La semplessità della libellula

Tu mi ami.
Con precisione
di orologiaio
e di arrotino
che intento affila
la lama e si fa
lama.
Tu mi ami.
Come io fossi il lago
è cosí che mi guardi
contemplando
quando meno mi accorgo
come se avessi un insondabile
fondo
e sorridi
all’enigma dei gorghi
che ti sono amici
perché portano a me.
E tu sei lago
che mi sciogli i muscoli
di atleta stanca
di acrobata invecchiata
tutti i me caduti sparsi
nella corrente,
con quiete
con volontà guaritrice
di acqua che sta.
Amore mio
cucciolo di uomo
guardiano di ferite animali
c’è il mondo
il mondo c’è
e ci intuisce.

Chandra Livia Candiani, Tu mi ami, da La bambina pugile, ovvero la precisione dell’amore

Non si cerchi il profondismo nei versi di Chandra Livia Candiani, essendo la sua cifra lirica riducibile a un concetto che si è andato recentemente affermando con le teorie di un fisiologo della percezione come Alain Berthoz: la semplessità. In un mondo in cui l’uomo è ingabbiato in una complessità che non ha precedenti nella storia, l’amore può soccorrerci e lenire il senso di smarrimento che procura la claustrofobica dimensione del labirinto di sovrastrutture sociali e psicologiche con cui rappresentiamo l’esistente. Amare è semplice come pregare, è disporsi alla richiesta in cambio di una tregua, è hiketèia, la supplica, ovvero la richiesta di protezione a scambio di resa. Amando ci consegniamo agli altri, chiediamo riparo per salvarci. Il rituale della supplica antica – Hiketides è il titolo originale della tragedia Supplici di Eschilo – prescriveva che il supplicante si facesse egli stesso dono, nella propria nudità di essere senziente, offrendo ramoscelli di ulivo o veli bianchi, e raccontandosi al supplicato senza imposture. Ma la supplica è anche un rito di passaggio, segna il confine tra il camuffamento sociale e l’elementare nudità animale, è punto di sutura tra Cultura e Natura. In questa disciplina dell’amore, il supplicante non perde nulla della propria dignità di essere umano per il fatto che implori, anzi, esponendosi senza difese esalta la propria nobiltà di essere vivente che chiede, appunto, di essere semplicemente, cioè di affermarsi ontologicamente, con quella levità che non è leggerezza, ma intuizione e meraviglia, contravveleno alla paura.

Eschilo, e con lui la tragedia greca, ci insegnano che gli atti del chiedere, supplicare, implorare non hanno niente di svilente, nel momento in cui ci mettono in relazione con l’altro e col mondo. L’essere che ama è come il naufrago che chiede aiuto per sopravvivere, il suo desiderio non è tanto quello di scampare alla morte, ma di riconoscere umilmente la presenza nella vita, tutto ciò che lo rende simile agli altri. Egli vorrebbe contemplare il battito d’ali della farfalla da un emisfero piuttosto che la catastrofe che genera nell’altro. Per affrontare la complessità sempre maggiore del mondo gli esseri umani hanno bisogno di soluzioni semplici, ma allo stesso tempo facili, un po’ come fanno i software che ci aiutano a gestire in modo intuitivo operazioni altrimenti macchinose. Un po’ come fa la poesia di Candiani che parla di qualcosa di complicato come l’amore – non complicato in sé, probabilmente, ma reso tale dagli esseri umani – utilizzando un linguaggio e degli scenari facilmente decifrabili.

Amare implica la disposizione dell’arrotino che affilando la lama si fa egli stesso lama, o dell’acqua che si avvita in gorgo da cui lasciarsi trascinare e poi si acquieta in lago che scioglie i muscoli. Ognuno può farsi «guardiano di ferite» altrui e non deve farci paura arrenderci; in un suo libro che s’intitola Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano, Candiani si definisce «una persona abbandonabile», intendendo l’abbandono non come possibilità dolorosa ancorché liberatoria (laddove non esistano le condizioni di un incontro), ma addirittura auspicabile «per incontrarsi davvero, per intendersi senza troppa fatica». Che è sua volta il presupposto per la leggerezza e la grazia di un nuovo incontro, come per le libellule o le farfalle.

Cuore e mente di madre

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Pier Paolo Pasolini, Supplica a mia madre

Sono pochi gli artisti italiani del Novecento che sono stati in grado, come Pier Paolo Pasolini, di scavarsi dentro oltre ogni pudore, di confessarsi al di là di ogni convenzione o di ogni irrazionale timore che la parola «rispetto» spesso nasconde. È così nella famosa e struggente Supplica alla madre, in cui l’autore s’immerge nel maelstrom della propria angoscia esistenziale identificandone il movente primario nel più assoluto degli amori, quello materno. Un amore che è speculare all’altro, assoluto e impossibile, che si era voluto perseguitare e punire, e di cui non avrebbe senso parlare ancora oggi, se la religione e lo Stato non provassero fastidio a sentirlo proclamato in ogni evidenza come naturale. Un motivo privato, viscerale e persistente che si porta appresso anche il suo contrario, cioè quello frustrato e frustrante col Padre, laddove il concetto di Padre implica non solo il confronto con il modello biologico, ma con la Tradizione – culturale, ideologica, religiosa – con cui entrò sempre in un rapporto dialettico e conflittuale.

Lo stesso rapporto di Pasolini con ogni altra donna, si chiamasse Laura Betti, Maria Callas, Silvana Mangano o Elsa Morante, passa attraverso il rapporto con la madre, l’unico in cui è andato a fondo, quello attraverso cui leggere il mondo, per ciò che Susanna Colussi, sua madre, rappresentava.

