Spesso il male di scrivere ho incontrato

Mi rivolgo ai miei studenti, passati presenti e futuri, di terra di mare e dell’aria. Gli altri miei venticinque lettori sono dispensati dal continuare a scorrere quanto sto per spiegare. Ai professori – è risaputo – si addice la pedanteria; nel mio caso si aggiunge il convincimento che le parole siano le cose stesse e usarle con chirurgica precisione sia essenziale non solo all’esattezza della comunicazione, ma anche per farsi un’idea di chi le pronuncia. Insomma: siamo le parole che usiamo, in inscindibile connubio tra forma e sostanza. Per conseguente deformazione professionale derivante dall’assunto, sappiate che non riesco a fare a meno di prestare attenzione anche alle sillabe che usate mentre parlate. E ancor più, per forza di cose, quando scrivete. La mia, perciò, non vuol essere una paternale, ma un bouquet di spassionati consigli di cui potrete avvalervi nei confronti della vita e di chi non sia disposto a trattarvi con l’indulgenza di cui, per quanto mi riguarda, potreste continuare a godere. Molti di voi, ve lo auguro di cuore, metteranno prima o poi piede in un’aula scolastica e, a parti invertite, dovranno a loro volta rendersi credibili facendo digerire qualsivoglia scrupolo grammaticale a classi di adolescenti acciabattoni che parlano peggio di un trapper recuperato da un qualsiasi episodio di Mare fuori.

Lo dico con tutto il rispetto per i veri trapper, per quei cacciatori ed esploratori come David Crockett che, durante la guerra d’indipendenza americana, scorrazzavano tra le Montagne rocciose del nord America, alla ricerca di selvaggina. Altro che Sfera Ebbasta e Colla Zio, coi loro nomi disneyani. Sorvolo su questo, radendo le intermittence du cœur che ora mi farebbero evocare le strisce a fumetti del Grande Blek che ho amato da ragazzino, per ribadire che l’habitus linguistico è il prodotto di una dimestichezza sartoriale cui ci si abitua con l’esercizio quotidiano delle parole, anche nelle incombenze più fastidiose e routinarie, come quella di scrivere un’email. E arrivo finalmente al punto: le email.

Quando vi accingete a scrivere a un docente per esternare le esigenze più disparate – prolungamenti d’esami; informazioni sui programmi di studio, richieste di appuntamenti; auguri; dilemmi esistenziali d’origine incontrollata – abbiate l’accortezza di ricordare che non vi state rivolgendo a un amico. Ma, in generale, fate vostro il principio per cui il registro formale da adottare, in ogni contesto, debba essere sempre adeguato al ruolo dell’interlocutore, e questo a prescindere – direbbe Totò – dai rapporti più o meno cordiali che si intrattengano con la persona in questione. Quindi, il primo elementare suggerimento è quello di usare il lei; il secondo è di essere il più possibile sintetici, precisi e chiari per ottenere che chi legge arrivi alla fine comprendendo senza fraintendimenti il contenuto. 

Ricevo ogni giorno decine di email e, se non ho presente immediatamente quale sia il problema, tendo a passare oltre, quindi usate una sintassi che prediliga le frasi brevi, costruite in maniera lineare – soggetto, predicato, complemento – e la coordinazione. Evitate comunque di essere generici nelle richieste d’informazioni, soprattutto se sul sito del dipartimento trovate già la risposta al vostro quesito. Di solito, chi lavora in un ente pubblico dispone di una casella di posta elettronica di servizio, identificata da un nome macchina particolare (es. rosario.castelli@unict.it) e di un indirizzo personale fornito da un altro provider (gmail, hotmail, tiscali, e compagnia cantando): è preferibile usare il primo quando l’oggetto della corrispondenza attiene a questioni che hanno a che fare col lavoro del destinatario. Anche le studentesse e gli studenti farebbero bene a dotarsi di un doppio indirizzo, scegliendo di volta in volta, a seconda del genere di comunicazione, un nome utente facilmente identificabile: evitate perciò imbarazzanti nomi di fantasia (p.e.: patatina21; puccipucci18; assodimazze), tanto più se utilizzate la mail per ragioni legate alla vostra vita universitaria. 

