Il bisturi e la penna, il sangue e l’inchiostro

Cui facissi d’iłłu notomia in ogni parti ci truviria a N.
Quandu, tiranna, a casu ti placissi
di fari di mia stissu notomia,
e carni e sangu et ossa mi vidissi
per satisfazioni tua e mia,
iu letu e tu contenti ristirissi
e satisfatta la tua chirurgia,
perchì di parti in parti scopririssi
chi tu sì ngrata e iu moru per tia.

Se qualcuno vivisezionasse il poeta, / troverebbe l’amata in ogni parte. | Tiranna, se per caso ti venisse voglia | di notomizzarmi, | e con mia e tua soddisfazione | vedessi la mia carne, il mio sangue e le mie ossa, | io ne sarei lieto e tu contenta, | e soddisfatta la tua operazione chirurgica, | perché da parte a parte scopriresti | che tu sei ingrata, e io muoio per te.

Antonio Veneziano, dal Libro delle rime siciliane, Libru primu (Celia), 11

Nel secol – il Cinquecento – che più della luce di Petrarca prese, non pochi bagliori s’irradiarono dai versi di Antonello Veneziano (più noto come Antonio). Quello per l’aretino fu un trend virale che in Sicilia conobbe non pochi testimonial: un’ostinata fedeltà garantita da svariati poeti d’accademia impegnati a competere, e in qualche caso a vincere, la sfida con i colleghi delle altre regioni italiane. Ma Veneziano aveva una marcia extra, non fosse altro che per quell’aura d’artista maudit che la sua vita da rebel without a cause gli assicurava, e che lo portava a entrare e uscire di prigione a più riprese, lui, educato dai gesuiti e figlio di un mastro notaro della Curia monrealese.

Tra omicidi e veri e propri ratti (nel 1573 era stato accusato di aver sottratto a una terziaria domenicana una servetta di cui s’era invaghito), il siculo Petrarca conobbe pure Cervantes in una prigione algerina, dopo essere stato catturato dai corsari. E già questi dettagli gli varrebbero almeno un film. Anche perché dall’immortale autore del Chisciotte ricavò sincera stima e amicizia, prima di essere riscattato dalla schiavitù grazie all’intervento della sua ricca e potente famiglia che volle riportarlo a Monreale. Sciarrino (leggi “litigioso”) come pochi, si impegolò ancora in liti e contese a colpi di carta bollata e di libelli contro chiunque – parenti, vescovi e viceré – che gli valsero ancora i ferri, a Palermo, dove morì tragicamente nel ’93 a seguito di un incendio che arse insieme prigioni e detenuti: gioventù bruciata, è il caso di dirlo. A dispetto di tanta vita spericolata, era però anche un uomo molto colto che produsse prose eleganti nonché versi in lingua di apprezzabile nitore; ma le settecentocinquantatre canzuni siciliane scritte per la misteriosa Celia sono, senza tema di smentita, il suo greatest hits. Sullo sfondo c’è sempre il più famoso Canzoniere, ma nell’emulazione di quei famosi stilemi l’aspetto meno convenzionale, e perciò stesso originale, fu il tentativo di pennellare le immagini e le situazioni da repertorio in un modo più espressivo e realistico di quanto non riproducessero le rarefazioni astratte e intellettualistiche di maniera. Insomma, anche quando scriveva veniva fuori la sua indole eslege, con quel gusto per il coup de théâtre d’impatto, per quella ruvidezza da carta vetrata così aliena dalle levigature dei petrarchisti doc.

Lo si può notare anche in questi versi in cui invita l’amata a dissezionarlo chirurgicamente per farle trarre la soddisfazione un po’ sadica di ritrovare in ogni parte del suo organismo tracce di lei. Già il solo dire questo in un registro dialettale “basso” non è poca roba nella storia della poesia cinquecentesca cui si addiceva, all’inverso, l’elevatezza con cui dipanare la tematica amorosa. Se a questo si aggiunge che, pur in questo sdrucciolamento stilistico, Veneziano riesce a essere a un tempo tenero e beffardo, accorato e sprezzante, si capisce come riesca a svisare da virtuoso sulla tastiera linguistica, come uno Scott Joplin ante litteram che alterna ritmi sincopati e contrattempi (come nel dittico finale «perchì di parti in parti scopririssi | chi tu sì ngrata e iu moru per tia»), a riprova di quanto la poesia riesca a essere, talora inconsapevolmente, il correlativo del temperamento di chi la produce. Nel caso di Veneziano, l’espressione di un vitalismo estremo e dannatamente sensuale.

