Fuoco d’amore e sospiri estremi

È un foco Amor, che ascoso tien l’ardore; | è ferita, che punge, e non si sente; | è un piacer, che tien l’alme discontente; | è acerbo duol, di cui non si ha dolore: || è un non voler, che ciò che vuole Amore; | è un andar solitario tra la gente; | è un godere con voglie non mai spente; | è un credersi felice ove si more: || è un suggettarsi i vincitori a i vinti; | è uno stare in prigion, perché si vuole; | è un esser fidi a chi ci brama estinti. || Come mai de l’Amor si grande amico | è il core uman, che senza lui si duole, | se Amore de gli amanti è si nemico?

Amor he hum fogo que arde sem se ver; | He ferida que doe e não se sente; | He hum contentamento descontente; | He dor que desatina sem doer; || He hum não querer mais que bem querer; | He solitario andar por entre a gente; | He hum não contentarse de contente; | He cuidar que se ganha em se perder; || He hum estar-se preso por vontade; | He servir a quem vence o vencedor; | He hum ter com quem nos mata lealdade. || Mas como causar póde o seu favor | Nos mortaes corações conformidade, | Sendo a si tão contrário o mesmo Amor?

Luís Vaz de Camões, Amor he hum fogo que arde sem se ver

Di Luís de Camões si sa poco e quel che si sa è parente stretto della leggenda. L’autore delle Lusiadi, il poema nazionale portoghese e del suo massimo eroe, Vasco de Gama, vive nel Cinquecento, il secolo in cui l’Europa letteraria è letteralmente attraversata dal richiamo imperioso della poesia petrarchesca. Al richiamo del componimento alla maniera di non resiste nemmeno lui, ma a differenza di tanti sterili emuli banalmente preoccupati di adeguarsi al costume normativo dell’epoca, si libra altissimo e con sincerità d’ispirazione. Basterebbe anche solo questo sonetto a consacrarlo nel Pantheon lirico lusofono, e non solo in quello. La traduzione di questo sonetto è ottocentesca, si deve a Juan Francisco Masdeu, un erudito spagnolo di origini siciliane (era nato a Palermo), un gesuita esiliato in Italia dopo l’espulsione del suo ordine, che la consegnò a un volume il cui titolo (lunghissimo) riporto perché così mi aggrada: Arte poetica italiana di facile intelligenza. Dialoghi familiari diretti ad insegnare la poesia a qualunque persona di mediocre talento, sia uomo, o donna, benché non altro sappia che solo leggere e scrivere.

La natura ossimorica dell’amore si traduce, con Camões, in un fuoco di fila di metafore caratterizzato dall’eterogenesi dei fini, per cui l’effetto contraddice puntualmente la causa: è fuoco che avvampa, ma non brucia, ferita di cui non si sente il dolore, morte di cui essere felici, un sottomettersi ai vinti. E così via. Da questo bulimico catasto di paradossi e contraddizioni in cui il secondo termine del verso funziona come complemento del primo, ciò che risalta è il voler mettere in dialogo una realtà sensibile (la ferita che fa male) e una spirituale che trascende la prima (non si sente il dolore). Come si fa perciò ad amare l’Amore (assunto che sarà molti anni dopo di Stendhal) ed essergli amico, al punto che non sappiamo farne a meno, se questo è l’aguzzino di ogni amante che si rispetti? Di quest’irresolubile querelle è forma e figura il ricorso costante ad anafore, metafore, ossimori antitesi ordinati in perfetta simmetria, a comporre la musicalità che era fondamento e ragione stessa di quella sublime e frustrante storia di uno scacco matto esistenziale in trecentosessantasei frammenti che era il Canzoniere petrarchesco. A replicarne la sentenza in modi quantomeno più dubitativi del velleitario tentativo di “guarigione” di messer Francesco dal suo «giovenile errore» è proprio l’interrogativo finale che ci dice, in sostanza, qualcosa di non molto diverso da quanto afferma Dante nel suo approccio alla beatitudine celeste: l’Amore, parafrasando, è un’estasi di cui si può solo godere, senza illudersi di penetrarne la ragione «perché appressando sé al suo disire, | nostro intelletto si profonda tanto, | che dietro la memoria non può ire». E questo perché, con buona pace degli aristotelici sillogismi di Camões, da che mondo è mondo l’unica cosa che sappiamo dell’Amore – come di Dio, e come di Luís de Camões – è proprio il nostro non saperne niente, ciò nonostante ostinandoci nel disperato e commovente tentativo di provarci almeno a capirne qualcosa, fino a volerci rompere la testa.