Di seguito, alcune dritte suggeritemi dall’esperienza reale, con esempi di svarioni realmente e facilmente documentabili:

  • Indicate sempre l’oggetto dell’email nell’apposito spazio; p.e.: richiesta di appuntamento e non una generica: richiesta.
  • Non iniziate ex abrupto con espressioni del tipo: sono la studentessa Fantoni Cesira (ricordate di far precedere sempre il nome al cognome quindi, semmai, Cesira Fantoni). Ancor peggio, mi è capitato e mi riferisco ai miei laureandi, è presentarsi con l’espressione: Sono la tesi su… che sa molto di dadaismo.
  • Usate una formula di cortesia che si collochi quantomeno a metà strada tra l’euforica pacca sulla spalla e la rigidità tassidermica, quindi non Salve prof, ma nemmeno Egregio professore che suona moderno come la ricostruzione dei canali di Venezia a Las Vegas. Va bene: Gentile professore, non abbreviato e col sostantivo in minuscolo. Anche se certe espressioni convenzionali possono sembrarvi affettate o antiquate, tuttavia, in una comunicazione formale, sono sempre preferibili allo sbraco e alla sciatteria diffusi.
  • Se fate una richiesta formale in terza persona (es.: il/la sottoscritto/a sottoscritto/a, fatela precedere da formule fisse del tipo Con la presente e concludere da altre come In attesa di Sue comunicazioni o In attesa di un Suo riscontro.
  • Se usate il Lei, ricordatevi che più autorevole è il destinatario (presidenti di corsi di studio; direttori di dipartimento) più è giustificata la lettera maiuscola tanto per i pronomi personali che per gli aggettivi possessivi, anche quando si trovano all’interno di una parola (ad esempio: Vorrei chiederLe…). Per quanto mi riguarda, tuttavia, voglio precisare che non ci tengo più di tanto. Questa dell’alternanza Maiuscole/minuscole è un retaggio del Ventennio fascista (a proposito: i nomi dei decenni o dei secoli vanno in maiuscolo, quelli dei giorni della settimana e dei mesi in minuscolo). All’epoca, era obbligatorio scrivere in questo modo i sostantivi indicanti autorità. Abusarne oggi mi suona come un’autodenuncia d’inferiorità, una forma di rispetto da popolani-servi. E soprattutto: mai scrivere in stampatello (MAI), a meno che non abbiate otto anni o scontiate un analfabetismo di ritorno. Le parole – ad eccezione dei nomi propri; di quelle a inizio di frase; di quelle che seguono punto fermo, punto interrogativo, punto esclamativo; delle prime di un discorso diretto – vanno scritte in minuscolo. Basse o piccole, per usare un’espressione corrente e corriva (peraltro errata), ma comprensibile, e che dovrebbe più che altro riferirsi alla dimensione del carattere e alla sua posizione rispetto al rigo o alle altre parole.
  • Suddividete il testo in brevi paragrafi, preferibilmente separati da uno spazio bianco.
  • Concludete con una formula di saluto, p.e.: Cordiali saluti; Cordialità, Cordialmente. Una a scelta, non tutte.
  • Firmate con NOME (prima) e COGNOME (dopo).

In ogni caso, la regola principe è quella di badare alla correttezza di ortografia e punteggiatura, evitando di riversare nello scritto modi di dire, vezzi desueti, lapsus, sbavature frequenti nella lingua, e di cui mi pregio di offrire sintetico e doveroso campionario.

