La semplessità della libellula

Tu mi ami.
Con precisione
di orologiaio
e di arrotino
che intento affila
la lama e si fa
lama.
Tu mi ami.
Come io fossi il lago
è cosí che mi guardi
contemplando
quando meno mi accorgo
come se avessi un insondabile
fondo
e sorridi
all’enigma dei gorghi
che ti sono amici
perché portano a me.
E tu sei lago
che mi sciogli i muscoli
di atleta stanca
di acrobata invecchiata
tutti i me caduti sparsi
nella corrente,
con quiete
con volontà guaritrice
di acqua che sta.
Amore mio
cucciolo di uomo
guardiano di ferite animali
c’è il mondo
il mondo c’è
e ci intuisce.

Chandra Livia Candiani, Tu mi ami, da La bambina pugile, ovvero la precisione dell’amore

Non si cerchi il profondismo nei versi di Chandra Livia Candiani, essendo la sua cifra lirica riducibile a un concetto che si è andato recentemente affermando con le teorie di un fisiologo della percezione come Alain Berthoz: la semplessità. In un mondo in cui l’uomo è ingabbiato in una complessità che non ha precedenti nella storia, l’amore può soccorrerci e lenire il senso di smarrimento che procura la claustrofobica dimensione del labirinto di sovrastrutture sociali e psicologiche con cui rappresentiamo l’esistente. Amare è semplice come pregare, è disporsi alla richiesta in cambio di una tregua, è hiketèia, la supplica, ovvero la richiesta di protezione a scambio di resa. Amando ci consegniamo agli altri, chiediamo riparo per salvarci. Il rituale della supplica antica – Hiketides è il titolo originale della tragedia Supplici di Eschilo – prescriveva che il supplicante si facesse egli stesso dono, nella propria nudità di essere senziente, offrendo ramoscelli di ulivo o veli bianchi, e raccontandosi al supplicato senza imposture. Ma la supplica è anche un rito di passaggio, segna il confine tra il camuffamento sociale e l’elementare nudità animale, è punto di sutura tra Cultura e Natura. In questa disciplina dell’amore, il supplicante non perde nulla della propria dignità di essere umano per il fatto che implori, anzi, esponendosi senza difese esalta la propria nobiltà di essere vivente che chiede, appunto, di essere semplicemente, cioè di affermarsi ontologicamente, con quella levità che non è leggerezza, ma intuizione e meraviglia, contravveleno alla paura.

Eschilo, e con lui la tragedia greca, ci insegnano che gli atti del chiedere, supplicare, implorare non hanno niente di svilente, nel momento in cui ci mettono in relazione con l’altro e col mondo. L’essere che ama è come il naufrago che chiede aiuto per sopravvivere, il suo desiderio non è tanto quello di scampare alla morte, ma di riconoscere umilmente la presenza nella vita, tutto ciò che lo rende simile agli altri. Egli vorrebbe contemplare il battito d’ali della farfalla da un emisfero piuttosto che la catastrofe che genera nell’altro. Per affrontare la complessità sempre maggiore del mondo gli esseri umani hanno bisogno di soluzioni semplici, ma allo stesso tempo facili, un po’ come fanno i software che ci aiutano a gestire in modo intuitivo operazioni altrimenti macchinose. Un po’ come fa la poesia di Candiani che parla di qualcosa di complicato come l’amore – non complicato in sé, probabilmente, ma reso tale dagli esseri umani – utilizzando un linguaggio e degli scenari facilmente decifrabili.

Amare implica la disposizione dell’arrotino che affilando la lama si fa egli stesso lama, o dell’acqua che si avvita in gorgo da cui lasciarsi trascinare e poi si acquieta in lago che scioglie i muscoli. Ognuno può farsi «guardiano di ferite» altrui e non deve farci paura arrenderci; in un suo libro che s’intitola Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano, Candiani si definisce «una persona abbandonabile», intendendo l’abbandono non come possibilità dolorosa ancorché liberatoria (laddove non esistano le condizioni di un incontro), ma addirittura auspicabile «per incontrarsi davvero, per intendersi senza troppa fatica». Che è sua volta il presupposto per la leggerezza e la grazia di un nuovo incontro, come per le libellule o le farfalle.