Il fatto di non vedere le donne nella loro realtà lo avrebbe portato a prendere posizione contro l’aborto, vedendolo essenzialmente dal punto di vista del bambino ancora non nato, dell’uomo “potenziale”, vedendoci la negazione di sé stesso come figlio e una forma di violenza da parte della madre, senza riflettere sul fatto che il più delle volte è la donna a subire la violenza.

estratto da In forma di rosa. Sei quadri e un requiem per Pasolini (2009), di Rosario Castelli

Complesso e contraddittorio Pasolini, come nessun altro, perché complesso umanamente e non solo per la deformazione del personaggio la cui esistenza e la cui opera, proprio perché così complessa, non si presta a essere romanzata. Ma anche per altri motivi come, per esempio, l’ampiezza della produzione e l’essere questa strettamente legata al momento storico-sociale in cui fu concepita, e soprattutto perché nella sue parole non c’è nulla di inessenziale: una caratteristica degli scrittori molto presi dal senso della propria attività, dalla frequente tentazione di auto-analizzarsi attraverso la propria arte. L’unico approccio possibile sembra, perciò, quello disordinato, onnivoro, candido e irrazionale che si conviene a un artista “rinascimentale” – l’ultimo della nostra storia – seppe tessere come in un retablo una ragnatela di interessi – la narrativa, la poesia, la critica militante, la filologia, la politica, la musica, la pittura, il cinema, il teatro – cosicché la sua migliore opera è la globalità della sua Opera, in un’inestricabile fusione di Arte e Vita.

Sempre è per sempre

L’ultima nota del tuo addio
mi disse che non sapevo nulla
e che arrivavo
al necessario tempo
di imparare i perché della materia.
Così, fra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
raddoppiano la fame dell’orecchio.
Che è la strada, e la polvere,
la ragione dei passi.
Che la via più breve
fra due punti
è il giro che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un pezzo di Vivaldi.
Che i geni gentili
stanno nelle bottiglie di buon vino.
Una volta imparato tutto questo
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante scrissi
La Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio,
non si finisce mai
d’imparare e aver dubbi.
Così, ancora una volta
facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda una stella cadente,
seppi che la mia opera era scritta
perché La Più Bella Storia d’Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi.

Luis Sepúlveda, La più bella storia d’amore

La storia, nella sua scarna essenzialità, è questa: “Lucho” Sepúlveda conobbe Carmen Yáñez – la Pelusa – cui è dedicata questa poesia – nel 1968. Il Cile era allora sotto la presidenza del socialista Salvador Allende; la temperatura delle tensioni sociali era alta e Luis era un giovane molto impegnato, ancor più dopo il terremoto generazionale della morte del Che in Bolivia. Molti ragazzi attivi nella Gioventù comunista scoprirono allora che il partito nascondeva diverse notizie sulla rivoluzione cubana, ed entrarono in conflitto col partito, alcuni come lo scrittore vennero espulsi. Negli anni del governo di Unidad popular, tra incessanti riunioni, scioperi, manifestazioni, picchetti, volantinaggi, quel diciottenne sognatore, che incantava parlando di politica, di poesia, di libertà conobbe la quindicenne Carmen, lei era la sorella di un amico che gliene aveva vantato la bellezza: «è da mangiare», avrebbe detto. Dopo tante insistenze di Lucho, l’amico avrebbe accettato di presentargli la sorella, in cambio di due bottiglie di vino. «È quello che valgo» scherzerà Carmen anni dopo, in un video per i settant’anni di Sepulveda: «due bottiglie di vino, e neanche pregiato, di quello scadente, da supermercato».

Innamoratissimo, la sposerà dopo tre anni, nel 1971, concependo insieme un figlio: Carlos Lenín. Ma si vedranno pochissimo a causa dell’intensa militanza politica che li terrà lontani a lungo. La loro giovinezza finirà di colpo l’11 settembre del 1973, con il golpe di Pinochet che metterà fine al governo allendista, costringendo entrambi alla clandestinità e all’esilio: lui in Germania, lei in Svezia. Per entrambi sarebbe cominciato un periodo di clandestinità, arresti, torture e repressione. Sepúlveda lascerà il Cile nel 1977, Carmen quattro anni dopo, lui si trasferirà in Germania, lei in Svezia. I contatti tra i due saranno solo epistolari e telefonici, ma saranno costanti e amichevoli anche dopo il pacifico divorzio che converranno.

Lo scrittore si risposerà con Margarita, con cui vivrà ad Amburgo e da cui avrà altri tre figli, ma da cui si separerà dopo tredici anni di matrimonio. La seconda moglie tedesca aveva sempre saputo che il marito era rimasto innamorato di Carmen. Ed è a questo punto che accade quell’imponderabile che solo la fantasia letteraria riesce a concepire; Lucho vive ancora con la moglie in una casa nella Foresta Nera, anche se di fatto erano già sentimentalmente separati, e Margarita decide di invitare Carmen durante un’assenza dello scrittore, impegnato come ospite alla “Semana Negra” di Gijón del 1996. L’anno è fatidico, è quello che dà inizio al successo mondiale di Sepúlveda con la pubblicazione della Gabbianella. Al ritorno dalla Spagna, del tutto ignaro della presenza di Carmen e del figlio che lei ha avuto da un altro uomo, lo scrittore la trova in casa.