  • missiva: se lo usate al posto di lettera, state tranquilli che non la state nobilitando;
  • di concerto: non rende il discorso più musicale, meglio preferirgli di comune accordo o d’accordo con;
  • con riferimento alla richiesta in oggetto: se è già specificata dall’oggetto, è espressione ridondante (non «rindondante», come mi è capitato di sentire, che ha sicuramente forza onomatopeica da poesia fonosimbolista a voler indicare un insistente scampanìo domenicale, ma non significa niente). Non siete manzoniani azzeccagarbugli che hanno bisogno di ricorrere a espressioni gergali per autocandidarsi a vestali di chissà quale competenza;
  • sta mattina (p.e.: «mi sono recato sta mattina»; «le invierò sta sera»): si scrive tutto attaccato, poiché l’aferesi dell’aggettivo dimostrativo questa, ‘sta, si unisce alla parola successiva in virtù di un fenomeno che prende il nome di “univerbazione”. ‘Sta (come ‘sti) sono portato ad associarlo comunemente ad altri sostantivi triviali. Lo stesso vale per stavolta, stanotte, stasera, fidatevi;
  • pultroppo: non esiste. Ogni volta che lo si usa muore una capra sotto una panca e trentatré trentini si suicidano prima di arrivare a Trento allegramente trotterellando. Si scrive purtroppo, per indicare rammarico o dispiacere;
  • apposto (p.e.: «ho controllato ed è tutto apposto»): è participio passato di apporre e si appone «a fianco» (non «affianco») nel senso di «collocato»; chi si ostina a usarlo per indicare che qualcosa è in ordine o regolare, lo fa apposta e non è a posto col cervello;
  • a livello di: mi spara in testa. Se lo usate per significare «relativamente a» (p.e. «non mi sento ancora pronto per l’esame, a livello di preparazione») avete giusto piallato la lingua al livello dell’encefalogramma piatto di uno stato comatoso. Se poi aggiungete «per cui vorrei rivedere un attimino il programma a livello di analisi dei testi», vi sconsiglio di presentarvi agli appelli, quando (non «dove») verrà il momento di valutare la vostra preparazione;
  • in calce alla presente, per dire «in allegato», solo se state pensando alla ristrutturazione di un immobile che necessita di una commessa di calcestruzzo;
  • imbocca al/a lupo: solo riferendosi all’atto di imboccare, e comunque da usare in modo transitivo («imboccare qualcuno», non a «qualcuno») nel senso di «nutrire», «dar da mangiare». Se proprio non potete farne a meno, è preferibile farlo con un canide in fase di svezzamento e non con un lupo adulto. Se invece intendete formulare un augurio, come quello che sinceramente vi faccio per la vostra carriera, scrivete: in bocca al lupo.

;

Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del punto e virgola. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: ministri e deputati; scrittori e professori; allenatori e calciatori; studenti e influencer. Il più negletto tra i segni di punteggiatura è tollerato, al più, come incongrua pecetta infralinguistica, disancorata da un suo uso effettivamente funzionale, un po’ come le fugaci apparizioni di Hitchcock nei suoi film o i messaggi subliminali e satanici che si potevano udire nei vinili delle rock band, suonati al contrario. Insomma, per dirla con un neologismo pescato dal Pasticciaccio di Gadda, quando proprio va bene il suo uso è cinobalanico («l’orgasmo cinobalanico dell’antecipato giudizio»), dal greco κύων, κυνός (kyon, kynòs «cane») e βάλανος (balanos=glande). Se non fosse che serve, nei messaggini, a fare l’emoji che fa l’occhiolino – 😉 – non se lo filerebbe nessuno e lo si potrebbe anche togliere dalle tastiere.

Sarà per quella sua posa leziosa che si fa beffe dell’austera assertività del punto o della minacciosa perentorietà dei due punti, fatto è che lo amo; è come lo sbuffo di profumo da vaporizzare sul collo prima di uscire per andare a un appuntamento galante. Non c’entra niente con la sostanza, ma dice tutto delle sfumature; serve, infatti, a mettere in relazione due segmenti di frasi tra i quali c’è nesso logico, ma non sintattico. Quindi, si direbbe che è come un lubrificante del pensiero, serve a vivacizzare il periodare pallido e assorto. Lode, perciò, al grande editore Aldo Manuzio che lo inventò nella seconda metà del Quattrocento. Manzoni, insuperato lavandaio in Arno, ne fa usi notevoli, come quando mette di fronte un untuoso Don Rodrigo che si autocandida “protettore” di Lucia a un titanico fra Cristoforo che gli taglia le gambe proprio con un punto e virgola, adoperato a mo’ di sprangata sui denti del signorotto: «… la vostra protezione! Bene sta che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colma la misura; e non vi temo più». Il punto sarebbe stato troppo e la virgola troppo poco; ecco allora che quell’esatta e studiata pausa amplifica perfettamente il tono fermo della perentoria frase finale: «non vi temo più». E Don Rodrigo se la prende così in saccoccia.