Sovrumano silenzio

Anni fa un caro amico mi confidò che tra i motivi per cui preferiva la mia compagnia c’era il fatto che saremmo potuti stati per ore insieme senza parlare, non provando per questo alcun imbarazzo e non sentendoci in dovere di “rompere il ghiaccio” facendo conversazione. C’è un’espressione francese con cui si esprime questa sensazione di disagio che chiunque avrà provato in un gruppo, insieme a persone con cui magari non si ha particolare confidenza: un ange passe. Significa che, nel momento in cui cala il silenzio tra gli astanti, si avverte la presenza sovrumana di un angelo che passa di lì. Un modo di dire che forse ha a che fare con la credenza antica secondo cui i messaggeri degli dei, come Ermes, siano avvolti in un mantello di silenzio quando scendono tra gli umani. Fatto sta che col mio amico passavamo spesso del tempo imbozzolati nella nostra afasia e rassicurati esclusivamente dalla reciproca presenza. Ho capito, da allora, che il silenzio può essere un ottimo termometro della qualità di un rapporto. Esso è un valore, non è l’opposto o la deprivazione del dire, ma il suo presupposto.

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Può sembrare una contraddizione in termini o un paradosso parlarne, ma nemmeno poi tanto, se lo si considera complementare alla comunicazione. E, in effetti, preferisco sempre mettermi in ascolto, prestare più attenzione ai vuoti di una conversazione che al flusso delle parole, a quegli interstizi del linguaggio che sono le pause, i silenzi, le sospensioni dei significati. Nel tempo di quel vuoto che non è assenza o Nulla si addensa più senso che nel ritmo delle parole, peraltro aduse sovente ad essere malintese, soprattutto quando le si usa a sproposito, senza chirurgica precisione. Non che il silenzio sia immune da opacità, ma in determinate circostanze riesce a supplire a tutto ciò che le parole non riescono ad esprimere, proprio per la sua natura polisemica e potenziale.

Basti riflettere sull’importanza che ha in tutti i contesti sociali, sul valore che gli attribuiamo in determinati luoghi e occasioni: in una sala da musica, prima di un concerto sinfonico, nel breve tempo in cui il direttore d’orchestra ne impone il rispetto col tocco della bacchetta sul leggio, per preparare gli orchestrali all’esecuzione e il pubblico all’ascolto e alla concentrazione; a teatro, in cui la tensione scaturisce dal tempo che intercorre tra la recitazione silenziosa dell’attore e quella parlata; nei musei in cui è condizione imprescindibile per entrare in contatto estetico col genio che dà la regola all’arte;

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durante una conferenza o una lezione in cui l’uditorio si dispone all’ascolto del relatore; nelle chiese, come tempo funzionale allo svolgimento della liturgia; in quei templi laici che sono le biblioteche, come indispensabile allo studio e alla conoscenza; nei cimiteri, per rispetto ai defunti, ma al contempo per favorire il dialogo silenzioso tra il vivente e il “cenere muto” – direbbe Foscolo – del defunto (“la madre or sol, suo dì tardo traendo, / parla di me col tuo cenere muto”); nei luoghi di cura in cui viene raccomandato per rispetto dei malati e per l’ausilio terapeutico che se ne può trarre.

Eppure viviamo affetti da una vera e propria bulimia sonora, nel brusio di un costante rumore di fondo che insidia il silenzio e ce lo fa desiderare come necessario. Già a metà del Novecento, lo scrittore e filosofo svizzero Max Picard (Il mondo del silenzio, 1948) denunciava il fatto che nulla più della perdita della relazione col silenzio avesse modificato l’essenza dell’uomo non facendoglelo più avvertire come qualcosa di naturale, al pari dell’aria e dell’acqua.

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Nel 1990 Federico Fellini, il cui cinema orbita per larga parte intorno all’evocazione di questo tema, traeva da Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni un apologo-testamento (La voce della luna) in cui affidava al mite e angelico personaggio di Ivo Salvini, interpretato da Roberto Benigni, la battuta finale del film che suggella tutta la sua opera e in cui il silenzio viene invocato tra gli elementi primordiali della conoscenza: “Eppure io credo che se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”.

Fare silenzio, appunto. Che è qualcosa di diverso dal tacere. Nell’etimologia di quest’ultimo verbo, è come se ci fosse una patina negativa che è quella della passiva astensione dalla parola. “Tacere” deriva da “taceo” che significa “non parlare”, e ha la stessa radice di “reticenza” che è il silenzio di chi sa ma, per interesse o per timore, si astiene dal dire. Il latino dispone però anche del bellissimo verbo “silere”, da cui deriva appunto “silenzio”, che ha relazioni con la radice indo-europea di “si” e “legare”. Il silenzio, insomma, è un legame, ha un significato attivo, orientato verso determinati valori.