Ricomincia così, dopo vent’anni, la loro storia d’amore; i due decidono dopo pochi giorni di partire per Parigi mentre Margarita si offre di tenere con sé tutti i bambini. Ed è sul treno che da Basilea li porta in Francia che Lucho scrive questa poesia. Dopo una sola notte a Parigi, l’uomo le propone di andare a vivere insieme a Gijón e lì si trasferiranno dopo qualche mese, risposandosi nel 2004. Vivranno insieme, fino alla morte dello scrittore, in una casa magica affacciata sull’oceano, con i due animali che Sepúlveda amava immensamente: un cane di nome D’Artagnan e un gatto – Yoyo – che stava sempre ad osservarlo, per ore, mentre scriveva.

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La vita in uno sguardo

Ve voglio dí ‘na cosa: quanno ve sto vicino,
nun me guardate,
si no scumbino.
E vuie ve n’addunate;
e niente, niente, tosta,
vuie cchiù ‘o ffacite apposta,
pè vedè
sta faccia mia ca se fa bianca o rossa.
E ce truvate sfizio… Ma pecché?…

Vuie me guardate, e j’ tremmo ‘a cap’ ‘o pere,
comme ‘na fronn’ a ‘o viento.
M’arreparo,
ma ancora tremmo.
S’affaccia nu penziero
e chistu suonno doce se fa amaro.

Sultanto si addu me venesse ‘a Morta,
m’avisseva guardà,
pecché sultanto allora
a chesta mia signora,
a braccia aperte, j’ l’arapess’ ‘a porta,
dicenno: «Trase, viéneme a piglià!»

Pecché sultanto tanno,
mentre stesse spiranno,
io ve dicesse: «Guàrdame,
nun rimanè avvilita,
‘na guardata d’ ‘a toja
s’adda pavà c’ ‘a vita!»
E murenno ve desse pure ‘o «tu»,
pecché fosse sicuro
ca nun tremmasse cchiù.

Eduardo De Filippo, Nun me guardate

Le poesie di Eduardo De Filippo mostrano una qualità su tutte: la frammentarietà quasi diaristica in cui a prevalere sono soprattutto stati d’animo comuni, tra lo stupefatto e il malinconico, lo struggente e lo scanzonato. Però, anche quando a parlare è un innamorato, come in questo caso, non è scontato individuare una matrice autobiografica. E questo perché, per tutta la vita, i versi funsero anche da laboratorio in cui potessero prendere forma situazioni e personaggi che si sarebbero riversati nei copioni. Certo è che, all’inizio del 1928, cui risale la bellissima Nun me guardate, nella vita di Eduardo era entrata in modo travolgente una donna che si può legittimamente ritenere la destinataria naturale del sentimento espresso. Si chiamava Dorothy Pennington – Dodò – ed era un’americana di passaggio in Italia, colta e affascinante, di cui Eduardo si era infatuato, facendone la prima delle tre mogli che ebbe, nonostante l’opposizione della sorella e della madre di lei che non vedevano di buon occhio il matrimonio con un attore di teatro (sinonimo anche allora, ahimé, di spiantato).

Il pensiero che in questi versi si affaccia è quasi stilnovistico, nell’attribuire alla potenza dello sguardo di una donna quasi dispettosa la capacità stessa di donare o rinnovare la vita; i sintomi sono quelli di uno stato febbrile che si manifesta a una sola occhiata: l’agitazione («nun me guardate, | si no scumbino»); le repentine vampate al volto; il tremore. Ma in un ipotetico inventario degli sguardi che dalla letteratura si potrebbe ricavare, è mitica la prospettiva che solo in limine mortis si possa sostenere – occhi negli occhi – la vista dell’amata e che in quel punto fatalmente debba cessare la vita stessa («na guardata d’a toja | s’adda pava’ c’a vita!»), come per una moderna Gorgone, ma senza serpenti in testa.

Poco sappiamo, per il resto, di quella sposa americana, pur intelligente e di ottima famiglia, che poco doveva capire probabilmente del dialetto napoletano e poco gliene caleva del teatro e dell’attività del marito. Che per Eduardo quella donna fosse però la sua luce lo potrebbe confermare un’altra poesia – ’O raggio ’e sole – , scritta nello stesso torno di tempo e in parte utilizzata in una breve commedia del ’32 dal titolo Gennareniello.

Lo scrittore immagina una casa fredda e buia in cui non entra mai la luce; quando la sua donna, giocando con uno specchio, indirizza sul volto dell’uomo il riflesso di un raggio di sole, sembra infondergli vita. Poi lo specchio viene poggiato e il raggio si ferma, e con esso la vita. Segno che la donna se n’è andata: «quann’ ’o raggio s’è fermato, | segn’è ca chi ’o muoveva se n’è gghiuta».

L’«esmesuranza» e l’«esvalïanza», ovvero: come rincoglionire in poche semplici mosse

O iubelo del core,
che fai cantar d’amore!
Quanno iubel se scalda,
sì fa l’omo cantare,
e la lengua barbaglia
e non sa che parlare:
dentro non pò celare,
tant’è granne ’l dolzore.
Quanno iubel è acceso,
sì fa l’omo clamare;
lo cor d’amor è appreso,
che nol pò comportare:
stridenno el fa gridare,
e non virgogna allore.
Quanno iubelo ha preso
lo core ennamorato,
la gente l’ha ’n deriso,
pensanno el suo parlato,
parlanno esmesurato
de che sente calore.
O iubel, dolce gaudio
ched entri ne la mente,
lo cor deventa savio
celar suo convenente:
non pò esser soffrente
che non faccia clamore.
Chi non ha costumanza
te reputa ’mpazzito,
vedenno esvalïanza
com’om ch’è desvanito;
dentr’ha lo cor ferito,
non se sente de fore.