Una nota teoria evoluzionistica affermava che «la funzione crea l’organo», ma perché questo si sviluppi occorre l’uso. Che fine ha fatto, oggi, il punto e virgola? Qual è il suo stato di salute? Se non è morto, poco ci manca, compagno di sventura del congiuntivo, vuoi per sporadico utilizzo vuoi per il suo definirsi più per “sottrazione” – non è un punto e nemmeno una virgola – pur potendosi riconoscergli, rispetto ai suoi parenti prossimi, anche delle non trascurabili peculiarità ritmico-prosodiche. Assuefatti all’idea della semplificazione argomentativa, aborriamo tutto ciò che è dubbio; tra l’evidenza indicativa e la sfumatura possibilistica ci facciamo attrarre dalla prima e così il congiuntivo e il punto virgola finiscono per stare alla lingua come l’ombretto alla matita per gli occhi. Uno sfuma, l’altro marca. Eppure l’italica genìa che ha ereditato il gusto per la guicciardiniana discrezione, così poco avvezza alle decisioni chiare e propensa piuttosto alle causidiche distinzioni, dovrebbe adorare il punto e virgola. E invece lo snobba. Come una cosa inutile

Ricordo una mia compagna di classe che, al liceo, aveva evidenti problemi con la punteggiatura. Non ne azzeccava uno che fosse uno. I suoi temi erano flussi di coscienza che Virginia Woolf si sarebbe scansata; ricordo che, una volta, consegnò alla professoressa d’italiano un compito in cui non c’era nemmeno una virgola per sbaglio. Roba che nemmeno il monologo di Molly Bloom nel più sopravvalutato dei romanzi moderni – l’Ulysses di Joyce, ça va sans dire. Ebbe, però, l’accortezza di aggiungervi un riquadro, alla fine del foglio, un recinto a matita in cui erano accatastati, alla rinfusa, tutti i segni di punteggiatura, con una didascalia per l’insegnante: “li metta lei dove servono”. Geniale. Perché coglieva, così, una verità ancor oggi drammatica, e cioè che non si dedica abbastanza attenzione, a scuola, all’uso corretto dei segni d’interpunzione. Se solo si cogliesse come il punto e virgola possa diventare il piede di porco che scardina un’arrugginita serratura argomentativa, non riusciremmo più a farne a meno. Quindi, dissento affatto dallo scrittore americano Kurt Vonnegut che, in una sua lezione di scrittura creativa, ne scoraggiava l’uso definendolo «un ermafrodita travestito che non rappresenta assolutamente niente, se non che si è stati al college». Sto più dalla parte di Pietro Citati che reputava il suo assassinio «molto più grave dell’assassinio di padri, madri, figli, figlie, mariti, mogli, nonne, cognati di cui parlano con infinita voluttà i nostri giornali». Perché è la ricchezza stessa del pensiero complesso ed elegante, un po’ come l’accordo diminuito in uno standard del jazz, come la tinta pastello in una tavolozza di colori primari, come la nebbiolina sul mare che sfuma la vista dell’orizzonte. Qualcosa da preservare con ossuta determinazione, da custodire con materna sollecitudine. Dio salvi il punto e virgola.

Se non ti parlo, non esisti

Non sono particolarmente loquace, non certo per timidezza, ma perché in genere preferisco parlare solo se riconosco che ciò che ho da dire sia più interessante del mio tacere. Perciò amo di più i silenzi su cui galleggiano parole potenziali, frasi inespresse. Preferisco di gran lunga l’ascolto, quello che Hans-Georg Gadamer definisce la nostra «disposizione a comprendere». Ascoltare significa, infatti, accogliere le parole altrui, permettere a qualcuno di entrare nel nostro orizzonte: è questione, insomma, di intimità profonda. Penso che chi parla dovrebbe aver presente l’importanza di questa intrusione, essere attento al fatto che le parole cominceranno ad abitarci, diventeranno il campo magnetico di un’attrazione o di una repulsione. Possono essere muri, ma nella loro essenza sono il cemento della socialità, ponti che collegano, letteralmente «parabole», frecce che scoccano da chi le pronuncia e s’indirizzano a chi ascolta, implicando sempre una relazione, anche quando parliamo con noi stessi. Sono pugni o carezze, come sanno bene anche i bambini che quando litigano puniscono col silenzio; il loro «non ti parlo più» equivale a dire: «ti lascio fuori dalla mia vita e se non ti parlo, per me è come se nemmeno esistessi».

