L’uomo al punto (esclamativo)

Sul punto esclamativo la penso come Ugo Ojetti, raffinato e colto giornalista che, tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento, raccontò come pochi i costumi degli italiani, e nelle sue Cose viste auspicò il bando, per legge, di questo segno d’interpunzione – «servo scemo dell’interiezione» – confidando così che, non usandolo più, «gli italiani se ne dimenticassero anche nel parlare e nel pensare, e pian piano espellessero dal loro sangue questo microbo aguzzo il quale dove arriva fa imputridire i cervelli e la ragione e rimbambisce gli adulti, accieca i veggenti, instupidisce i savi, indiavola i santi».

Fosse vissuto al giorno d’oggi, avrebbe ricavato una bella nevrosi dal constatare come i punti esclamativi siano diventati ormai come il pistacchio in cucina, polverizzato in ogni piatto, incorporato in ogni impasto, spericolatamente declinato in equilibristici amplessi con panna e pancetta. Sciàmano impazziti come api cui hanno distrutto l’alveare e assordano, col loro ronzio, tanto i post di adolescenti in scalpitante squilibrio ormonale che i ricorsi giudiziari di qualche avvocato – ne ho conosciuti – cui gioverebbe una più salubre ecologia del pensiero da perseguire con pudicizia di prosa.

Ne faccio le spese anch’io, quotidianamente, tra email di studenti che, non sapendo come rivolgersi al loro docente, azzardano un improvvido «Salve prof!» e tesi di laurea in cui càpita di vederli sfilare impettiti, una pagina sì e una no, persino a schiere di tre. Ma io mi rifiuto di vivere in un mondo di tripli punti esclamativi perché se il primo si può rubricare tra le manifestazioni di un giovanile pathos, il secondo come un errore di battitura, dal terzo puoi tranquillamente diagnosticare una pubertà mai superata. La loro vista mi incute più o meno la stessa angoscia che doveva produrre, ai suoi nemici, l’apparizione di Vlad III principe di Valacchia, per intenderci: Dracula, l’impalatore.

«Questo gran pennacchio su una testa tanto piccola» – è ancora Ojetti che parla e dice: «questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo delle bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, questa asta della bestemmia, questo pugnalettaccio dell’enfasi, questa daga dell’iperbole, quest’alabarda della retorica. Quando, come s’usa nei nostri tempi scamiciati, ne vedo due o tre in fila sul finir d’un periodo, che sembrano gli stecchi sul didietro di un’oca spennata, chiudo il libro perché lo sento bugiardo».

Del resto a chi poteva venire in mente il punto esclamativo, se non agli italiani, popolo così poco incline al dubbio; non era ancora il Quattrocento che il più autorevole degli umanisti, Coluccio Salutati, lo usò per primo, insieme alle parentesi (anch’esse non codificate), copiando di suo pugno i testi antichi.

Sarà per via del suo abuso negli sms, da cui tracima insieme alle emoji, come l’acqua dagli argini di un fiume in piena, fatto è che scrivere ormai semplicemente «grazie» o «auguri», senza farli puntualmente seguire da un punto esclamativo, ti sembra quasi una mancanza di riguardo, un anodino convenevole.

E fu così che i punti esclamativi hanno cominciato a sfilare come in una falloforia, e a essere maneggiati come l’attrezzeria di una pratica bondage o come le fruste penitenziali nelle processioni dei flagellanti. Moltiplicandosi, avviliscono l’idea stessa del dubbio, condannano all’oblio segni più discreti come la virgola o il punto e virgola. Il punto esclamativo è più che altro un punto interrogativo in stato di eccitazione; serve a enfatizzare le parole perché esprimano, in genere con irruenza, quel che vogliono significare. Per cui va bene se lo usa un rockettaro nel testo di una sua canzone, ma è irredimibile per uno studioso che lo usi in un saggio (e ne ho letti alcuni che lasciavano propendere più per un tic che per un occasionale malvezzo stilistico). Perché a un critico e a uno studioso non serve urlare quanto convincere, per cui (vado a memoria, citando da un autorevole manuale di stile) «se vuoi attirare la mia attenzione, lo devi saper fare facendo dialogare sapientemente lessico e sintassi», dal momento che alla forza persuasiva dell’argomentazione non si addice mai l’entusiasmo immaturo e con data di scadenza del punto esclamativo. Quello lascialo pure ai segnali stradali che indicano pericolo o alle chat di Whatsapp.

E mi rivolgo infine ai miei amati studenti, e soprattutto ai tesisti: voi che vivete tra parentesi, anche se non ve ne rendete conto fino in fondo; voi che pensate che un testo sia come una ruota di pan di spagna da farcire con una spessa crema di parole, e su cui far piovere una gragnuola disordinata di segni di punteggiatura; voi che considerate le virgole come muffe che crescono negli interstizi del discorso, come le bolle d’aria nel pluriball degli imballaggi; voi che considerate il punto e virgola come un elemento spurio a distribuzione stocastica e pensate di poterne fare pacificamente a meno, salvo poi a farvi mancare l’aria senza i puntini di sospensione o gli ecc. ecc. in cui trova espressione solo il non sapersi esprimere; voi che vi paracadutate senza rete nel flusso di coscienza di pagine da leggere in apnea, ricordate che la scrittura è come una freccia che viaggia verso un bersaglio.

La precisione della sua traiettoria è determinata dal modo in cui prepariamo l’arco: tendendolo (né troppo né troppo poco); mantenendolo in equilibrio; trattenendo la corda per il tempo esatto che serve, oltre il quale si rischia che i muscoli del braccio non sostengano più lo sforzo. E infine immaginatevi i segni di punteggiatura come le parti che compongono l’arco.