Iacopone da Todi, O iubelo del core

O gioia del cuore, che fai cantare per amore! Quando la gioia s’infiamma, fa cantare l’essere umano veramente, e la lingua balbetta e non sa quel che dice: non può nascondere dentro di sé la dolcezza, tanto è grande. Quando l’intima gioia raggiunge il massimo fervore, fa davvero gridare; il cuore è infiammato d’amore, al punto che non lo può sopportare: la gioia fa gridare stridendo, ma in quel momento non si prova vergogna. Quando la gioia ha preso interamente il cuore innamorato, la gente lo deride, pensando ai discorsi di costui che parla in modo irrazionale di ciò che lo brucia. O gioia, dolce piacere che entri nella mente, il cuore diventerebbe saggio, se nascondesse il proprio stato: eppure non può evitare di gridare. Chi non ne ha esperienza ti reputa impazzito, vedendo lo strano contegno, come di chi vaneggia; internamente ha il cuore ferito e non percepisce il mondo esterno.

Certo, l’amore di cui si parla è quello per Dio, ma in cosa differisce da quello per un essere umano? Quando amiamo, non proviamo forse lo stesso intenso sentimento di gioia e di ebbrezza che fa toccare il cielo con un dito? Non è, l’amor profano, una forma anch’esso di esmesuranza che può condurre allo spossessamento di sé, che ci fa straparlare con chiunque della persona amata, facendocela idealizzare e magnificare ben oltre ogni connotazione realistica, producendo il vaneggiamento (esvalïanza) finale? Si dirà che iubelo, termine frequente, oltre che nel componimento, nel lessico mistico in genere, non lasci àdito a dubbi sul fatto che di amore per l’Altissimo si stia parlando. Epperò Iacopone – bricconcello – per celebrare l’amor sacro, usa in abbondanza il lessico della poesia profana, disseminando la sua lauda di tanti provenzalismi tipici della lirica dei trovatori: il «cantar d’amore», il «dolzore», per dirne una, vengono da lì per poi fare rotta verso i siciliani.

La stessa impossibilità di profferire parola al culmine dell’estasi mistica («e la lengua barbaglia | e non sa che parlare») ricorda l’impaccio che coglie, in Madonna mia, a voi mando, Giacomo da Lentini in presenza della donna amata, e lo fa ammutolire quasi rincoglionito («da poi ch’e’ per dottanza / non vo posso parlare»). Per non dire che il ricorrente concetto del calore («Quanno iubel se scalda»; «Quanno iubel è acceso») come proiezione figurale dell’amore ha un suo corrispettivo in Guinizzelli di Al cor gentil rimpaira sempre amore («e prende amore in gentilezza loco | così propïamente | come calore in clarità di foco. | Foco d’amore in gentil cor s’aprende | come vertute in petra prezïosa»; «Amor per tal ragion sta ’n cor gentile | per qual lo foco in cima del doplero»). Queste spie che ci dicono della sicura conoscenza, da parte dell’autore, di modelli della tradizione, basterebbero a farci ritenere che egli volesse scrivere un testo “letterario”, una poesia d’amore, e non solo una preghiera. Connesso a questi motivi, è poi il motivo della dolcezza («tant’è granne ’l dolzore»; «dolce gaudio»); in siciliano (ma anche in calabrese), l’espressione «aviri u cori ‘nto zuccuru» (avere il cuore nello zucchero), che potrebbe figurare benissimo nel lessico della gentilezza cortese per significare la condizione di chi è infatuato, è pregnante anche per dire di come l’eccesso di dolcezza possa finire col produrre, dopo il picco dell’innamoramento, segnali di altra natura: malinconia, incupimento, tristezza. Esattamente come avviene al corpo e all’umore con l’iperglicemia.

Il bisturi e la penna, il sangue e l’inchiostro

Cui facissi d’iłłu notomia in ogni parti ci truviria a N.
Quandu, tiranna, a casu ti placissi
di fari di mia stissu notomia,
e carni e sangu et ossa mi vidissi
per satisfazioni tua e mia,
iu letu e tu contenti ristirissi
e satisfatta la tua chirurgia,
perchì di parti in parti scopririssi
chi tu sì ngrata e iu moru per tia.

Se qualcuno vivisezionasse il poeta, / troverebbe l’amata in ogni parte. | Tiranna, se per caso ti venisse voglia | di notomizzarmi, | e con mia e tua soddisfazione | vedessi la mia carne, il mio sangue e le mie ossa, | io ne sarei lieto e tu contenta, | e soddisfatta la tua operazione chirurgica, | perché da parte a parte scopriresti | che tu sei ingrata, e io muoio per te.

Antonio Veneziano, dal Libro delle rime siciliane, Libru primu (Celia), 11

Nel secol – il Cinquecento – che più della luce di Petrarca prese, non pochi bagliori s’irradiarono dai versi di Antonello Veneziano (più noto come Antonio). Quello per l’aretino fu un trend virale che in Sicilia conobbe non pochi testimonial: un’ostinata fedeltà garantita da svariati poeti d’accademia impegnati a competere, e in qualche caso a vincere, la sfida con i colleghi delle altre regioni italiane. Ma Veneziano aveva una marcia extra, non fosse altro che per quell’aura d’artista maudit che la sua vita da rebel without a cause gli assicurava, e che lo portava a entrare e uscire di prigione a più riprese, lui, educato dai gesuiti e figlio di un mastro notaro della Curia monrealese.