A fior di labbra

Tacciono i boschi e i fiumi,
e ’l mar senza onda giace,
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna; 

e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose.
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.

Torquato Tasso, Tacciono i boschi e i fiumi, dalle Rime

Sarebbero tanti i motivi che ci farebbero considerare Torquato Tasso il primo poeta ‘moderno’; non ultimo il suo disordine psichico, diverso da quello degli artisti folli che l’hanno preceduto, a partire da Lucrezio. Lui fu un malato ‘moderno’ perché ‘moderna’ era la sua patologia psichica, quella maladie de l’âme non infrequente e non sorprendente dall’Ottocento in giù, se si pensa a quella lunga teoria di nevrotici che forma il Novecento letterario europeo. E non è un certo un caso che uno dei più grandi tra questi – Giacomo Leopardi – dichiarasse nei suoi confronti un sentimento di “fraternità”. Poeta dolce e tormentato, tragico e sublime, umile e geniale, in perenne e intimo conflitto tra croce e mezzaluna, tra ortodossia ed eresia, e con una non comune capacità di penetrazione psicologica (basterebbe pensare anche solo a quelle protofemministe di Clorinda, Armida ed Erminia, per comprendere dell’animo umano, e femminile in particolare, cose che solo i novecenteschi scavi archeologici nella psiche avrebbero rivelato con pari profondità). Tasso più autentico, a mio giudizio, non è però quello del poema sua gloria e condanna e su cui si ruppe la testa per una vita – la Gerusalemme Liberata -, ma quello lirico di favole come Aminta, laddove risulta più sincero proprio per l’abbandono che si concede alla vaghezza e alla musicalità che furono tregua e ristoro al proprio animo tormentato. E quello delle Rime e dei madrigali come quest’impalpabile Tacciono i boschi e i fiumi.

Fu quella la sua vera natura, cui si abbandonò con struggimento e sensualità; il poeta, insomma, rugiadoso e malinconico, notturno e lunare, che lascia parlare per sé i suoni naturali e i sospiri, e che crea pieni e presenze evocando vuoti e silenzi. Tasso ad eccelso tasso di musicalità in versi perfetti come «e ’l mar senza onda giace» o «sien muti i baci e muti i miei sospiri» che da soli valgono tutta la produzione poetica di un qualsiasi autore contemporaneo che s’illuda di far poesia parlando di bavaglini e ammorbidenti. Con altri madrigali ha in comune il suo essere ‘frammento’ dell’animo con cui componeva il poema maggiore: da quell’effusione del sentimento nell’atmosfera notturna e nella pace lunare, da quel farsi della natura correlativo soggettivo che ciascun lettore ammiratore/amante di Erminia ricorda, deriva una sensazione di malinconia cosmica. Non ci sono brividi, tutto è immobile tranne l’emozione di baci «muti», quasi a fior di labbra, di sospiri attenuati per non turbare l’atmosfera di una natura che ha persino sospeso il suo ciclo per permettere a due creature di amarsi: le onde nel mare si fermano, il vento smette di soffiare, tutto tace, e nel tacere si libera, in slow motion – l’ultimo verso, lentissimo fino all’ultima sillaba – lo struggimento tenero dei sospiri d’amore.