Fuoco d’amore e sospiri estremi

È un foco Amor, che ascoso tien l’ardore; | è ferita, che punge, e non si sente; | è un piacer, che tien l’alme discontente; | è acerbo duol, di cui non si ha dolore: || è un non voler, che ciò che vuole Amore; | è un andar solitario tra la gente; | è un godere con voglie non mai spente; | è un credersi felice ove si more: || è un suggettarsi i vincitori a i vinti; | è uno stare in prigion, perché si vuole; | è un esser fidi a chi ci brama estinti. || Come mai de l’Amor si grande amico | è il core uman, che senza lui si duole, | se Amore de gli amanti è si nemico?

Amor he hum fogo que arde sem se ver; | He ferida que doe e não se sente; | He hum contentamento descontente; | He dor que desatina sem doer; || He hum não querer mais que bem querer; | He solitario andar por entre a gente; | He hum não contentarse de contente; | He cuidar que se ganha em se perder; || He hum estar-se preso por vontade; | He servir a quem vence o vencedor; | He hum ter com quem nos mata lealdade. || Mas como causar póde o seu favor | Nos mortaes corações conformidade, | Sendo a si tão contrário o mesmo Amor?

Luís Vaz de Camões, Amor he hum fogo que arde sem se ver

Di Luís de Camões si sa poco e quel che si sa è parente stretto della leggenda. L’autore delle Lusiadi, il poema nazionale portoghese e del suo massimo eroe, Vasco de Gama, vive nel Cinquecento, il secolo in cui l’Europa letteraria è letteralmente attraversata dal richiamo imperioso della poesia petrarchesca. Al richiamo del componimento alla maniera di non resiste nemmeno lui, ma a differenza di tanti sterili emuli banalmente preoccupati di adeguarsi al costume normativo dell’epoca, si libra altissimo e con sincerità d’ispirazione. Basterebbe anche solo questo sonetto a consacrarlo nel Pantheon lirico lusofono, e non solo in quello. La traduzione di questo sonetto è ottocentesca, si deve a Juan Francisco Masdeu, un erudito spagnolo di origini siciliane (era nato a Palermo), un gesuita esiliato in Italia dopo l’espulsione del suo ordine, che la consegnò a un volume il cui titolo (lunghissimo) riporto perché così mi aggrada: Arte poetica italiana di facile intelligenza. Dialoghi familiari diretti ad insegnare la poesia a qualunque persona di mediocre talento, sia uomo, o donna, benché non altro sappia che solo leggere e scrivere.

La natura ossimorica dell’amore si traduce, con Camões, in un fuoco di fila di metafore caratterizzato dall’eterogenesi dei fini, per cui l’effetto contraddice puntualmente la causa: è fuoco che avvampa, ma non brucia, ferita di cui non si sente il dolore, morte di cui essere felici, un sottomettersi ai vinti. E così via. Da questo bulimico catasto di paradossi e contraddizioni in cui il secondo termine del verso funziona come complemento del primo, ciò che risalta è il voler mettere in dialogo una realtà sensibile (la ferita che fa male) e una spirituale che trascende la prima (non si sente il dolore). Come si fa perciò ad amare l’Amore (assunto che sarà molti anni dopo di Stendhal) ed essergli amico, al punto che non sappiamo farne a meno, se questo è l’aguzzino di ogni amante che si rispetti? Di quest’irresolubile querelle è forma e figura il ricorso costante ad anafore, metafore, ossimori antitesi ordinati in perfetta simmetria, a comporre la musicalità che era fondamento e ragione stessa di quella sublime e frustrante storia di uno scacco matto esistenziale in trecentosessantasei frammenti che era il Canzoniere petrarchesco. A replicarne la sentenza in modi quantomeno più dubitativi del velleitario tentativo di “guarigione” di messer Francesco dal suo «giovenile errore» è proprio l’interrogativo finale che ci dice, in sostanza, qualcosa di non molto diverso da quanto afferma Dante nel suo approccio alla beatitudine celeste: l’Amore, parafrasando, è un’estasi di cui si può solo godere, senza illudersi di penetrarne la ragione «perché appressando sé al suo disire, | nostro intelletto si profonda tanto, | che dietro la memoria non può ire». E questo perché, con buona pace degli aristotelici sillogismi di Camões, da che mondo è mondo l’unica cosa che sappiamo dell’Amore – come di Dio, e come di Luís de Camões – è proprio il nostro non saperne niente, ciò nonostante ostinandoci nel disperato e commovente tentativo di provarci almeno a capirne qualcosa, fino a volerci rompere la testa.

