Jacques Prevert, Les enfants qui s’aiment, da Spectacle, trad. di F. Bruno
Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout | Contre les portes de la nuit | Et les passants qui passent les désignent du doigt | Mais les enfants qui s’aiment | Ne sont là pour personne | Et c’est seulement leur ombre | Qui tremble dans la nuit | Excitant la rage des passants | Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie | Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne | Il sont ailleurs bien plus loin que la nuit | Bien plus haut que le jour | Dans l’éblouissante clarté de leur premier amour
Per molti – giovani soprattutto – Jacques Prévert è sinonimo stesso di poesia d’amore. Facile talvolta (anche troppo), la si può incontrare in una qualsiasi alluvione di citazioni dai social come nei bigliettini dei baci Perugina. Tanto spontanea e sincera quanto la domanda che si affaccia alla mente del lettore più smaliziato che alla poesia non chiede di comunicare, ma di alludere, di scavare dentro i nostri più ineffabili recessi: fu vera gloria? Sì, tutto sommato sì. Ne sono convinto, se ripenso al ragazzo che ero quando tremavo ai versi della più caramellosa poesia del francese (Cet amour), a quelle parole che miravano dritte e precise al cuore di un quattordicenne ignaro e lo facevano sporgere senza rete sull’abisso dell’amore, nel modo più diretto e immediato, elementare senza essere banale. Un poeta da taschino, insomma, utile come un sottogiacca da indossare in qualsiasi stagione, piacevole come una caramella alla frutta da rigirarsi tra lingua e palato, essenziale come i menu dei fast food che servono per lo più a saziarti. Insomma: uno che non ti fa gonfiare il cuore come Garcia Lorca o commuovere come Lee Masters, ma la cui complessità risiede altrove, nella capacità di attraversarlo per intero il sentimento, in ogni stazione: dal balenìo dell’istante in cui nasce, alla densità del ricordo, allo struggimento della fine. I «ragazzi che si baciano in piedi | Contro le porte della notte» erano i quattordicenni come me che non avevano ancora studiato la grammatica dell’amore e ne cercavano le sillabe nelle canzoni, come fa anche oggi qualsiasi ragazzo. E non ti faceva paura Prévert, come magari te ne faceva Dante quando andavi a scuola, perché la poesia te la avvicinava, te la rendeva familiare, ti metteva in mano una penna e sembrava dirti: «puoi dirlo anche tu, anzi: dillo». Anche tu cominciavi così a scrivere versi, non importa quanto maldestri. Prévert spogliava la letteratura di ogni complicazione, te la metteva in tasca e ti bastava frugarci con una mano per trovare tutte le ebbrezze di una vita che stava iniziando, di una vita in cui avevi appena finito di giocare con le automobiline o le bambole e iniziavi a trastullarti con l’amicizia, coi primi baci rubati in un vicolo, col profumo che ha la pelle quando si è giovani, col sale delle prime lacrime di un cuore infranto. E soprattutto imparavi a fregartene di quegli adulti che ti segnavano a dito e che avresti imparato più tardi a compatire, avendo capito che ciò che li spingeva a farlo era solo l’essersi dimenticati di cosa vuol dire essere ragazzi.
Maledetta didattica a distanza! Maledetta perchè mi impedisce di guardare negli occhi i miei studenti, perchè mi perdo nella fissità di un monitor che rimanda pulsanti, menu e comandi con cui maldestramente armeggiare. E io invece affogo nell’imbranatezza che mi fa perdere tempo cercando di condividere una lirica o un’immagine di cui vorrei discutere. D’accordo: è una necessità dettata dall’emergenza, dalla consapevolezza del rischio che corriamo in questo momento, e la ragione – ma solo in questo caso – ha ragioni che il cuore non conosce. La salute prima di tutto, e lo sottoscrivo. Ma fosse per me, li vorrei tutti accanto gli studenti, com’era prima della fine del mondo. Mi mancano. Mi manca la battuta scambiata fuori dell’aula prima o dopo la lezione, il motto di spirito intercalato tra una chiosa a margine di un verso di Petrarca e la divagazione sul sisma esistenziale causato dalle infatuazioni giovanili, i sorrisi di chi si affaccia a un nuovo corso della vita con la bussola dell’entusiasmo, lo stesso che incoraggia il tuffo nel mare aperto del futuro. Qualcuno dirà che esistono attività (come quelle sperimentali o di laboratorio) per i quali non è nemmeno ipotizzabile lo svolgimento da casa. Io dico che non esiste proprio alcuna disciplina, e direi tanto più per quelle cosiddette “umanistiche”, che muovono dall’assunto della centralità dell’essere umano e non della macchina, in cui il rapporto vivo, presente, fisico con gli allievi possa essere surrogato da qualsivoglia forma di pedagogia in remoto. Ogni sapere si progetta e si costruisce a partire dal confronto vivo, da sollecitazioni attive e lo scopo della letteratura è proprio quello di rendere “presenti” parole e idee concepite secoli prima e che resistono solo a condizione di saperle rianimare in aula. La relazione educativa è un problema di comunicazione complesso che prevede coinvolgimento attivo, diretto, non semplice scambio di file, dispense e videolezioni.