Auguri Faber, amico fragile

Oggi sarebbe il compleanno di Fabrizio De André. Avrebbe 83 anni. Battisti, invece, era tre anni più giovaneSe ne andarono quasi insieme, a quattro mesi di distanza l’uno dall’altro, allo stesso modo, entrambi per un male incurabile. Battisti e De Andrè, pressoché coetanei, sono ancora i due più amati e popolari artisti della musica d’autore italiana. Ma quanta simbolica differenza nella loro ultima uscita di scena, quella del congedo che riassume e ricapitola un’esistenza: il funerale di Battisti nascosto agli sguardi dei più, dietro cancelli serrati e vetri d’auto oscurati che davano alle esequie l’aspetto di un mistery inquietante, disturbante proprio per quel fiscale rispetto di un’assoluta volontà di privacy che nulla concedeva all’amore incondizionato di un pubblico che non aveva e non ha mai smesso di amarlo. battisti-bannerI fiori lasciati sotto la pioggia o davanti all’ospedale davano il senso dell’abbandono che avranno provato le migliaia di persone comuni che si radunavano spontaneamente per ringraziare e ricambiare in quel modo semplice la gioia provata attraverso le canzoni che avevano cantato e con cui erano diventati adulti. Il funerale di De Andrè, invece, fu emozionante al pari di tante sue memorabili ballate, in mezzo a un mare di gente, la stessa che lui aveva cantato e che non veniva esclusa dai familiari i cui volti apparivano perciò quasi trasfigurati da un abbraccio immenso di folla con cui condividere la grandezza di un dolore che riguardava indistintamente tutti. Perché Faber era di tutti, come tutti i grandi artisti. Persino un poeta come Mario Luzi confessò allora il proprio disagio e si scusò per essere «invecchiato nella quasi totale ignoranza del suo talento». Quel diverso modo di congedarsi mi dà il senso della distanza fra Battisti e De Andrè, mi fa amare il secondo più del primo cui riservo tuttavia l’ammirazione dovuta ad un indiscutibile talento, limitandosi ad essere, quest’ammirazione, un sentimento che me lo fa sentire meno mio, meno autentico, come se avesse detto, nelle sue bellissime canzoni, di provare cose che forse non provava affatto. De Andrè invece era come le sue ballate e per questo più interessante e vero e imperituro. I suoi brani, a differenza di quelli di Battisti, non sono fatti per essere cantati, ma per essere pensati e Faber li scrisse pensando a quella gente con cui si riconosceva e che lo riconosceva. Ecco: nella riconoscenza del pubblico, nel riconoscersi reciproco tra artista e pubblico c’è spazio persino per una straniante felicità, quella della gratitudine che si deve ad un’artista capace di raccontare, senza ruffianerie o ipocriti moralismi, la vita di ognuno, le odissee tragiche o ridicole di piccoli eroi, né migliori né peggiori di ognuno di noi. Per il resto, di lui si è detto tutto, tanto che non saprei dire niente di più o di meglio.

C’è una canzone che ho ascoltato centinaia di volte con un groppo in gola, non solo per ciò che dice, ma anche perché mi ricorda una delle ultime esibizioni in pubblico, pochi mesi prima di morire: Khorakhané. Sul palco, con Faber, c’erano i figli Cristiano e Luvi. Alla fine del pezzo, la telecamera lo inquadra per poco più di un secondo, quanto basta per scorgere un padre commosso per l’applauso tributato dal pubblico alla figlia. In quel suo «sollievo di lacrime a invadere gli occhi e dagli occhi cadere» io scorgo l’artista che amo e l’uomo che ammiro. E se mai qualcuno si accingesse a scrivere quella storia della lacrime che auspicava un genio della critica come Roland Barthes, mi piacerebbe immaginare di poterci ritrovare anche questa piccola e umanissima pagina dell’«amico fragile».

Sovrumano silenzio

Anni fa un caro amico mi confidò che tra i motivi per cui preferiva la mia compagnia c’era il fatto che saremmo potuti stati per ore insieme senza parlare, non provando per questo alcun imbarazzo e non sentendoci in dovere di “rompere il ghiaccio” facendo conversazione. C’è un’espressione francese con cui si esprime questa sensazione di disagio che chiunque avrà provato in un gruppo, insieme a persone con cui magari non si ha particolare confidenza: un ange passe. Significa che, nel momento in cui cala il silenzio tra gli astanti, si avverte la presenza sovrumana di un angelo che passa di lì. Un modo di dire che forse ha a che fare con la credenza antica secondo cui i messaggeri degli dei, come Ermes, siano avvolti in un mantello di silenzio quando scendono tra gli umani. Fatto sta che col mio amico passavamo spesso del tempo imbozzolati nella nostra afasia e rassicurati esclusivamente dalla reciproca presenza. Ho capito, da allora, che il silenzio può essere un ottimo termometro della qualità di un rapporto. Esso è un valore, non è l’opposto o la deprivazione del dire, ma il suo presupposto.