Lo smisurato pensiero d’amore

Che questa sia passione dentro nata, manifestamente il ti mostro, perciò che, se sì sottilmente volemo guardare lo vero, quella passione non nasce d’alcuna cosa fatta, ma da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta, quella passione procede. L’uomo, quando vede alcuna acconcia ad amare e al suo albitrio formata, di presente comincia a desiderarla nel cuore, e poi, quante volte pensa di quella, tanto maggiormente nel suo amore arde, infino che diviene a pensare le fazioni di quella e distinguere le membra e immaginare gli suoi atti e disegnare per pensieri le segrete cose de’ membri segreti e disiderare d’usare lo uficio di ciascuno membro di quella. Dappoi che per pensieri è divenuto a questa piena congiunzione delle cose segrete, lo amore non sa tenere gli suoi freni, ma incontanente procede all’atto e l’aiutorio cerca di messo mezzano e come e ’l luogo e ’l tempo possa trovare acconcio a parlare, e più, che la brieve ora gli pare più che uno anno, perché all’amante niente gli par fatto sì tosto come vorrebbe: e molte cose l’incontrano in questo modo. Adunque, è quella passione dentro nata per pensamento di cosa veduta. A commuovere ad amore non basta ciascuna pensagione, ma conviene che sanza modo sia, imperciò che pensagione con modo non suole alla mente ritornare, sicché amore non può nascere di quella. 

Andrea Cappellano, De Amore, cap. I

Ti dimostro chiaramente che la passione è naturale poiché, a ben guardare la verità, non nasce da nessuna azione; ma procede dal solo pensiero che l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, un uomo vede una donna che corrisponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore, fino a che non giunge a più pieno pensiero. E comincia a pensare alle fattezze della donna, a riconoscere le sue membra, a immaginare i propri gesti, e a frugare i segreti di quel corpo che desidera possedere tutto per il proprio piacere. Ma poi che giunge al pensiero pieno, l’amore non sa tenere il freno, e passa subito ai fatti; subito s’affanna a cercare complici e messaggeri. E comincia a pensare come incontrare la sua grazia, a chiedere luogo e tempo giusto per parlare, e un’ora gli pare un anno, perché non c’è nulla che possa subito saziare l’animo desideroso; e si sa che spesso succede così. Dunque la passione naturale procede da visione e da pensiero. Al sorgere dell’amore non basta il semplice pensiero, ma occorre che esso sia smisurato, perché il pensiero misurato non torna insistentemente alla mente, e da lì dunque non può sbocciare amore.

Come si amava nel XII secolo? Come oggi e come in tutti i secoli della storia dell’uomo. Ma è in quel torno di tempo che viene concepito un trattato fondamentale per capire che la disciplina dell’amore sopravvive immutata nella storia dell’uomo e, soprattutto, genera poesia. Lo si deve a tale Andrea “Cappellano”, secondo alcuni ciambellano del re di Francia Filippo II Augusto, secondo i più attivo alla corte di Maria di Champagne, figlia di quell’Eleonora d’Aquitania alla cui famiglia si deve – scusa, se è poco – la nascita e il diffondersi in tutta Europa della lirica trobadorica. Insomma, non si capirebbe un bel po’ della poesia della scuola poetica siciliana, di Guido Cavalcanti, come pure di Paolo e Francesca nel V dell’Inferno dantesco, senza aver letto il De Amore. Non si capirebbe, cioè, quanto assoluta e totalizzante sia la passione d’amore e come sovente sia destinata a restare per lo più insoddisfatta, poiché il desiderio eccede sempre la possibilità di essere pienamente soddisfatto. Perché l’amore nasce da un’ossessione del pensiero («da sola pensagione nell’animo presa di cosa veduta»): in principio è la “vista” dell’oggetto del desiderio a innescare il congegno esplosivo, ma perché questo diventi passione è necessaria quella che gli uomini del medioevo chiamavano vis cogitativa, cioè l’immaginazione interiore, quella che ci fa ripassare a memoria, ossessivamente, le fattezze, i gesti, le azioni quotidiane della persona amata, la sua presenza in situazione. Da qui, a cascata, tutte le sensazioni cui il discorso amoroso si associa, dall’attesa al timore, dalla speranza alla disillusione. Questo precipitato di fenomenologia sentimentale ha un’unica controindicazione, sinceramente antidemocratica: il suo autore non la riteneva proprio prerogativa di tutti tutti. Non dei ricchi e potenti né dei “rustici” (contadini e operai); vuoi perché i primi sono troppo presi da altre occupazioni per sopportare la lunga devozione che si deve a questo processo di affinamento dell’animo, mentre i secondi possono tutt’al più amare come «cavallo o mulo» (cioè «naturalmente») perché, se smettessero di lavorare, ne risentirebbe l’intera struttura economica. A fare il lavoro sporco dell’amore non restano, perciò, che gli sfaccendati professionisti dell’intelletto (poeti e professori, filosofi e artisti). Cappellano dixit.