Per quanto si cerchi di riprogrammare i docenti subordinandoli alla téchne, l’arte dell’insegnamento vive degli stessi princìpi: cisono docenti che si definiscono per ciò che sanno e altri per ciò che sono. Non so a quale delle due categorie appartenga e comunque non spetta a me dirlo. Gli unici titolati a farlo sono gli allievi che ho cercato di aiutare a capire chi fossero, e a cui ho semplicemente raccomandato di essere il meglio di qualsiasi cosa provassero a essere. Non dico quelli che ho “formato” poiché nel verbo c’è come un’implicita considerazione dei giovani come di cera molle da plasmare, appunto perché informe. E invece i giovani, almeno quelli con cui ho a che fare all’università, una forma ce l’hanno già, talvolta anche molto precisa, anche se hanno bisogno di riconoscerla e valorizzarla. Se devo pensare quindi a ciò che vorrei essere per loro, mi vengono in mente solo i professori che ho amato e a cui cerco di assomigliare, mi chiedo cosa pensino, da cosa sia scaturita la mia stima per loro, e mi dico della necessità di non lasciare mai un’immagine sfocata di sé stessi. Rifletto su come sia decisivo e vitale dimostrare che, a monte dei libri che leggiamo e delle pagine che scriviamo, c’è il credere nello studio come a una sorta di montaliana occasione, un grimaldello con cui scardinare la porta verso un mondo altro, parallelo a quello reale, in cui abitano idee e moralità che sono “per caso” anche nostre.
Per alcuni giovani che ho laureato, ho trepidato e gioito come se fossi stato io a sostenere l’esame. Li ho assistiti e aiutati a preparare la loro prova finale, ma lavorando di cesello, senza essere invasivo, assecondandone le idee, non pretendendo di essere il vaso pieno che riempie quello vuoto, incoraggiandoli quando si demoralizzavano, incuriosendoli con una battuta o un’ipotesi lasciata intenzionalmente a galleggiare nella loro mente, confidando nella capacità che avrebbero avuto di tracciare autonomamente un percorso su cui procedere, rispettando il loro diritto a sbagliare, ma soprattutto quello di rendersi conto da soli degli errori. L’alleanza tra un docente e uno studente è polemica, nel senso del Πόλεμος o pòlemos, della necessaria controversia, cioè, affrontata con spirito di comprensione, con la volontà di capire e far capire, con la possibilità di un vincere che non è convincere. Questo è possibile a condizione di uscire dalla torre d’avorio delle proprie certezze e conoscenze e incontrare – in presenza – lo studente, per conoscerne le attese e la storia intellettuale (cosa legge, cosa guarda, come parla).
Insegnare significa, letteralmente, lasciare un segno, un’orma, non semplicemente trasferire dei contenuti: essere come Socrate che, nel Simposio, si rifiuta di rispondere alle domande di Agatone mostrandosi lui per primo un collettore di domande, desideroso di apprendere. Entrare fisicamente in aula significa pretendere di fondare uno spazio tenuto insieme dalla lealtà e dal bisogno tutto umano di conoscere prima di poter giudicare. E tutto – leggere, scrivere, interpretare, studiare, dibattere, dubitare – dev’assumere le forme di un’unica grande Lezione. L’aula, non importa se sgarrupata o high tech, è un’eterotopia della società, nel senso in cui la intende Foucault: uno di quegli spazi, cioè, «che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano». E’ un ring del pensiero o un reagente che interviene attivamente nella performance di ogni docente: quante volte mi è capitato di “capire” veramente cose che spiego da anni – nel senso di vederle in una luce nuova – nel momento stesso in cui mi trovavo a spiegarle, magari perché sollecitato da una domanda imprevista e innocente di uno studente che la poneva premettendo, a sua excusatio non petita, «forse è una domanda banale»? In aula non si consegnano informazioni, ma ogni docente mette in gioco sé stesso, prima di tutto, dicendo «Io» e chiamando individualmente in causa ogni studente. Che è quanto ripeto ai ragazzi ad ogni mia prima lezione di un nuovo corso: non vi aspettate da me risposte, ma accontentatevi di tutte le domande e i dubbi che riuscirò a suscitare in voi. Pretendere che sia io a fare un giovane allievo non mi dà la soddisfazione che darebbe l’essere lui a scoprire me. Che non significa “essere amici”, ma riconoscere le rispettive diversità relative.
Come scrisse Victor Hugo, a metà dell’Ottocento, nel suo Sul libero insegnamento, «istruire, gli è costruire. A me non basta che le vegnenti generazioni ci succedano, intendo ancora ch’esse ci continuino». Che siano anzi, dico io, migliori di me. In quell’incomparabile poema del mondo terreno che è la Divina Commedia, Dante incontra il suo maestro Brunetto Latini all’inferno, tra una torma di peccatori, ma ciò non gli impedisce di riconoscerlo e celebrarlo come colui che lo aveva iniziato alle lettere e alla filosofia, gli dice che, anche in quel luogo di sofferenza, nella mente gli è fitta e lo «accora la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna». E Brunetto a sua volta riconosce in Dante l’allievo che saprà mettere a frutto le sue lezioni, gli raccomanda: «Se tu segui tua stella, / non puoi fallire a glorïoso porto, / se ben m’accorsi ne la vita bella». Funziona più o meno così il discepolato.