Tra omicidi e veri e propri ratti (nel 1573 era stato accusato di aver sottratto a una terziaria domenicana una servetta di cui s’era invaghito), il siculo Petrarca conobbe pure Cervantes in una prigione algerina, dopo essere stato catturato dai corsari. E già questi dettagli gli varrebbero almeno un film. Anche perché dall’immortale autore del Chisciotte ricavò sincera stima e amicizia, prima di essere riscattato dalla schiavitù grazie all’intervento della sua ricca e potente famiglia che volle riportarlo a Monreale. Sciarrino (leggi “litigioso”) come pochi, si impegolò ancora in liti e contese a colpi di carta bollata e di libelli contro chiunque – parenti, vescovi e viceré – che gli valsero ancora i ferri, a Palermo, dove morì tragicamente nel ’93 a seguito di un incendio che arse insieme prigioni e detenuti: gioventù bruciata, è il caso di dirlo. A dispetto di tanta vita spericolata, era però anche un uomo molto colto che produsse prose eleganti nonché versi in lingua di apprezzabile nitore; ma le settecentocinquantatre canzuni siciliane scritte per la misteriosa Celia sono, senza tema di smentita, il suo greatest hits. Sullo sfondo c’è sempre il più famoso Canzoniere, ma nell’emulazione di quei famosi stilemi l’aspetto meno convenzionale, e perciò stesso originale, fu il tentativo di pennellare le immagini e le situazioni da repertorio in un modo più espressivo e realistico di quanto non riproducessero le rarefazioni astratte e intellettualistiche di maniera. Insomma, anche quando scriveva veniva fuori la sua indole eslege, con quel gusto per il coup de théâtre d’impatto, per quella ruvidezza da carta vetrata così aliena dalle levigature dei petrarchisti doc.

Lo si può notare anche in questi versi in cui invita l’amata a dissezionarlo chirurgicamente per farle trarre la soddisfazione un po’ sadica di ritrovare in ogni parte del suo organismo tracce di lei. Già il solo dire questo in un registro dialettale “basso” non è poca roba nella storia della poesia cinquecentesca cui si addiceva, all’inverso, l’elevatezza con cui dipanare la tematica amorosa. Se a questo si aggiunge che, pur in questo sdrucciolamento stilistico, Veneziano riesce a essere a un tempo tenero e beffardo, accorato e sprezzante, si capisce come riesca a svisare da virtuoso sulla tastiera linguistica, come uno Scott Joplin ante litteram che alterna ritmi sincopati e contrattempi (come nel dittico finale «perchì di parti in parti scopririssi | chi tu sì ngrata e iu moru per tia»), a riprova di quanto la poesia riesca a essere, talora inconsapevolmente, il correlativo del temperamento di chi la produce. Nel caso di Veneziano, l’espressione di un vitalismo estremo e dannatamente sensuale.

Fuoco d’amore e sospiri estremi

È un foco Amor, che ascoso tien l’ardore; | è ferita, che punge, e non si sente; | è un piacer, che tien l’alme discontente; | è acerbo duol, di cui non si ha dolore: || è un non voler, che ciò che vuole Amore; | è un andar solitario tra la gente; | è un godere con voglie non mai spente; | è un credersi felice ove si more: || è un suggettarsi i vincitori a i vinti; | è uno stare in prigion, perché si vuole; | è un esser fidi a chi ci brama estinti. || Come mai de l’Amor si grande amico | è il core uman, che senza lui si duole, | se Amore de gli amanti è si nemico?

Amor he hum fogo que arde sem se ver; | He ferida que doe e não se sente; | He hum contentamento descontente; | He dor que desatina sem doer; || He hum não querer mais que bem querer; | He solitario andar por entre a gente; | He hum não contentarse de contente; | He cuidar que se ganha em se perder; || He hum estar-se preso por vontade; | He servir a quem vence o vencedor; | He hum ter com quem nos mata lealdade. || Mas como causar póde o seu favor | Nos mortaes corações conformidade, | Sendo a si tão contrário o mesmo Amor?

Luís Vaz de Camões, Amor he hum fogo que arde sem se ver

Di Luís de Camões si sa poco e quel che si sa è parente stretto della leggenda. L’autore delle Lusiadi, il poema nazionale portoghese e del suo massimo eroe, Vasco de Gama, vive nel Cinquecento, il secolo in cui l’Europa letteraria è letteralmente attraversata dal richiamo imperioso della poesia petrarchesca. Al richiamo del componimento alla maniera di non resiste nemmeno lui, ma a differenza di tanti sterili emuli banalmente preoccupati di adeguarsi al costume normativo dell’epoca, si libra altissimo e con sincerità d’ispirazione. Basterebbe anche solo questo sonetto a consacrarlo nel Pantheon lirico lusofono, e non solo in quello. La traduzione di questo sonetto è ottocentesca, si deve a Juan Francisco Masdeu, un erudito spagnolo di origini siciliane (era nato a Palermo), un gesuita esiliato in Italia dopo l’espulsione del suo ordine, che la consegnò a un volume il cui titolo (lunghissimo) riporto perché così mi aggrada: Arte poetica italiana di facile intelligenza. Dialoghi familiari diretti ad insegnare la poesia a qualunque persona di mediocre talento, sia uomo, o donna, benché non altro sappia che solo leggere e scrivere.