Un cuore (beatamente) prigioniero

Aventuroso carcere soave,
dove né per furor né per dispetto,
ma per amor e per pietà distretto
la bella e dolce mia nemica m’ave;

gli altri prigioni al volger de la chiave
s’attristano, io m’allegro: ché diletto
e non martìr, vita e non morte aspetto,
né giudice sever né legge grave,

ma benigne accoglienze, ma complessi
licenzïosi, ma parole sciolte 
da ogni fren, ma risi, vezzi e giochi; 

ma dolci baci, dolcemente impressi
ben mille e mille e mille e mille volte;
e, se potran contarsi, anche fien pochi.

Ludovico Ariosto, Rime, XIX (ed. Bianchi)

Fortunata prigione di dolcezze dove mi ha chiuso la bella e dolce mia nemica, non per furia vendicatrice o per dispetto, ma per amore e per pietà; gli altri prigionieri, al chiudere della mandata, s’intristiscono, io mi rallegro: perché aspetto il diletto e non il martirio, la vita e non la morte, e non un giudice severo o una legge grave, ma benevole accoglienze, abbracci voluttuosi, parole liberate da freni inibitori, risa, carezze e giochi; e dolci baci, dolcemente impressi ben mille e mille e mille volte; e se ancora potranno contarsi, sarebbero pochi.

Alessandra Benucci, la magnifica ossessione di Ariosto, va e viene continuamente dai suoi versi, come il carceriere che, con metodica regolarità, porta il pasto al sequestrato. Il “carcere soave” è un luogo fisico – la camera dei convegni erotici semiclandestini, nella casetta ferrarese di via Borgo Vado – in cui l’amata lo ha probabilmente posto al riparo da sguardi indiscreti (la “cameretta” del sonetto che, nelle Rime per il Canzoniere, precede questo non lascia àdito a dubbi), e la stessa situazione immaginata è da “sindrome di Stoccolma”: l’ostaggio aspetta con ansia di sentire il rumore che farà la serratura della cella in cui è rinchiuso, ma anziché farsi prendere dall’ansia, prova sollievo fino a trepidare all’idea di incontrare chi lo ha rinserrato. Chi l’ha detto che soffrire per amore sia un male? Massimo Troisi – di Pensavo fosse amore e invece era un calesse – direbbe: «lasciatemi soffrire tranquillo, voglio solo soffrire bene». La luminosa e calda schiavitù di cui canta Ariosto, come quella che fingeva per i suoi eroi nelle isole incantate dell’Oceano, è piuttosto una condizione elettiva che fa vivere come un privilegio ciò che agli altri appare come un tormento (ma qui il poeta demolisce quella concezione penitenziale dell’amore che da Petrarca smotta fino al Cinquecento). E a riprova della sua tesi, Ariosto convoca, nell’ultima terzina – insopprimibile vezzo classicheggiante tipico dell’epoca – due autori (Catullo a Properzio) che cita in filigrana, con abile e liberatoria crasi intertestuale: i «dolci baci, dolcemente impressi | ben mille e mille e mille e mille volte» traducono i catulliani «basia mille, deinde centum / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum» del quinto carme, mentre il «se potran contarsi, anche fien pochi» del verso finale evoca l’«omnia si dederis oscula, pauca dabis» di un famoso carme properziano (II 15). Il “carcere”, perciò, allude anche a una condizione esistenziale ‘resiliente’ (mi si perdoni l’abusato aggettivo da élite del supermercato) che, anche nel più bruciante dei tormenti, fa volgere lo sguardo piuttosto alle gioie dell’amore: ai baci, agli abbracci, al linguaggio senza freni inibitori (leggasi: dirty talking), alle risa, alle carezze, ai giochi.