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Può sembrare una contraddizione in termini o un paradosso parlarne, ma nemmeno poi tanto, se lo si considera complementare alla comunicazione. E, in effetti, preferisco sempre mettermi in ascolto, prestare più attenzione ai vuoti di una conversazione che al flusso delle parole, a quegli interstizi del linguaggio che sono le pause, i silenzi, le sospensioni dei significati. Nel tempo di quel vuoto che non è assenza o Nulla si addensa più senso che nel ritmo delle parole, peraltro aduse sovente ad essere malintese, soprattutto quando le si usa a sproposito, senza chirurgica precisione. Non che il silenzio sia immune da opacità, ma in determinate circostanze riesce a supplire a tutto ciò che le parole non riescono ad esprimere, proprio per la sua natura polisemica e potenziale.

Basti riflettere sull’importanza che ha in tutti i contesti sociali, sul valore che gli attribuiamo in determinati luoghi e occasioni: in una sala da musica, prima di un concerto sinfonico, nel breve tempo in cui il direttore d’orchestra ne impone il rispetto col tocco della bacchetta sul leggio, per preparare gli orchestrali all’esecuzione e il pubblico all’ascolto e alla concentrazione; a teatro, in cui la tensione scaturisce dal tempo che intercorre tra la recitazione silenziosa dell’attore e quella parlata; nei musei in cui è condizione imprescindibile per entrare in contatto estetico col genio che dà la regola all’arte;

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durante una conferenza o una lezione in cui l’uditorio si dispone all’ascolto del relatore; nelle chiese, come tempo funzionale allo svolgimento della liturgia; in quei templi laici che sono le biblioteche, come indispensabile allo studio e alla conoscenza; nei cimiteri, per rispetto ai defunti, ma al contempo per favorire il dialogo silenzioso tra il vivente e il “cenere muto” – direbbe Foscolo – del defunto (“la madre or sol, suo dì tardo traendo, / parla di me col tuo cenere muto”); nei luoghi di cura in cui viene raccomandato per rispetto dei malati e per l’ausilio terapeutico che se ne può trarre.

Eppure viviamo affetti da una vera e propria bulimia sonora, nel brusio di un costante rumore di fondo che insidia il silenzio e ce lo fa desiderare come necessario. Già a metà del Novecento, lo scrittore e filosofo svizzero Max Picard (Il mondo del silenzio, 1948) denunciava il fatto che nulla più della perdita della relazione col silenzio avesse modificato l’essenza dell’uomo non facendoglelo più avvertire come qualcosa di naturale, al pari dell’aria e dell’acqua.

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Nel 1990 Federico Fellini, il cui cinema orbita per larga parte intorno all’evocazione di questo tema, traeva da Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni un apologo-testamento (La voce della luna) in cui affidava al mite e angelico personaggio di Ivo Salvini, interpretato da Roberto Benigni, la battuta finale del film che suggella tutta la sua opera e in cui il silenzio viene invocato tra gli elementi primordiali della conoscenza: “Eppure io credo che se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”.

Fare silenzio, appunto. Che è qualcosa di diverso dal tacere. Nell’etimologia di quest’ultimo verbo, è come se ci fosse una patina negativa che è quella della passiva astensione dalla parola. “Tacere” deriva da “taceo” che significa “non parlare”, e ha la stessa radice di “reticenza” che è il silenzio di chi sa ma, per interesse o per timore, si astiene dal dire. Il latino dispone però anche del bellissimo verbo “silere”, da cui deriva appunto “silenzio”, che ha relazioni con la radice indo-europea di “si” e “legare”. Il silenzio, insomma, è un legame, ha un significato attivo, orientato verso determinati valori.