La natura ossimorica dell’amore si traduce, con Camões, in un fuoco di fila di metafore caratterizzato dall’eterogenesi dei fini, per cui l’effetto contraddice puntualmente la causa: è fuoco che avvampa, ma non brucia, ferita di cui non si sente il dolore, morte di cui essere felici, un sottomettersi ai vinti. E così via. Da questo bulimico catasto di paradossi e contraddizioni in cui il secondo termine del verso funziona come complemento del primo, ciò che risalta è il voler mettere in dialogo una realtà sensibile (la ferita che fa male) e una spirituale che trascende la prima (non si sente il dolore). Come si fa perciò ad amare l’Amore (assunto che sarà molti anni dopo di Stendhal) ed essergli amico, al punto che non sappiamo farne a meno, se questo è l’aguzzino di ogni amante che si rispetti? Di quest’irresolubile querelle è forma e figura il ricorso costante ad anafore, metafore, ossimori antitesi ordinati in perfetta simmetria, a comporre la musicalità che era fondamento e ragione stessa di quella sublime e frustrante storia di uno scacco matto esistenziale in trecentosessantasei frammenti che era il Canzoniere petrarchesco. A replicarne la sentenza in modi quantomeno più dubitativi del velleitario tentativo di “guarigione” di messer Francesco dal suo «giovenile errore» è proprio l’interrogativo finale che ci dice, in sostanza, qualcosa di non molto diverso da quanto afferma Dante nel suo approccio alla beatitudine celeste: l’Amore, parafrasando, è un’estasi di cui si può solo godere, senza illudersi di penetrarne la ragione «perché appressando sé al suo disire, | nostro intelletto si profonda tanto, | che dietro la memoria non può ire». E questo perché, con buona pace degli aristotelici sillogismi di Camões, da che mondo è mondo l’unica cosa che sappiamo dell’Amore – come di Dio, e come di Luís de Camões – è proprio il nostro non saperne niente, ciò nonostante ostinandoci nel disperato e commovente tentativo di provarci almeno a capirne qualcosa, fino a volerci rompere la testa.

Lou e Rainer

Come potrei trattenerla in me,
la mia anima, che la tua non sfiori;
come levarla, oltre te, ad altre cose?
Ah, potessi nasconderla in un angolo
perduto della tenebra, un estraneo
rifugio silenzioso che non seguiti
a vibrare se vibri il tuo profondo.
Ma tutto quello che ci tocca, te
e me, insieme ci prende come un arco
che da due corde un suono solo rende.
Su qual strumento siamo tesi, e quale
violinista ci tiene la mano?
O dolce canto.

Rainer Maria Rilke, Canto d’amore, trad. di G. Cacciapaglia

Caro Rainer,

la tua lettera, che mi è stata appena recapitata, è qui davanti a me e mi sembra faccia parte di questa prima neve d’inverno che si stende a perdita d’occhio davanti alle finestre e sui giardini circostanti, tale è l’intensità con cui mi parla della lontananza da te, la lontananza di cui scrivi, che non dovrebbe esistere. Io l’avverto fortemente, Rainer, è una lontananza puramente spaziale, e vivo come assurdo il fatto che mi risulti insormontabile. Salvo poi ricorrere al treno e a tutti i possibili dispendi di energia per improvvisare un incontro a data da destinare. E invece noi dovremmo essere vicini l’uno all’altra attraverso vie impercettibili, spontaneamente, in profondo silenzio; non dovrebbe trattarsi in alcun modo di un frammento nel mosaico del vissuto destinato a spostare le altre tessere, ma di un’esperienza che si realizza senza dislocare nulla e senza doversi adeguare a quei contorni. Dovrebbe pur essere possibile e forse un giorno lo sarà davvero. Io sto già facendo qualcosa di analogo – qualcosa che si avvicina a quest’esperienza – e te ne ho parlato molte volte. Solo quando leggo la tua lettera, il passo del taccuino e tutte le pagine in cui improvvisamente trova espressione ciò che altrimenti resta inanimato e muto persino nei rapporti umani più intimi e personali, solo allora ti ho accanto a me. Ho l’esperienza più autentica del tuo vissuto, della tua esistenza, e non c’è nulla al mondo che mi convinca che nel frattempo da te si sia staccato un frammento, per quanto minuscolo, perché dentro alla tua scrittura tu ti preservi totalmente, integro e sano, come colui che sperimenta al massimo grado di profondità l’essenza dell’umano. Sì, allora ti ho, ti vedo di nuovo, ed è davvero una consolazione immensa sapere che puoi intraprendere questi viaggi segreti fino a me, fino a tutte le mie più intime percezioni dell’esistenza. Ma come posso comunicarti a mia volta questa indescrivibile vicinanza? In che modo posso dirti che in questa particolare condizione è quasi brutalmente indifferente se la via si delinea dalla beatitudine di vedersi consacrato al tutto o dal terrore di mischiarsi con ciò che non ci appartiene? Come posso trasmetterti la gioia indubitabile che in entrambi i casi l’uomo che si esprime è esattamente lo stesso – così come sempre il medesimo è l’uomo sulla croce e il risorto – quello stesso uomo che, scisso tra un beato possesso assoluto e il martirio di essere a sua volta posseduto, non poté fare altro che rinunciare a ciò che gli altri chiamano il proprio “sviluppo”, il proprio costante e proficuo cammino esistenziale. Sono fermamente convinta che non sia possibile modificare questo stato di cose e ne sono contenta, perché operare dei cambiamenti comporterebbe la più spaventosa delle fratture. Io credo che tu debba soffrire e soffrirai sempre. Non c’è nessuno che possa evitartelo, ma è possibile – sì, questo è possibile – che avere qualcuno accanto che lo sappia e partecipi alla sofferenza a volte faccia bene, a volte male. Sento che oggi sarei molto più dura con te di quanto non lo fossi un tempo (anche se in un modo del tutto diverso rispetto ad allora) e sento anche che in me sono maturi mille sguardi materni e tenerezze per te, per te soltanto, tu che sei l’unico in grado di percepirli e di goderne. Ma anche in questo caso questi due aspetti non sarebbero che un’unica identica cosa: ed è strano quanto mi sia evidente che l’intransigenza ne fa parte e non è disposta a cedere in grandezza. Ti allontana da me che io ti scriva questo? Ne sono certa: arriverà il giorno in cui saremo di nuovo molto felici insieme e lieti allo stesso modo di tutti i pericoli che la vita ha in serbo per ciascuno di noi due, separatamente.

