Ve voglio dí ‘na cosa: quanno ve sto vicino,
nun me guardate,
si no scumbino.
E vuie ve n’addunate;
e niente, niente, tosta,
vuie cchiù ‘o ffacite apposta,
pè vedè
sta faccia mia ca se fa bianca o rossa.
E ce truvate sfizio… Ma pecché?…
Vuie me guardate, e j’ tremmo ‘a cap’ ‘o pere,
comme ‘na fronn’ a ‘o viento.
M’arreparo,
ma ancora tremmo.
S’affaccia nu penziero
e chistu suonno doce se fa amaro.
Sultanto si addu me venesse ‘a Morta,
m’avisseva guardà,
pecché sultanto allora
a chesta mia signora,
a braccia aperte, j’ l’arapess’ ‘a porta,
dicenno: «Trase, viéneme a piglià!»
Pecché sultanto tanno,
mentre stesse spiranno,
io ve dicesse: «Guàrdame,
nun rimanè avvilita,
‘na guardata d’ ‘a toja
s’adda pavà c’ ‘a vita!»
E murenno ve desse pure ‘o «tu»,
pecché fosse sicuro
ca nun tremmasse cchiù.
Eduardo De Filippo, Nun me guardate

Le poesie di Eduardo De Filippo mostrano una qualità su tutte: la frammentarietà quasi diaristica in cui a prevalere sono soprattutto stati d’animo comuni, tra lo stupefatto e il malinconico, lo struggente e lo scanzonato. Però, anche quando a parlare è un innamorato, come in questo caso, non è scontato individuare una matrice autobiografica. E questo perché, per tutta la vita, i versi funsero anche da laboratorio in cui potessero prendere forma situazioni e personaggi che si sarebbero riversati nei copioni. Certo è che, all’inizio del 1928, cui risale la bellissima Nun me guardate, nella vita di Eduardo era entrata in modo travolgente una donna che si può legittimamente ritenere la destinataria naturale del sentimento espresso. Si chiamava Dorothy Pennington – Dodò – ed era un’americana di passaggio in Italia, colta e affascinante, di cui Eduardo si era infatuato, facendone la prima delle tre mogli che ebbe, nonostante l’opposizione della sorella e della madre di lei che non vedevano di buon occhio il matrimonio con un attore di teatro (sinonimo anche allora, ahimé, di spiantato).

Il pensiero che in questi versi si affaccia è quasi stilnovistico, nell’attribuire alla potenza dello sguardo di una donna quasi dispettosa la capacità stessa di donare o rinnovare la vita; i sintomi sono quelli di uno stato febbrile che si manifesta a una sola occhiata: l’agitazione («nun me guardate, | si no scumbino»); le repentine vampate al volto; il tremore. Ma in un ipotetico inventario degli sguardi che dalla letteratura si potrebbe ricavare, è mitica la prospettiva che solo in limine mortis si possa sostenere – occhi negli occhi – la vista dell’amata e che in quel punto fatalmente debba cessare la vita stessa («na guardata d’a toja | s’adda pava’ c’a vita!»), come per una moderna Gorgone, ma senza serpenti in testa.
Poco sappiamo, per il resto, di quella sposa americana, pur intelligente e di ottima famiglia, che poco doveva capire probabilmente del dialetto napoletano e poco gliene caleva del teatro e dell’attività del marito. Che per Eduardo quella donna fosse però la sua luce lo potrebbe confermare un’altra poesia – ’O raggio ’e sole – , scritta nello stesso torno di tempo e in parte utilizzata in una breve commedia del ’32 dal titolo Gennareniello.
Lo scrittore immagina una casa fredda e buia in cui non entra mai la luce; quando la sua donna, giocando con uno specchio, indirizza sul volto dell’uomo il riflesso di un raggio di sole, sembra infondergli vita. Poi lo specchio viene poggiato e il raggio si ferma, e con esso la vita. Segno che la donna se n’è andata: «quann’ ’o raggio s’è fermato, | segn’è ca chi ’o muoveva se n’è gghiuta».