Anche gli atti che presuppongo la parola ruotano attorno al concetto di relazione: il «domandare» che deriva da in manus dare è letteralmente il “mettersi in mano”, l’affidarsi in pratica. Come a dire, io chiedo la tua attenzione perché spero che la fiducia venga ricambiata, come per il verbo latino quaero che è il chiedere per sapere, implica cioè restituzione. Quando chiediamo consegniamo parole che confidiamo ci vengano restituite, se possibile in condizioni migliori di quanto abbiamo dato. La risposta invece è il responsum, ma respondeo, in latino, era il verbo che si usava per consacrare i matrimoni (il padre consegnava la figlia in sponsa), respondere aveva quindi un carattere sacro, di promessa solenne. Era la richiesta di attenzione e cura di un padre che esponeva la figlia a chi, accogliendola, avrebbe dovuto ricambiare questa fiducia mantenendo a sua volta la promessa di dare ascolto. La parola perciò è anche atto e patto d’amore, un dono che va contraccambiato; per quanto mi riguarda faccio “dono di parole” – scelte, precise, pensate – come scelta etica, soprattutto a chi sa riconoscerne il valore e prendersene cura. Bisogna amarle le parole, occuparsene e preoccuparsene come si fa con chi si ama. Sono esse a illuminare le persone, il cui modo di esprimersi è rivelatore anche della loro natura. Più amo qualcuno più dovrei scegliere con attenzione le parole da dire o non dire.

Ogni parola è un mondo da esplorare, ma se è usata a sproposito o in modo improprio è come una banconota falsa: mistifica, adultera i rapporti, li inquina introducendo un elemento di corruzione che investe tanto chi la pronuncia che chi la riceve. La banconota non è che un pezzo di carta la cui validità si riconosce però dalla filigrana all’interno che è qualcosa che si può vedere solo in controluce. Ecco, le parole devono essere stimate in controluce, senza fermarsi al loro livello più basso, quello della mera trasmissione di informazioni. Non per nulla, il grado di imbarbarimento e decadenza di un popolo si misura a partire dalla degradazione linguistica.

La parola è vocabolo assoluto, come Dio: «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Come Dio, il Verbum crea e la parola che crea è, per antonomasia, quella poetica, come suggerisce l’etimologia da poiéō: creare, produrre. La poesia non è mai uguale a se stessa, ogni volta che la leggiamo ci dirà sempre qualcosa di nuovo e noi siamo chiamati a interrogarla e interpretarla, e quindi a creare relazioni. Come Dio, si rivela e si nasconde, si dona senza esaurirsi in un unico senso perché, se così fosse, morirebbe. Non siamo noi a creare la poesia, ma essa a creare noi, a renderci lettori e interpreti, a farci esistere in quanto prodotti dalle parole. Esistiamo perché non le diciamo soltanto, ma le scriviamo, perché sentiamo il bisogno di scribere, cioè incidere, lasciare segni, come fa lo scultore che sbozza la materia grossolana per giungere all’essenza, al compimento. La parola è Dio che ci mette in relazione con sé stesso e con gli altri.

La grande conquista della filologia, in età umanistica, fu proprio l’acquisizione empirica di una mentalità etimologica. Essa si sviluppa dall’esigenza di capire, con la storia delle parole, la Storia tout court, per non lasciarci affogare nella pece dei significati preconfezionati e delle ricostruzioni arbitrarie. Lo ricordino sempre i miei studenti di Lettere a cui non perdono la sciatteria, l’approssimazione linguistica, tanto più se aspirano a fare ricerca, e a cui raccomando di insegnare anche a chi, a differenza loro, non studia la poesia, di tramandare l’attenzione e l’amore per le parole, di non subire la lingua, ma di conoscerla per proteggere sé stessi e gli altri, perché chi parla bene ama anche meglio.

Ermeneutica del “mah”

Incalzato per i sette/otto minuti di intervallo dalla ragazza che gli siede a fianco e che ha il tono di chi vuole crocifiggere l’interlocutore con recriminazioni di ogni natura, il giovane seduto una fila dietro di me al cinema, le oppone, alla fine, due laconici seppur differenti mah.