Lou Andreas Salomé a Rainer Maria Rilke, del 13 gennaio 1913

Leggendo la corrispondenza tra Rilke e Lou Andréas-Salomé, con ogni probabilità una delle più belle di tutto il Novecento letterario, se ne ricava la sensazione potente di come fosse lei l’infermiera dell’anima del poeta, unica garanzia di redenzione dal mal de vivre, lei che governa le forze oscure dell’uomo e ne orienta guarigione e creazione. Lou è lì, luminosa, in quel crocevia tra la depressione e l’angoscia che Rainer le confessa, con metodica regolarità, nei suoi giorni di sterilità creativa, ed è perciò tanto l’interprete d’elezione dei suoi demoni quanto il baedeker più efficace per addentrarsi nell’abisso del suo intelletto poetico. Lou aveva il talento per essere amante e confidente già prima di diventare, negli anni cui risale questa lettera, l’allieva di Freud. La psicoanalisi però l’aveva imparata sul campo, avendo avuto una cavia d’eccezione per quasi dieci anni. Le lettere che si scrivono e i canti d’amore che lui le dedica sono una costellazione dentro cui tracciare le traiettorie di una tormentata evoluzione poetica.

Rilke aveva un’ossessione: l’alienazione del proprio corpo. Immaginava un Altro da sé, subdolo e ambiguo, un simulatore dei suoi stati d’animo da cui scappare e, alla fine della corsa e della fiera, è sempre lei il suo rifugio. L’uomo si lascia guidare dai suoi consigli, e non solo nei momenti di disagio artistico, ma anche nella banalità del quotidiano, quando il dilemma può essere rappresentato dal gusto da preferire per la mousse da acquistare al Natur-Werk di Heiligendamm. Banana o mirtillo? La cosa bella è che, lungi dal volerlo psicanalizzare, al contrario, Lou cercò di scongiurare sempre ogni tentazione di trattamento. Qualsiasi intervento terapeutico dall’esterno avrebbe prodotto solo un’alterazione di quella corrente stabile che insieme avevano stabilito. La corrispondenza fu trentennale e mai la abbandonò la convinzione che si guarisce sempre da soli, che la terapia è già dentro ognuno, che il mostro che ci assedia da dentro è paradossalmente lo stesso che ci libererà, ma solo se sapremo familiarizzarci e farlo diventare creatività. Rainer si confessa con spietata e acuta sincerità, e non senza inevitabili accenti di autocommiserazione e vittimismo tipicamente maschili; si fa accanito esploratore degli intricati cunicoli della sua psiche, alla ricerca della propria arca perduta, anche se il physique du rôle è quello di un Indiana Jones dalla gracile costituzione e dal controllo invero precario della propria igiene mentale. È lei? Risponde sempre con un’intelligenza straordinariamente lucida e con una compassione insolitamente amorevole.

Se non avesse avuto Lou, la sua abilità di penetrazione psicologica e sour tout l’obiettività che spesso manca alle relazioni amorose, specie se travolgenti, Rilke si sarebbe potuto attaccare a un tram, fatalmente destinato a farsi arrotare dalle ansie autodistruttive che aveva ereditato dall’infanzia. Invece, Lou lo legge come nessuna avrebbe saputo fare, come si dovrebbe fare in un rapporto d’amore fiduciario, senza eludere, se necessario, anche verità spiacevoli purché non le si faccia virare verso un linguaggio pseudo-scientifico da psicanalisti della domenica – ah, il sacrosanto incomparabile “buon senso”. Da qui discende, a cascata, lo stile di entrambi, la tersa densità di una scrittura con cui, nel momento in cui ci si apre e si comunicano le proprie esperienze per metterle nella condizione di essere comprese, le si affidano a un linguaggio in cui l’eloquenza della conversazione epistolare acquista la stessa dignità d’arte della prosa narrativa.

A fior di labbra

Tacciono i boschi e i fiumi,
e ’l mar senza onda giace,
ne le spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna; 

e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose.
Amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.

Torquato Tasso, Tacciono i boschi e i fiumi, dalle Rime

Sarebbero tanti i motivi che ci farebbero considerare Torquato Tasso il primo poeta ‘moderno’; non ultimo il suo disordine psichico, diverso da quello degli artisti folli che l’hanno preceduto, a partire da Lucrezio. Lui fu un malato ‘moderno’ perché ‘moderna’ era la sua patologia psichica, quella maladie de l’âme non infrequente e non sorprendente dall’Ottocento in giù, se si pensa a quella lunga teoria di nevrotici che forma il Novecento letterario europeo. E non è un certo un caso che uno dei più grandi tra questi – Giacomo Leopardi – dichiarasse nei suoi confronti un sentimento di “fraternità”. Poeta dolce e tormentato, tragico e sublime, umile e geniale, in perenne e intimo conflitto tra croce e mezzaluna, tra ortodossia ed eresia, e con una non comune capacità di penetrazione psicologica (basterebbe pensare anche solo a quelle protofemministe di Clorinda, Armida ed Erminia, per comprendere dell’animo umano, e femminile in particolare, cose che solo i novecenteschi scavi archeologici nella psiche avrebbero rivelato con pari profondità). Tasso più autentico, a mio giudizio, non è però quello del poema sua gloria e condanna e su cui si ruppe la testa per una vita – la Gerusalemme Liberata -, ma quello lirico di favole come Aminta, laddove risulta più sincero proprio per l’abbandono che si concede alla vaghezza e alla musicalità che furono tregua e ristoro al proprio animo tormentato. E quello delle Rime e dei madrigali come quest’impalpabile Tacciono i boschi e i fiumi.