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Lo usa Dante nella Divina Commedia quando, alla fine del suo viaggio di conoscenza (Paradiso, XXXII, 49), Bernardo di Chiaravalle si rivolge al poeta dicendogli “Or dubbi tu e dubitando sili / ma io discioglierò ‘l forte legame / in che ti stringon li pensier sottili”. E’ il dubbio a imporre il silenzio al pellegrino, ma il dubbio è l’anticamera della rivelazione, della Verità. Non c’è conoscenza senza il beneficio del dubbio, e non c’è conoscenza senza l’igienico silenzio che la precede. Fare silenzio dentro e intorno a noi è perciò il presupposto per accostarsi all’Essenza, la si intenda come il kantiano noumeno o come Dio. Esso è quanto di più vicino alla preghiera si possa concepire, non per nulla “le anime dedite alla preghiera”, diceva Madre Teresa di Calcutta, “sono anime dedite a un gran silenzio. Non possiamo metterci immediatamente alla presenza di Dio se non facciamo esperienza di un silenzio interiore ed esterno. Perciò dovremo porci come proposito particolare il silenzio della mente, degli occhi e della lingua”. Già l’Enciclopedia della religione, curata da Mircea Eliade, lo aveva rubricato tra le forme più elevate di espressione religiosa, presente universalmente in tutti i culti come momento pedagogico di preparazione all’esperienza spirituale.

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Le regole monastiche su cui si basano altre a partire dal Medioevo, come quella benedettina per esempio, prescrivevano infatti la taciturnitas come disposizione finalizzata al controllo dei sensi, conformemente a quanto trasmesso dai libri sapienziali veterotestamentari in cui il silenzio è un atteggiamento di ascolto e obbedienza ma anche di conoscenza: “porgere orecchio” alla parola di Dio è quanto, secondo San Benedetto, si conviene al discepolo.

La forma che più assomiglia alla preghiera è però la poesia cui la accomuna ciò che Simone Weil nei suoi Quaderni definisce l'”andare mediante le parole al senza-nome”, che Elémire Zolla (Archetipi, 1981) chiama “un silenzio ribadito da parole”, formato di “parole immolate al silenzio”, che T.S.Eliot (Quattro quartetti, 1941) e che tanti poeti hanno riconosciuto come un movimento da e verso un’ineffabile profondità. Tra questi anche Octavio Paz che gli dedica il componimento Silencio:

Così come dal fondo della musica
germoglia una nota
che mentre vibra cresce e s’assottiglia
fino a che in un’altra musica ammutisce,
germoglia dal fondo del silenzio
un altro silenzio, acuta torre, spada,
e sale e cresce e ci sospende
e mentre sale cadono
ricordi, speranze,
le piccole menzogne e le grandi,
e vorremmo gridare e nella gola
si disperde il grido:
confluiamo nel silenzio
dove i silenzi si ammutiscono.

Infinito

Una forma di sgomento che nasce proprio dal silenzio, quella che il poeta esprime, e che conduce all’afasia che ne è altra forma, non dissimile da quella che esprime il laico e materialista Leopardi nella più bella poesia italiana – L’infinito – che mi è sempre parsa come una delle più intimamente religiose. Come intendere altrimenti i “sovrumani silenzi” che si immaginano oltre la siepe-soglia che separa il contingente dal trascendente per cui “per poco il cor non si spaura”? Un silenzio inconcepibile per la finitezza dell’intelletto umano, e quale altro potrebbe essere se non quello di Dio, lo stesso che sgomenta Giobbe che quello finisce con l’abitare e da quello è abitato, il cui grido finisce per perdersi nel Nulla? L’incontro con il divino, con la Verità, con il Tutto è ontologicamente ineffabile, non genera parole, ma solo associazioni mentali (“io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l’eterno”) in cui sprofondare smarriti. Lo sapeva bene anche Dante che, al culmine del suo viaggio poetico ed esistenziale finirà col ribadire l’insufficienza della parola e della poesia al cospetto di un Silenzio ben più grande di quello dell’uomo: Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, / è tanto, che non basta a dicer ‘poco’ (Paradiso, XXXIII, 121-123).

E se non riesce a dirlo Dante, chi sono io per provare anche solo a ridirlo? E qui perciò mi taccio.