A quel punto tra i due cala una plumbea cappa di silenzio, favorita anche dall’inizio del secondo tempo del film. In quell’istante, del saggio uomo arguisco che debba trattarsi, in assenza di inflessioni che ne rivelino la provenienza regionale, di un siciliano della fascia compresa tra capo Passero e Capo Peloro. E lo dico da siculo-orientale, appunto, avvezzo alle vertigini metafisiche a cui lo specifico mah allude, in modo oltremodo pregnante proprio per la genìa di quella specifica area geografica.

785be7fde7c3112bd39737fd7fa8541cSi badi: avrebbe potuto pronunciare un dubbioso boh o persino un resistente bah o alternare al mah uno qualsiasi degli altri due monosillabi. E invece sceglie, secondo me in modo avveduto e premeditato, di risponderle con l’interiezione che più la disarma e che, proprio perché iterata, suona intenzionale, consapevole. Lei avrà speso qualcosa come qualche migliaio di vocaboli per dirle tutto il suo disappunto, lui invece se n’è uscito con una decina di parole in tutto, dapprima precedute da un mah che sembrava voler trasmettere il senso di una sospensione, come una sorta di training autogeno propedeutico a una più articolata replica destinata a rimanere a uno stadio che potremmo generosamente definire “di latenza” (“mah, se lo dici tu…”). Infine, dopo qualche altra battuta della ragazza, con geniale prontezza le assesta il colpo di grazia posponendo invece il monosillabo alla fine della frase (“tutte cose tu stai dicendo, mah!”) e lasciando sottintesa qualsiasi osservazione o giustificazione, anzi esprimendo uno scontento metafisico, uno sgomento esistenziale, un’amarezza più o meno sincera, una rassegnazione che immagino agisse anche da strategia colpevolizzante.

decisamente-mahValutando la gamma delle possibili reazioni femminili, dico tra me che, se le avesse detto boh, l’avrebbe probabilmente offesa per la coloritura di disprezzo e disapprovazione che il monosillabo suggerisce, scatenandole verosimilmente una reazione ancor più veemente oppure, se la percezione di lei fosse stata di una momentanea incertezza del giovane, le avrebbe fornito ulteriore energia per affondare ulteriori colpi a quelli solo provvisoriamente letali assestatigli. Lo stesso dicasi se, per accidenti, lui avesse usato un bah che suona come un’esclamazione di meraviglia, irritante, a dire il vero, dal momento che, per le argomentazioni addotte dalla fanciulla, sembrava assodato, per tutto il tempo del monologo femminile, che non ci fosse alcunché di inequivocabile.

Vitaliano_Brancati

È grazie a quei mah che mi è tornato in mente un bel racconto di Brancati intitolato Pipe e bastoni in cui un vecchio fa di quella lapidaria espressione il precipitato di una personalissima visione della vita:

L’unica sua stranezza era una parola ch’egli pronunciava di quando in quando, con un tono così basso, di una dolcezza così profonda nella sua brevità, ch’io ne rimanevo sempre commosso: questa parola era: Mah!
Non c’era, in essa, né sconforto, né dubbio, né gioia, né delusione, o piuttosto non c’era alcuno dei sentimenti umani in misura forte e preponderante, ma un misto assai delicato e profondo di tutti.
Come uno strumento, usato per anni da esperti suonatori, riesce finalmente ad emettere un “la” o un “mi” di rara qualità, così quell’uomo, sperimentato per anni dalla vita, era in grado di mandare un suono particolare, un monosillabo che mi dava ogni volta una scossa ai nervi.
La sua vita era piena di fatti e di esperienze, ma egli non ne aveva ricavato alcuna regola.
Questo lo sottraeva al pericolo di morire fra i proverbi, come tanti altri siciliani.
Molte cose gli erano parse strane, e non era riuscito a capirle.
Ma per ciò non si tormentava la testa, né si credeva in diritto di pronunciare grandi parole come il mistero della vita o l’inconoscibile.
Si accontentava di guardarle attentamente nella memoria, guardarle, riguardarle, e finalmente diceva: Mah!

Non chiedetemi come finisse il film perché, a quel punto, avevo rinunciato a seguirne la trama da almeno un’ora.