quel farsi della natura correlativo soggettivo che ciascun lettore ammiratore/amante di Erminia ricorda, deriva una sensazione di malinconia cosmica. Non ci sono brividi, tutto è immobile tranne l’emozione di baci «muti», quasi a fior di labbra, di sospiri attenuati per non turbare l’atmosfera di una natura che ha persino sospeso il suo ciclo per permettere a due creature di amarsi: le onde nel mare si fermano, il vento smette di soffiare, tutto tace, e nel tacere si libera, in slow motion – l’ultimo verso, lentissimo fino all’ultima sillaba – lo struggimento tenero dei sospiri d’amore.

Acrostico traverso

Si tratta di una variante più articolata, di mia invenzione, del tradizionale acrostico. In questa forma, non sono le lettere iniziali di ogni verso a formare un nome ma, nell’ordine: la prima lettera della prima parola del primo verso, la prima lettera della seconda parola del secondo verso, la prima lettera della terza parola del terzo verso, e così via. Quello che segue è un esempio, dedicato a uno dei miei personaggi letterari preferiti.

 

1200px-Armide«Argo non mai, non vide Cipro o Delo»

tanti ricci capelli promettere

lusinghe di magie e disincanti.

Se alla felicità ingannare serva,

sa l’astuta e dilettosa giovane

che nel fuoco ti svelerà Amore.