L’amore è contraddizione

S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?

Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale?

Se bona, onde l’effecto aspro mortale?

Se ria, onde sí dolce ogni tormento?

S’a mia voglia ardo, onde ‘l pianto e lamento?

S’a mal mio grado, il lamentar che vale?

O viva morte, o dilectoso male,

come puoi tanto in me, s’io nol consento?

Et s’io ‘l consento, a gran torto mi doglio.

Fra sí contrari vènti in frale barca

mi trovo in alto mar senza governo,

sí lieve di saver, d’error sí carca

ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio,

e tremo a mezza state, ardendo il verno.

Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, CXXXII

Quel che ci affascina dell’Amore è il suo essere ontologicamente contraddittorio. Annosa questione: «di cosa parliamo quando parliamo d’amore»? Prima di Raymond Carver – e da che esiste memoria della poesia stessa – se lo sono chiesti tutti. Al tempo di Petrarca, la faccenda generava sovente delle “tenzoni” – me ne viene in mente una tra Jacopo Mostacci, Pier della Vigna e Giacomo da Lentini – ma qui è l’autore del Canzoniere a ingaggiare un’assillante disputa con sé stesso attraverso un fuoco di fila di interrogativi destinati a rimanere, inevitabilmente, senza risposta. Più facile è procedere per negazione: an sit, quid sit («S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?»). Il movente l’aveva spiegato Andrea Cappellano: l’Amore muove ex visione et immoderata cogitatione, come prodotto di un cortocircuito tra vista e memoria attivata da una lontananza, e si esprime in forma di patologia che causa brividi di freddo quando c’è caldo e vampate nei mesi rigidi (è l’efficace ossimoro fisiologico del verso finale: «e tremo a mezza state, ardendo il verno»). La volontà di non amare serve a poco («come puoi tanto in me, s’io nol consento?») perché l’innamorato è, convenzionalmente, un navigante che deve governare una nave tra marosi in tempesta. Per cui la quidditas non può che essere la resa, il lieve e lieto naufragio nell’oceano della rassegnazione.

Peana per Sanremo (inteso come festival)

Nonostante la convenzionalità della sua annuale liturgia, mi piace la kermesse (così la chiamano quelli che sanno parlare) sanremese. E mi piacciono le canzonette che, non di rado, non «sono solo canzonette», come cantava Edoardo Bennato. Per uno stigma di leggerezza che accompagna il termine, siamo abituati, infatti, come italiani, ad associare loro l’idea del disimpegno, tanto da definire “leggera” la musica che passa dal palco del teatro Ariston e che in Francia si chiama, invece, musiques de variétes. Non la leggerezza, quindi, che evoca il «cuscino di piume, l’acqua del fiume che passa che va», di carrisiana memoria (nel senso di Carrisi “Al Bano”) o «una sola canzone per far confusione fuori e dentro di te» di stampo “riccopoveristico”, ma la varietas della forma che può dare ospitalità persino a versi struggenti come «laisse-moi devenir | l’ombre de ton ombre | l’ombre de ta main | l’ombre de ton chien» o «Non perderti per niente al mondo | lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te», al cui confronto persino Eugenio Montale si scanserebbe. Già nel 1964, Umberto Eco (Apocalittici e integrati) scriveva che «non è necessario che intrattenimento ed evasione, gioco, ristoro siano perciò stesso sinonimo di irresponsabilità, automatismo, qualunquismo, ghiottoneria sregolata» ed è quindi ormai comune la consapevolezza – almeno da quando l’Accademia di Svezia ha sdoganato definitivamente le canzoni conferendo il Nobel a Bob Dylan – che la strofa di una canzone possa avere pari dignità letteraria di una terzina dantesca.