Fu quella la sua vera natura, cui si abbandonò con struggimento e sensualità; il poeta, insomma, rugiadoso e malinconico, notturno e lunare, che lascia parlare per sé i suoni naturali e i sospiri, e che crea pieni e presenze evocando vuoti e silenzi. Tasso ad eccelso tasso di musicalità in versi perfetti come «e ’l mar senza onda giace» o «sien muti i baci e muti i miei sospiri» che da soli valgono tutta la produzione poetica di un qualsiasi autore contemporaneo che s’illuda di far poesia parlando di bavaglini e ammorbidenti. Con altri madrigali ha in comune il suo essere ‘frammento’ dell’animo con cui componeva il poema maggiore: da quell’effusione del sentimento nell’atmosfera notturna e nella pace lunare, da quel farsi della natura correlativo soggettivo che ciascun lettore ammiratore/amante di Erminia ricorda, deriva una sensazione di malinconia cosmica. Non ci sono brividi, tutto è immobile tranne l’emozione di baci «muti», quasi a fior di labbra, di sospiri attenuati per non turbare l’atmosfera di una natura che ha persino sospeso il suo ciclo per permettere a due creature di amarsi: le onde nel mare si fermano, il vento smette di soffiare, tutto tace, e nel tacere si libera, in slow motion – l’ultimo verso, lentissimo fino all’ultima sillaba – lo struggimento tenero dei sospiri d’amore.

Auguri Faber, amico fragile

Oggi sarebbe il compleanno di Fabrizio De André. Avrebbe 83 anni. Battisti, invece, era tre anni più giovaneSe ne andarono quasi insieme, a quattro mesi di distanza l’uno dall’altro, allo stesso modo, entrambi per un male incurabile. Battisti e De Andrè, pressoché coetanei, sono ancora i due più amati e popolari artisti della musica d’autore italiana. Ma quanta simbolica differenza nella loro ultima uscita di scena, quella del congedo che riassume e ricapitola un’esistenza: il funerale di Battisti nascosto agli sguardi dei più, dietro cancelli serrati e vetri d’auto oscurati che davano alle esequie l’aspetto di un mistery inquietante, disturbante proprio per quel fiscale rispetto di un’assoluta volontà di privacy che nulla concedeva all’amore incondizionato di un pubblico che non aveva e non ha mai smesso di amarlo. battisti-bannerI fiori lasciati sotto la pioggia o davanti all’ospedale davano il senso dell’abbandono che avranno provato le migliaia di persone comuni che si radunavano spontaneamente per ringraziare e ricambiare in quel modo semplice la gioia provata attraverso le canzoni che avevano cantato e con cui erano diventati adulti. Il funerale di De Andrè, invece, fu emozionante al pari di tante sue memorabili ballate, in mezzo a un mare di gente, la stessa che lui aveva cantato e che non veniva esclusa dai familiari i cui volti apparivano perciò quasi trasfigurati da un abbraccio immenso di folla con cui condividere la grandezza di un dolore che riguardava indistintamente tutti. Perché Faber era di tutti, come tutti i grandi artisti. Persino un poeta come Mario Luzi confessò allora il proprio disagio e si scusò per essere «invecchiato nella quasi totale ignoranza del suo talento». Quel diverso modo di congedarsi mi dà il senso della distanza fra Battisti e De Andrè, mi fa amare il secondo più del primo cui riservo tuttavia l’ammirazione dovuta ad un indiscutibile talento, limitandosi ad essere, quest’ammirazione, un sentimento che me lo fa sentire meno mio, meno autentico, come se avesse detto, nelle sue bellissime canzoni, di provare cose che forse non provava affatto. De Andrè invece era come le sue ballate e per questo più interessante e vero e imperituro. I suoi brani, a differenza di quelli di Battisti, non sono fatti per essere cantati, ma per essere pensati e Faber li scrisse pensando a quella gente con cui si riconosceva e che lo riconosceva. Ecco: nella riconoscenza del pubblico, nel riconoscersi reciproco tra artista e pubblico c’è spazio persino per una straniante felicità, quella della gratitudine che si deve ad un’artista capace di raccontare, senza ruffianerie o ipocriti moralismi, la vita di ognuno, le odissee tragiche o ridicole di piccoli eroi, né migliori né peggiori di ognuno di noi. Per il resto, di lui si è detto tutto, tanto che non saprei dire niente di più o di meglio.

C’è una canzone che ho ascoltato centinaia di volte con un groppo in gola, non solo per ciò che dice, ma anche perché mi ricorda una delle ultime esibizioni in pubblico, pochi mesi prima di morire: Khorakhané. Sul palco, con Faber, c’erano i figli Cristiano e Luvi. Alla fine del pezzo, la telecamera lo inquadra per poco più di un secondo, quanto basta per scorgere un padre commosso per l’applauso tributato dal pubblico alla figlia. In quel suo «sollievo di lacrime a invadere gli occhi e dagli occhi cadere» io scorgo l’artista che amo e l’uomo che ammiro. E se mai qualcuno si accingesse a scrivere quella storia della lacrime che auspicava un genio della critica come Roland Barthes, mi piacerebbe immaginare di poterci ritrovare anche questa piccola e umanissima pagina dell’«amico fragile».