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Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del punto e virgola. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: ministri e deputati; scrittori e professori; allenatori e calciatori; studenti e influencer. Il più negletto tra i segni di punteggiatura è tollerato, al più, come incongrua pecetta infralinguistica, disancorata da un suo uso effettivamente funzionale, un po’ come le fugaci apparizioni di Hitchcock nei suoi film o i messaggi subliminali e satanici che si potevano udire nei vinili delle rock band, suonati al contrario. Insomma, per dirla con un neologismo pescato dal Pasticciaccio di Gadda, quando proprio va bene il suo uso è cinobalanico («l’orgasmo cinobalanico dell’antecipato giudizio»), dal greco κύων, κυνός (kyon, kynòs «cane») e βάλανος (balanos=glande). Se non fosse che serve, nei messaggini, a fare l’emoji che fa l’occhiolino – 😉 – non se lo filerebbe nessuno e lo si potrebbe anche togliere dalle tastiere.

Sarà per quella sua posa leziosa che si fa beffe dell’austera assertività del punto o della minacciosa perentorietà dei due punti, fatto è che lo amo; è come lo sbuffo di profumo da vaporizzare sul collo prima di uscire per andare a un appuntamento galante. Non c’entra niente con la sostanza, ma dice tutto delle sfumature; serve, infatti, a mettere in relazione due segmenti di frasi tra i quali c’è nesso logico, ma non sintattico. Quindi, si direbbe che è come un lubrificante del pensiero, serve a vivacizzare il periodare pallido e assorto. Lode, perciò, al grande editore Aldo Manuzio che lo inventò nella seconda metà del Quattrocento. Manzoni, insuperato lavandaio in Arno, ne fa usi notevoli, come quando mette di fronte un untuoso Don Rodrigo che si autocandida “protettore” di Lucia a un titanico fra Cristoforo che gli taglia le gambe proprio con un punto e virgola, adoperato a mo’ di sprangata sui denti del signorotto: «… la vostra protezione! Bene sta che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colma la misura; e non vi temo più». Il punto sarebbe stato troppo e la virgola troppo poco; ecco allora che quell’esatta e studiata pausa amplifica perfettamente il tono fermo della perentoria frase finale: «non vi temo più». E Don Rodrigo se la prende così in saccoccia.

Una nota teoria evoluzionistica affermava che «la funzione crea l’organo», ma perché questo si sviluppi occorre l’uso. Che fine ha fatto, oggi, il punto e virgola? Qual è il suo stato di salute? Se non è morto, poco ci manca, compagno di sventura del congiuntivo, vuoi per sporadico utilizzo vuoi per il suo definirsi più per “sottrazione” – non è un punto e nemmeno una virgola – pur potendosi riconoscergli, rispetto ai suoi parenti prossimi, anche delle non trascurabili peculiarità ritmico-prosodiche. Assuefatti all’idea della semplificazione argomentativa, aborriamo tutto ciò che è dubbio; tra l’evidenza indicativa e la sfumatura possibilistica ci facciamo attrarre dalla prima e così il congiuntivo e il punto virgola finiscono per stare alla lingua come l’ombretto alla matita per gli occhi. Uno sfuma, l’altro marca. Eppure l’italica genìa che ha ereditato il gusto per la guicciardiniana discrezione, così poco avvezza alle decisioni chiare e propensa piuttosto alle causidiche distinzioni, dovrebbe adorare il punto e virgola. E invece lo snobba. Come una cosa inutile

Ricordo una mia compagna di classe che, al liceo, aveva evidenti problemi con la punteggiatura. Non ne azzeccava uno che fosse uno. I suoi temi erano flussi di coscienza che Virginia Woolf si sarebbe scansata; ricordo che, una volta, consegnò alla professoressa d’italiano un compito in cui non c’era nemmeno una virgola per sbaglio. Roba che nemmeno il monologo di Molly Bloom nel più sopravvalutato dei romanzi moderni – l’Ulysses di Joyce, ça va sans dire. Ebbe, però, l’accortezza di aggiungervi un riquadro, alla fine del foglio, un recinto a matita in cui erano accatastati, alla rinfusa, tutti i segni di punteggiatura, con una didascalia per l’insegnante: “li metta lei dove servono”. Geniale. Perché coglieva, così, una verità ancor oggi drammatica, e cioè che non si dedica abbastanza attenzione, a scuola, all’uso corretto dei segni d’interpunzione. Se solo si cogliesse come il punto e virgola possa diventare il piede di porco che scardina un’arrugginita serratura argomentativa, non riusciremmo più a farne a meno. Quindi, dissento affatto dallo scrittore americano Kurt Vonnegut che, in una sua lezione di scrittura creativa, ne scoraggiava l’uso definendolo «un ermafrodita travestito che non rappresenta assolutamente niente, se non che si è stati al college». Sto più dalla parte di Pietro Citati che reputava il suo assassinio «molto più grave dell’assassinio di padri, madri, figli, figlie, mariti, mogli, nonne, cognati di cui parlano con infinita voluttà i nostri giornali». Perché è la ricchezza stessa del pensiero complesso ed elegante, un po’ come l’accordo diminuito in uno standard del jazz, come la tinta pastello in una tavolozza di colori primari, come la nebbiolina sul mare che sfuma la vista dell’orizzonte. Qualcosa da preservare con ossuta determinazione, da custodire con materna sollecitudine. Dio salvi il punto e virgola.