Amo, ovviamente, le canzoni cosiddette “d’autore”, perché penso che proprio i cantautori (termine ormai onnicomprensivo e probabilmente desueto), in ogni tempo, siano stati tra i pochi che abbiano saputo raccontare la poesia. Mi sorprende sempre il fatto di riuscire a ricordare esattamente tutto il testo dell’Avvelenata di Guccini o 4 marzo ’43 di Dalla e pochissime poesie per intero, anche quelle che mi è capitato di spiegare decine di volte. Non imparo versi a memoria, ma alcuni canti della Divina Commedia mi sono entrati spontaneamente in testa. Non mi entusiasma l’idea di un ragazzo che digerisca e sciorini le terzine di un intero canto del poema dantesco, come mi lasciò affatto indifferente un professore del liceo che si compiaceva nel declamare il trentatreesimo del Paradiso, senza però riuscire a far sentire la potenza delle rime e delle immagini, la sua paura davanti al testo, il convincimento di essere arrivato davvero nell’Empireo.

mqdefault

Ora posso dirlo: ringrazio Petrarca, Leopardi e Saba. Sono stati loro, paradossalmente, a farmi approdare, entusiasta e impudico, alle  “canzonette”. E mi dà un grande piacere ascoltarle ogni giorno mentre guido o cammino per strada e chiedermi puntualmente quanto sottile sia il confine tra l’arte e la boiata pazzesca. Le canzoni assomigliano sempre a chi le ascolta, così come i libri assomigliano sempre a chi li legge. Lo spiega bene Truffaut in quella sequenza della Signora della porta accanto in cui fa dire a Mathilde-Fanny Ardant: «Ascolto solo le canzoni d’a­more perché dicono la verità, più sono stupide più sono vere… e poi non sono stupide. Che dicono? Dicono “non devi lasciarmi”, “senza di te in me non c’è vita”, “senza di te io sono una casa vuo­ta”, “lascia che io divenga l’ombra della tua ombra” oppure “senza amore non siamo niente”». Il regista francese disse pure, in qualche intervista, non so dove, che quel film assomigliava a una canzone di Edith Piaf, era un po’ come Ne me quitte pas di Jacques Brel.

maxresdefault

Vecchia questione quella del rapporto tra poesia e canzone. Mi piacerebbe, un anno, dedicare un intero corso di letteratura italiana ai ‘dintorni’ della letteratura. Chessò: un ciclo di conversazioni sulle voci di Buscaglione e Conte, Tenco e De André, Springsteen e Tom Waits, che sono riusciti a raccontare la loro epoca meglio di quanto facciano quei poeti che – loro sì – per dirla con il poetico (senza virgolette) Ligabue, “hanno perso le parole”. E questo perché la forza della musica “leggera” (sì, persino quella di Sanremo) è nel suo essere anche cultura orale. Come nell’incipit di Moby Dick («Chiamatemi Ismaele»), in cui Melville è come se ci dicesse “guardate che non è solo roba scritta quella che leggerete, ma voce, racconto, respiro, invenzione senza fine”. Sì, la canzone è voce che racconta versi, per questo cattura più della poesia (un mio ex alunno delle medie mi diceva: «prof, Dante non lo capisco, invece Vasco mi prende»). La poesia vuol essere rimasticata dalle parole di tutti e allora forse le inventeremmo o le scopriremmo una funzione. Chi ricorda Travis-De Niro in Taxi Driver? Ripeteva a memoria un intero elenco del telefono in modo autistico. Eroico certo, ma profondamente malato, indurito, a un punto morto e senza speranza.

Io non me ne farò mai niente della letteratura che si perpetua uguale a sé stessa. Io vorrei che la poesia passasse di bocca in bocca, come le strofe di una canzone. Forse è per questo che i moderni vati sono le star della musica. E forse è giusto che sia così. I poeti avrebbero tanto da imparare ascoltando Sanremo, capirebbero che la parola può essere muffa (o «merda», come diceva Rimbaud della poesia), se non diventa corpo, fiato, spirito, sangue, se non si scioglie tra le dita quando cominciamo ad ascoltare le voci che si muovono sotto e dentro di essa. Proprio come succede con alcune canzoni che ci parlano, ci raccontano, ci mentono, ci recitano e, recitando, elaborano sogni, rappresentano il presente.