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Lo usa Dante nella Divina Commedia quando, alla fine del suo viaggio di conoscenza (Paradiso, XXXII, 49), Bernardo di Chiaravalle si rivolge al poeta dicendogli “Or dubbi tu e dubitando sili / ma io discioglierò ‘l forte legame / in che ti stringon li pensier sottili”. E’ il dubbio a imporre il silenzio al pellegrino, ma il dubbio è l’anticamera della rivelazione, della Verità. Non c’è conoscenza senza il beneficio del dubbio, e non c’è conoscenza senza l’igienico silenzio che la precede. Fare silenzio dentro e intorno a noi è perciò il presupposto per accostarsi all’Essenza, la si intenda come il kantiano noumeno o come Dio. Esso è quanto di più vicino alla preghiera si possa concepire, non per nulla “le anime dedite alla preghiera”, diceva Madre Teresa di Calcutta, “sono anime dedite a un gran silenzio. Non possiamo metterci immediatamente alla presenza di Dio se non facciamo esperienza di un silenzio interiore ed esterno. Perciò dovremo porci come proposito particolare il silenzio della mente, degli occhi e della lingua”. Già l’Enciclopedia della religione, curata da Mircea Eliade, lo aveva rubricato tra le forme più elevate di espressione religiosa, presente universalmente in tutti i culti come momento pedagogico di preparazione all’esperienza spirituale.

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Le regole monastiche su cui si basano altre a partire dal Medioevo, come quella benedettina per esempio, prescrivevano infatti la taciturnitas come disposizione finalizzata al controllo dei sensi, conformemente a quanto trasmesso dai libri sapienziali veterotestamentari in cui il silenzio è un atteggiamento di ascolto e obbedienza ma anche di conoscenza: “porgere orecchio” alla parola di Dio è quanto, secondo San Benedetto, si conviene al discepolo.

La forma che più assomiglia alla preghiera è però la poesia cui la accomuna ciò che Simone Weil nei suoi Quaderni definisce l'”andare mediante le parole al senza-nome”, che Elémire Zolla (Archetipi, 1981) chiama “un silenzio ribadito da parole”, formato di “parole immolate al silenzio”, che T.S.Eliot (Quattro quartetti, 1941) e che tanti poeti hanno riconosciuto come un movimento da e verso un’ineffabile profondità. Tra questi anche Octavio Paz che gli dedica il componimento Silencio:

Così come dal fondo della musica
germoglia una nota
che mentre vibra cresce e s’assottiglia
fino a che in un’altra musica ammutisce,
germoglia dal fondo del silenzio
un altro silenzio, acuta torre, spada,
e sale e cresce e ci sospende
e mentre sale cadono
ricordi, speranze,
le piccole menzogne e le grandi,
e vorremmo gridare e nella gola
si disperde il grido:
confluiamo nel silenzio
dove i silenzi si ammutiscono.

Infinito

Una forma di sgomento che nasce proprio dal silenzio, quella che il poeta esprime, e che conduce all’afasia che ne è altra forma, non dissimile da quella che esprime il laico e materialista Leopardi nella più bella poesia italiana – L’infinito – che mi è sempre parsa come una delle più intimamente religiose. Come intendere altrimenti i “sovrumani silenzi” che si immaginano oltre la siepe-soglia che separa il contingente dal trascendente per cui “per poco il cor non si spaura”? Un silenzio inconcepibile per la finitezza dell’intelletto umano, e quale altro potrebbe essere se non quello di Dio, lo stesso che sgomenta Giobbe che quello finisce con l’abitare e da quello è abitato, il cui grido finisce per perdersi nel Nulla? L’incontro con il divino, con la Verità, con il Tutto è ontologicamente ineffabile, non genera parole, ma solo associazioni mentali (“io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l’eterno”) in cui sprofondare smarriti. Lo sapeva bene anche Dante che, al culmine del suo viaggio poetico ed esistenziale finirà col ribadire l’insufficienza della parola e della poesia al cospetto di un Silenzio ben più grande di quello dell’uomo: Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, / è tanto, che non basta a dicer ‘poco’ (Paradiso, XXXIII, 121-123).

E se non riesce a dirlo Dante, chi sono io per provare anche solo a ridirlo? E qui perciò mi taccio.